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11 - Che il gallo canti pure. Ritratti
13 domande a Milton Hatoum
lunedì 13 settembre 2004, di
Istruzioni per l’uso:
Quest’intervista è stata fatta da studenti paulisti per un pubblico brasiliano, per cui si danno per scontate conoscenze di letteratura locale che non sono obbligatorie in Italia ed Europa.
Viene molto citato Euclides da Cunha, ingegnere militare, membro di spedizioni scientifiche, esploratore dell’Amazzonia poi corrispondente di guerra nelle azioni compiute dal potere centrale nella carneficina di Canudos nell’entroterra di Salvador (Bahia), dove un gruppo di diseredati capitanati dal santone messianico Antônio Conselheiro, viene massacrato da un’imponente e ottusa macchina militare inviata da Rio de Janeiro. Il suo testo Os Sertões (1902) ne raccontò le vicende e divise il Brasile, diventando un riferimento della letteratura del Novecento.
Davi Arrigucci jr., il cui cognome mostra un’origine italiana, come molti nel sud del Brasile, è collega di Milton Hatoum nelle cattedre di Teoria della Letteratura e Letterature Comparate all’USP (si pronuncia: uspi), l’Universidade de São Paulo.
Milton Hatoum ha pubblicato Relato de um certo Oriente (1989), São Paulo, Companhia das Letras, edito in Italia da Garzanti (1992) come Ricordi di un certo Oriente, tradotto da Amina di Munno e ahimé esaurito. Nel 2000 esce Dois irmãos, sempre per la Companhia das Letras. In Italia il titolo presumibile sarà I due fratelli, la traduzione sempre di Amina di Munno.
Non essendo ancora uscito, questo libro viene citato con il suo titolo originale, mentre per il primo viene usato il titolo tradotto.
Nella traduzione si è rispettato il ritmo, decisamente oralizzante, della punteggiatura originale.
Alberto Sismondini

Revista Magma
Universidade de São Paulo
13 domande a Milton Hatoum
1. Potrebbe parlarci brevemente del suo percorso come professore di letteratura francese all’Università e come romanziere? Come, nella sua esperienza, queste due scelte si legano?
Milton Hatoum: Sono stato professore di lingua e letteratura francese dal 1984 al 1998. Ero appena tornato da un lungo periodo in Spagna e Francia e non sapevo che cosa avrei fatto a Manaus. Se non fossi ritornato in quel momento, non so... probabilmente sarei rimasto molto più tempo in Europa. In verità mi mancava tutto... Ho passato circa diciotto anni lontano dall’Amazzonia, e dopo un certo periodo, la distanza diviene come una lama a doppio taglio e l’assenza prolungata ti sottrae un poco di linfa, diventa un problema. A Manaus inoltre ho fatto alcuni progetti di architettura, ma quello che mi interessava erano i progetti di case popolari. Quella era la grande questione nella nella FAU (1) negli anni ’70, con i bastoni tra le ruote e gli impasse della dittatura.Ancora fino ad oggi è un problema che continua ad essere pendente. I poveri in Brasile sono obbligati ad abitare in case piccole, è l’archittetura vergognosa della piccionaia. Non c’è pianificazione urbana, non si pensa ai trasporti, all’ambiente, ai servizi, alla relazione tra casa e lavoro, al reddito di una famiglia, a nulla.
Appena laureato, nel 1978, ho insegnato in una facoltà di architettura a Taubaté (2) . Qualche anno dopo, ho cercato di partecipare a un grande progetto residenziale alla periferia di Manaus, ma ho subito sentito puzza di bruciato e mi sono chiamato fuori. È stata una delle grandi devastazioni della foresta e oggi quel quartiere è una città proletaria e di classe media che fa parte di Manaus. Da allora ho abbandonato l’architettura... e ho cominciato a insegnare all’Università Federal do Amazonas. È stato il modo che ho trovato per unire la letteratura al lavoro.
Ad essere sincero, l’esperienza di professore non ha mai ostacolato quella di scrittore. Al contrario, una alimenta l’altra. Il romanzo che avevo cominciato a Parigi (Ricordi di un certo oriente) venne concluso a Manaus. Questo nel 1986, più o meno, ma venne pubblicato solo nell’aprile dell’89. Qui alla USP, mentre studiavo architettura, assistevo a diversi corsi di letteratura e di teoria letteraria. Quello è stato fondamentale, servendomi da base per le mie letture e per l’attività di scrittore e di docente. Ma penso che un buon romanziere non abbia bisogno di conoscere la teoria letteraria, deve essere un buon lettore e amare scrivere. Ma quando lavori con la lettura critica del testo devi indagare di più, cerchi relazioni simboliche e sociali, cerchi di scoprire le strategie narrative per situare il lavoro al tempo dell’autore ecc. Questo lo fai con gli studenti, che danno sempre stimolo alla lezione. Una buona lezione genera una buona discussione, un dibattito. Quello che veramente disturbava era la mancanza di tempo.
Perché scrivere significa, innanzitutto, leggere e rimanere a pensare tutto il tempo alla trama, ai personaggi al narratore. Si rimane girando attorno, circondando le idee che si sono più o meno costituite, e quando si comincia, la cosa prende un suo ritmo, si forma, a volte confusa, ed è meglio prendere il toro per le corna. Ma sono sempre successe cose curiose a lezione. A Manaus, la tradizione del pettegolezzo, che viene dall’oralità, è molto forte. Tutti hanno una storia da raccontare, una barzelletta, un litigio qualsiasi, con digressioni interminabili, e qualcosa può servire come materiale narrativo.
2. Di che cosa tratta la sua ricerca nel Dipartimento di Teoria Letteraria e Letteratura Comparata dell’Università di San Paolo?
M.H. Sono vari saggi sull’opera di Euclides da Cunha, soprattutto sulla prima parte del libro À margem da História [Al margine della Storia] del 1909. Ho pubblicato uno di quei saggi nel “Cadernos de Literatura Brasileira” dedicato a Euclides (Expatriados em sua própria Pátria, Instituto Moreira Salles, 2002). Il viaggio dello scrittore in Amazzonia fu importantissimo per la comprensione del Brasile. Passò laggiù quasi un anno, a contatto con i nativi e con avventurieri, immigrati stranieri, emigrati dal Nordeste seringueiros e proprietari delle zone di raccolta del caucciù (seringalistas), ne comprese le relazioni di lavoro, denunciò la barbarie ai confini del Purus ma relazionò quello sfruttamento in un contesto più ampio, quello del Brasile e delle metropoli europee, dove era esportata la gomma dell’Acre. Ho cercato di analizzare questa relazione con un saggio su Judas Ahsversus, in cui Euclides riprende il vecchio topos del Theatro Mundi, facendo dell’erranza del Giuda scolpito un’immagine dello stesso seringueiro, che rivela la sua dimensione di miserabile agli occhi degli abitanti delle metropoli. È uno dei più bei racconti di Euclides, scritto senza molta pompa, cioè attenuò l’enfasi espressiva e concentrò la sua scrittura sul dramma dei seringueiros del Purus.
Questo cambiamento di stile non fu gratuito, aveva altre implicazioni. Quello che mi pare chiaro è il salto critico, addirittura ideologico che appare in À margem da História. Il determinismo dell’ambiente, le questioni razziali, tutto quello che non era così predominante come ne Os Sertões. Credo che la grandezza di quel libro e una deferenza critica molte volte in termini encomiastici abbiano cancellato l’importanza dei saggi amazzonici. Il grande sogno di Euclides era quello di scrivere un libro sull’Amazzonia, che certamente lui conosceva meglio del sertão. L’Amazzonia fu la sua casa per un anno, mentre il sertão di Bahía fu un luogo di passaggio. E il grado di esperienza e di vita in ogni regione si è ripercossa sull’opera.
3. In Ricordi di un certo Oriente, come ha ben annotato Davi Arrigucci Jr., la costruzione del romanzo la si ottiene mediante l’evocazione della memoria, come se la coscienza presente del narratore cercasse di tessere, attraverso due fili di immagini e di sensazioni depositate nel ricordo, il proprio romanzo. In che misura questa esperienza della memoria puo essere intesa come una risorsa principale dei suoi romanzi?
M. H.: Questo ha qualcosa a vedere con le mie letture e con la mia vita. Alcuni dei grandi romanzi evocano la memoria, anche la poesia, e non solo quella elegiaca. Memory, you have the key, dice il poema di Auden. Il vecchio bravaccio Ribaldo (3) ricorda il tempo intero, ma è l’esperienza della memoria come linguaggio che mi interessa: l’opera di Pedro Nava (4) è una bella lezione. Molto di quello che ho scritto viene dall’incrociarsi o dall’incontrarsi del passato con il presente. È qualcuno che evoca nel tempo presente uma esperienza del passato. Vuol dire che porta i drammi da lontano verso il momento della narrazione, che non è il giorno odierno, ma un momento del passato più o meno presente. Penso che questo distanziamento sia fondamentale. Scrivere su quello accadde ieri od oggi è materiale per la cronaca. Il fatto di essere andato via molto giovane da Manaus sia stato decisivo. A quindici anni lasciai genitori, amici e la vita di provincia. Questa convivenza, bruscamente interrotta, fu un taglio, una rottura. La memoria partecipa a questo fatto nella misura in cui provoca un ritorno immaginario, qualche lacuna che non possiamo più recuperare. La memoria è l’unica sfida al passato, di fare i conti con lui, sia attraverso un’immagine, una storia orale o scritta. È come se, di fronte a una rovina, noi cercassimo di immaginare la casa prima della sua demolizione o distruzione: chi ci abitasse, come e in che modo vissero quelle persone, come si relazionassero tra loro, ecc. Il punto di partenza sono quelle rovine, e la narrazione è un tentativo di immaginare la loro storia, ricostruirla e ritornare a qualcosa che già non esiste più.
4. Approfondendo un poco il ruolo della memoria nella costruzione dei suoi romanzi, nel quale avvicinerebbe e differenzierebbe i narratori di Ricordi di un certo Oriente e Dois Irmãos, visto che in entrambi il ricordo della vita familiare sembra essere il punto di partenza della narrazione?
M. H.: I due narratori hanno qualcosa in comune : la posizione sociale e familiare, e la memoria o invenzione di una storia di una famiglia. Entrambi si trovano dentro e fuori del cerchio familiare, vedono i personaggi da un angolatura differente. In fondo, sono narratori situati ai margini delle loro famiglie. È curioso, perché solo a metà di Dois irmãos è che mi sono reso conto del parallelismo tra i due narratori. Prima di scrivere avevo un’idea un poco vaga. Allora loro si avvicinano a quella posizione che hanno in relazione agli altri. La narratrice di Ricordi scrive una lettera al fratello, e in quella narrazione epistolare lei fa della voce degli altri una unica voce. In Dois irmãos ho cercato di lavorare sotto un’altra prospettiva... Il narratore si coinvolge nella trama e si trova al centro dei conflitti. Per questo ci sono più scene, cioè è più drammatizzato di Ricordi.
5. In Ricordi di un certo Oriente, abbiamo una narratrice la cui voce è decisamente relativizzata dalla presenza di altre voci che, assieme alla sua, compongono il racconto, in modo da crearsi una polifonia. Già in Dois Irmãos, nonostante gli altri personaggi contribuiscano alla composizione narrativa, cioè alimentino la memoria del narratore, lui è l’unico responsabile di quanto viene raccontato. In questa differenza di centralità tra la voce della narratrice di Ricordi e di quella del narratore di Dois irmãos sarebbe implicata una questione di genere?
M. H.: Penso di sì. Ricordi è molto più evocativo, il tono si avvicina all’elegia con un certo lirismo, menzionato da Davi Arrigucci Jr. La trama è diffusa, molto sciolta, che in sé non è un problema, ma può essere una delle tante variazioni del romanzo come genere... I francesi lo chiamano récit de mémoire. Questo vuol dire che è allo stesso tempo una forma di memorialismo e una costruzione letteraria. E poiché il romanzo è un genere onnivoro, dá l’impressione che tutto possa andare bene. Ciò che mi interessava nel Ricordi era di comporre un fascio di voci, ciascuna delle quali con una versione differente o antagonista del passato. Mi ricordo che fu faticoso montare quel rompicapo, dando ad ogni personaggio una visione sui drammi dello stesso personaggio-narratore e degli altri. In Dois irmãos ho cercato di fare di Manaus un personaggio, ho voluto dare un senso più storico e allo stesso tempo politico alla narrazione. Molto materiale su Manaus è realmente esistito o esiste tuttora. I lettori più giovani pensavano che tutto fosse invenzione, è lì che si sono resi conto che alcuni luoghi menzionati nel romanzo erano stati totalmente distrutti negli ultimi trent’anni. Penso che la struttura sia proprio più romanzesca, nel senso più convenzionale di genere, con i suoi motivi, caratterizzazione dei personaggi, andamento temporale e tutto quel batti e ribatti che si trova nei romanzi.
6. L’esperienza “interstiziale” del narratore di Dois Irmãos (allo stesso tempo dentro e fuori della famiglia) non sarebbe la condizione dello stesso scrittore, la cui opera è il risultato di un interesse molto personale ma allo stesso tempo mediato dall’attività letteraria e dalla scrittura artistica?
M. H.: Nael (il narratore) è uno dei pochi sopravvissuti. Sua nonna gli chiedeva di raccontare, senza fretta, le scene che vedeva e le storie che udiva in città e tra il vicinato. Una specie di tira e molla, che è uno dei suoi compiti nella casa, ma è anche qualcuno che osserva, medita e critica. Un narratore testimone, che attende che la casa crolli per poi, in quel momento, raccontarne la storia, che è la storia di una famiglia e fino a un certo punto, di Manaus, che ha anche relazioni con San Paolo, nella traiettoria di vita di uno dei fratelli. Le aspettative e il destino dei due fratelli, tra Manaus e San Paolo, sono seguite dal narratore. Il suo posto, in una stanzetta del retro della casa, è quanto ha ereditato, è quanto non è stato sfigurato dal casermone divenuto un negozio di stranieri. È in quello spazio che lui scrive , spazio esiguo alla frontiera tra il magazzino indiano e la casa-alveare vicina...
Lui vive e scrive lì; tra la vita e il lavoro si trovano l’imaginazione e la sua concretezza: il linguaggio, che è una mediazione, una delle forme di vedere il mondo, cioè , trascenderlo. C’è un po’ della mia vita, è chiaro. Ho passato anni a scrivere in una stanzetta, quasi sempre a mano, a causa dei blackout che, più tardi hanno causato problemi in Brasile. A Manaus e nell’interno dell’Amazzonia, questi blackout esistono da lunga data e avvenivano senza preavviso. Allora ho immaginato la situazione del narratore, solo, nella città senza luce, ripassando in rassegna la vita di una famiglia, fino all’incontro finale con uno dei fratelli, che è anche un punto finale di un capitolo della vita del narratore stesso.
7. Un altro elemento che avvicina i suoi romanzi è una certa esperienza sociale e geografica, nella descrizione delle famiglie di immigrati libanesi, nel taglio storico della metà del ventesimo secolo, nell’appropriarsi di fatti marcanti dell’esperienza collettiva del paese e, specialmente nell’ultimo romanzo, nel deambulare tra gli ambienti della casa di famiglia, per le vie di Manaus e per gli affluenti del Rio delle Amazzoni. Sarebbe possibile immaginarci una congiunzione tra una topografia affettiva e un’altra sociale nei suoi romanzi?
M. H.: Sì, perché sono indissociabili. E le culture non sono a tenuta stagna, non ci sono frontiere rigide tra loro. Per questo non mi piacciono le classificazioni, del tipo “letteratura di immigrazione o di immigrati”. Quella è una facilitazione, una comoditá terminologica. È molto facile classificare, non è vero? Mio padre era immigrato, ma neppure lui credeva a una vita gregaria, chiusa, di una comunità. Lui, che era musulmano, non mi ha obbligato né ha voluto che io aderissi alla religione. La mia famiglia non ha mai partecipato a club comunitari, parrocchie di immigrati e cose simili. Rispetto il gregarismo sociale, religioso o etnico, ma se quello diviene esacerbato può annullare l’interesse, la curiosità o proprio la necessità che l’essere umano ha di conoscere altri popoli. Il gregarismo può divenire addirittura una barriera politica e una enorme limitazione intellettuale, perché corri il rischio di non interessarti ad altre culture e molte volte non ti accorgi della sofferenza e la disperazione delle altre comunità.
Per me è stato molto importante avere studiato in scuole pubbliche, che ho condiviso con giovani di tutte le classi sociali. Inoltre, tutto era molto mischiato a casa mia. Due religioni, due lingue e tutto quell’ambiente di provincia festivo e autofagico allo stesso tempo, tutto quello si è riflesso nella narrazione, nei conflitti tra i personaggi o come spunti per il romanzo. Ma nei due romanzi, i personaggi immigrati si sono già adattati al nuovo luogo, fanno parte di quella società. I drammi non si riferiscono a un ritorno nostalgico al paese di origine, ma a quello che succede in una casa di Manaus. Ci sono elementi della cultura araba e di altre, di quella amazzonica, che, a sua volta, mantiene legami con altre culture: portoghese, italiana, spagnola, brasiliana di varie origini, nordestina o indigena.
Euclides aveva capito questo nel gennaio del 1905, quando stette laggiù. Scrisse: Manaus è una città burina (5) e cosmopolita”. Voleva dire: europea, meticcia (6) e indigena. E ancora oggi è un po’ così, nonostante l’influenza nefasta e cafonesca di Miami. Quindi il mio porto di partenza e di arrivo è Manaus, perché quasi tutto quello che ho scritto e sto scrivendo è ancorato in quel porto. È una città con milioni di problemi, violentissima, caotica, è stata saccheggiata dagli ultimi governi, e il settanta per cento della sua popolazione vive su palafitte o in baracche. Ma fino ad oggi, quando viaggio per il Rio Negro, dico senza spirito di campanile: è uno dei paesaggi più belli del mondo. E poi c’è tanta storia... la mia testa ribolle di storie, situazioni ed episodi vissuti nell’infanzia e nella gioventù e quando ho abitato Manaus tra il 1984 e il 1998. Tutto questo fa parte di quella topografia affettiva e sociale che è anche geografica.
8. Quanto c’è di autobiografico nei suoi testi? Affinando la domanda: quali sono i limiti tra lo storico e il letterario, tra invenzione e la memoria nel momento della composizione di un lavoro?
M. H.: È complicato. È tuttavia una della questioni critiche più difficili... Ad essere sincero, non saprei rispondere, Non lo so proprio. Il poco che so di quella cosa è molto personale. Voglio dire, senza un’esperienza concreta, senza l’introiezione di un’idea o conflitto o problema è molto difficile scrivere un romanzo. L’impasse postmoderno va verso queste problematiche. Collage, citazioni ed appropriazioni organizzate in un rompicapo molte volte non vanno aldilà di esercizi futili e fortuiti.
Il lettore vuole capire un’esperienza del narratore, che, in un certo modo, è anche quella dell’autore. Da quello nasce la confusione molto comune tra il narratore, personaggio e autore empirico. In fondo, sono inseparabili, ma quello che si legge in un testo narrativo non è un mero riflesso della vita dell’autore. Uno specchio che tutto distorce e riflette cose ed esseri che esistono appena nel linguaggio. Il pittore Francis Bacon l’ha riassunto con una frase che si adatta alla letteratura. Disse più o meno così: “Quello che voglio fare è distorcere la cosa molto oltre l’apparenza, ma in questa distorsione riportarla ad un registro di apparenza”.
9. Da quali autori considera influenzata la sua prosa? Sarebbe possibile, a causa del percorso memorialistico localizzare nella sua prosa un legame con Proust?
M. H.: Legame con Proust? Nemmeno per scherzo! Le influenze giungono da ogni parte, e a volte non ci accorgiamo di chi ci ha ispirati o ci ha suggerito una frase, un passaggio, una idea. Chiaro che ci sono riferimenti più o meno espliciti. Per esempio: Le mille e una notte, qualcosa di Virginia Woolf e di Faulkner in Ricordi. E Dois Irmãos, lo devo a due grandi testi, Esaú e Jacó, di Machado de Assis e un racconto straordinario di Flaubert: Un cœur simple. Questo racconto mi perseguita dalla mia gioventu a Manaus. Recentemente, Samuel Titan Jr. ha commentato il profilo e i tratti del personaggio Domingas, ispirati direttamente a Félicité. Samuel sa tutto sull’opera di Flaubert e ha cominciato ad enumerare le approssimazioni tra i personaggi, incluso alcuni dettagli sul “perroquet Amazone”. A volte nascondiamo i riferimenti e lo sguardo critico li rivela. Tutto ha coinciso con la traduzione che noi due stiamo facendo dei Trois contes.
10. Qual è il posto della letteratura nel Brasile di oggi? Quale è la sua funzione? E, più specificamente, qual è il posto della memoria e dei racconti in una società periferica e di consumo come questa in cui viviamo?
M. H.: La letteratura è uno dei tanti modi di esprimere il mondo, è un modo di vedere, di immaginare e di problematizzare conflitti e situazioni, che possono essere espliciti, con una forte componente storica, ma che possono essere molto interiorizzati. È anche uno strumento di conoscenza della realtà, come ha scritto Antonio Candido.
Questo è lo spazio sociale della letteratura: un modo obliquo o indiretto di conoscenza del mondo, di noi stessi e dell’Altro. Questa assenza di utilità pratica va contro il mercato, ma il fatto di pubblicare un libro significa essere soggetto a un qualche tipo di consumo. Scrivere guardando esclusivamente al mercato e al successo immediato non mi sembra il miglior cammino per chi vuole divenire scrittore di romanzi. D’altra parte, l’insuccesso non garantisce nulla, come disse Borges. Conrad volle sempre fare successo, avere molti lettori. Quando morì, era già considerato un grande scrittore dalla critica, ma in vita non riuscì mai ad avere la moltitudine di lettori che avrebbe sognato. Oggi, Cuore di tenebra ha milioni di lettori, e questo conferma che il futuro della letteratura è anche nel suo passato. In Brasile e nei paesi periferici la letteratura dipende da una politica educativa che privilegi la lettura a lezione, scuole pubbliche con buone biblioteche, formazione di professori e una remunerazione giusta. Siamo distanti da questo, ma considerando il momento politico attuale del paese, preferisco dire che siamo ben più distanti dalla barbarie. Una delle forme di barbarie è far tacere la voce degli oppressi.
Non amo la letteratura di denuncia, un doppione impoverito di un bel reportage. Ma le narrazioni memorialiste e orali sono importanti per qualsiasi società. Negli ultimi quindici o venti anni molto è stato scritto da parte di indios e di neri : narrazioni di miti, narrazioni storiche, testimonianze sulla brutalità della vita brasiliana. Ad esempio, oggi, nell’Alto Rio Negro, migliaia di indios frequentano la scuola pubblica, i cui docenti sono anche loro indios. Alcuni di loro, un giorno, narreranno la loro storia, dal punto di vista di un popolo che è depredato dal diciasettesimo secolo.
11. In questo senso, esiste un vincolo tra il racconto basato sulla memoria e la storia dei popoli. Riportando questo argomento alla storia mondiale recente, tra popoli decimati dalla guerra, come molti al nostro tempo , rimane qualche spazio per il racconto memorialistico?
M.H. Molti popoli agrafi, che sono stati totalmente decimati, hanno lasciato tracce di memoria orale. Il nome della città dove sono nato... Gli indios Manaus, della nazione Baré, del gruppo aruak che adottarono la “Língua geral” il nheengatu. I manaus scomparvero alla fine del diciottesimo o all’inizio del diciannovesimo secolo. Sono popoli interi vittime del colonialismo, e dopo, dei grandi imperi del XIX secolo, fino alla barberie di oggi, con altri modi, ma motivata dalle stesse ragioni economiche e geopolitiche, solo che ora vengono incarnate da una sola potenza, gli Stati Uniti, che Noam Chomsky ha chiamato “paria internazionale”.
Ci sono migliaia di testimonianze sul terrore nazista, e i racconti memorialistici sono stati e continuano ad essere di grande importanza per intendere ciò che è incompresibile e inaccettabile. Basta leggere due libri straordinari di Primo Levi ( La tregua e Se questo è un uomo) per acquisire la dimensione di offesa e del male, includendo la dimensione soggettiva, di un narratore che è sopravvissuto ai campi di sterminio. Nel libro La tregua, quando il narratore quasi per miracolo si vede libero, dice : “... che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segnali dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti”. Vuol dire, i ricordi di eventi terribili nella voce del sopravvissuto divengono un dolore morale e un lutto perenne.
Per questo , nelle attitudini dei governi fascisti, o addirittura di governi che ostentano una maschera democratica, una delle prerogative basiche è tentare di cancellare la memoria di un popolo perseguitato. Un caso terribile è avvenuto ad Aprile 2002, quando l’esercito israeliano invase Ramallah e distrusse il Centro di Cultura della Palestina, diretto dal poeta Mahmud Darwich. Tutto fu distrutto, gli archivi vennero saccheggiati o bruciati. Lo scrittore spagnolo Juan Goytisolo ha pubblicato un articolo su El Pais intitolato “Memoricidio a Ramallah”, in cui dimostra che il massacro di civili, la distruzione di case e scuole, e l’usurpazione sistematica delle terre di Palestina non bastano ad umiliare un popolo, poiché occorre anche cancellarne il passato, non solo espellendo brutalmente gli abitanti dalle loro terre, ma anche privandoli di una memoria storica, collettiva e individuale.
Sorge quindi l’importanza dei racconti memorialistici, poemi e prose, che sono forme di resistenza e perfino di sopravvivenza contro il fascismo, la tirannia, l’intolleranza e il razzismo.
12. Esiste un’autodisciplina, una qualche routine quando scrive libri? Come ha cominciato a scrivere? Quali sono state le motivazioni?
M. H.: Il primo testo l’ho pubblicato in un giornaletto studentesco, chiamato Elemento 106, quando studiavo al Colégio Pedro II a Manaus. Questo nel 1967, prima di andarmene a Brasilia. Ricordo che era un articolo sull’importanza dell’insegnamento pubblico. Dopo, nel CIEM , la scuola superiore che dava accesso alla Università di Brasilia, scrissi un poema che venne pubblicato sul Correio Braziliense (7).
A San Paolo ho scritto vari racconti, che non sono mai stati pubblicati. Ho scritto alcuni poemi che illustravano un libro di fotografie sull’Amazzonia. Venne edito nel 1978 dalla libreria Diadorim: Palavras e imagens de um rio entre ruínas [Parole ed immagini di un fiume tra le rovine]. Quei poemi vennero ripubblicati insieme ad un saggio di Susana Scramim nel primo numero della rivista Babel. Ricordi venne circa dieci anni dopo. Ma non sono stato “educato” per divenire scrittore. Ho avuto la sorte di aver letto buoni libri e di aver avuto buoni professori. Un grande professore non ha l’obbligo di formare buoni scrittori, ma, certamente forma buoni lettori.
Mi ricordo che alcuni studenti del nostro gruppo chiese a Davi una lista di “great books”. E poi è stata una questione di pazienza, disciplina e ostinazione. La lettura esige pazienza, poiché il piacere viene offerto dal testo stesso. Sono molto più disciplinato nella lettura. Nella scrittura tutto è più complicato. Ci sono giorni e notti che sono un vero e proprio fiasco. Poi, all’improvviso, senza sapere come, ti metti a scrivere per ore. Talvolta la routine è interrotta dall’inprevisto. Per chi scrive, l’imprevisto conta molto, è il contrappeso al cerebrale, alle ancore della razionalità
13. Quali sono i progetti per il futuro? Sta lavorando a un nuovo libro?
M.H.: Scrivo un romanzo da circa tre anni. Mi ricordo perfino il giorno in cui ho cominciato ad abbozzarlo, ma non so quando metterò un punto finale. Non ho mai scritto di fretta e ho sempre avuto difficoltà a parlare su quanto sto scrivendo. Quando parlo molto, non riesco a scrivere... Allora è meglio tacere e correre dietro alle parole.
Note
1. "Faculdade de Arquitetura e Urbanismo" della Universidade de São Paulo (USP).
2. Città nello stato di San Paolo.
3. Si cita Grande Sertão di Guimarães Rosa.
4. Scrittore brasiliano.
5. Usa il termine “caipira”, individuo dell’interno che conduce una vita rustica.
6. Usa il termine “cabocla” cioè con ascendenti bianchi e indio
7. Quotidiano edito a Brasília.
Messaggi
1. sxwvRyWIJBvqhEXYTzu, 14 novembre 2020, 18:29, di Merziuz
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2. 13 domande a Milton Hatoum, 6 ottobre 2021, 04:50, di SCXD
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5. 13 domande a Milton Hatoum, 10 luglio, 19:46, di Madonna Appleroth
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