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03 - Traduzioni. Letterature

Sinjavskij - PCHENC (1/2)

mercoledì 26 gennaio 2005

I primi due capitoli (di quattro) di uno straniante racconto (inedito in Italia) di Andrej Sinjavskij. Lo scrittore, dissidente sovietico, lo avevamo presentato qui, nella rubrica Che il gallo canti pure.

1

Oggi l’ho di nuovo incontrato in lavanderia. Ha fatto finta di non accorgersi di me e di essere tutto preso dalla sua biancheria sporca.
Per prime toccò alle lenzuola che qui si usano per motivi di igiene. Su un lato delle lenzuola era ricamata a lettere minuscole la parola “gambe”. Era un espediente per avvertire la persona che le usava di non toccare con le labbra la parte infetta contro la quale fino al giorno prima si erano strofinati i suoi piedi.
Un calcio qui viene considerato un’azione più oltraggiosa di un pugno, e non soltanto per il fatto che fa più male. Probabilmente, in questa differenza si può cogliere la persistenza della morale cristiana. La gamba dev’essere più colpevole di tutto il resto del corpo per la semplice ragione che essa si trova più lontano dal cielo. Soltanto agli organi sessuali spetta una posizione peggiore, e anche in questo caso c’è qualcosa di poco chiaro.
Poi fu la volta delle federe, con delle secrezioni scure nel mezzo. Poi gli asciugamani che, a differenza delle federe, si sporcano più velocemente alle estremità, e, per ultimi, i mucchi appallottolati di biancheria intima colorata.
In quel momento egli cominciò a raccogliere le sue cose con una tale velocità che io non feci nemmeno in tempo a distinguerle come si deve. Forse voleva nascondere qualcosa oppure, come tutti gli esseri umani, anche lui si vergognava di mostrare quegli indumenti così intimamente associati alle gambe.
Ma il fatto che egli portasse a lavare della biancheria sudicia mi sembrò sospetto. Di solito i gobbi sono puliti. Si preoccupano dei loro vestiti per non suscitare un ulteriore disgusto. Mentre costui, al contrario delle mie aspettative, era così sciatto da non sembrare quasi un gobbo.
Persino l’addetta all’accettazione della biancheria, una donnicciola abituata a tutto, anche a tracce delle secrezioni più improbabili, non si trattenne e gli disse con un tono piuttosto alto:
“Perché mi state sempre fra i piedi, cittadino? Se non siete in grado di dormire come si deve, lavatevele da solo le vostre cose!”.
Egli pagò in silenzio e se ne andò. Io non lo seguii per non attirare l’attenzione degli altri.
A casa si stava come sempre. Non appena fui entrato, apparve Veronica che, con gli occhi bassi, mi invitò a cenare con lei. Non mi conveniva rifiutare questa ragazza. Era la sola in tutto l’appartamento che si rivolgeva a me in maniera gentile. Peccato che la sua simpatia nascesse da un interesse sessuale. Quel giorno me ne ero definitivamente convinto.
“Come va la Kostrickaja?”, chiesi a Veronica, cercando di portare la conversazione sui nostri nemici comuni.
“Ah, Andrej Kazimirovi?, quella mi ha minacciato ancora”
“ Per quale ragione?”
“Sempre per la stessa faccenda. La luce nel bagno e il pavimento sporco. La Kostrickaja ha detto che andrà dall’amministratore. Questo mi ha mandato in bestia. Io uso la fogna meno di tutti. In cucina, quasi non ci entro. Potrò pure compensare lo scarso uso della cucina con quello del bagno?”
“Che ti importa?”, risposi bruscamente. “Lei consuma kilowatt di elettricità. I suoi bambini hanno anche rotto la mia bottiglia. Lascialo pure venire l’amministratore”.
In realtà sapevo che l’intervento dell’autorità sarebbe stato per me un rischiosissimo salto nel buio. Per quale motivo attirare un’altra volta l’attenzione su di me?
“Non preoccupatevi, Andrej Kazimirovi?”, disse Veronica. “Mi occuperò io di tutte le discussioni con i vicini. Rilassatevi, vi dico”.
Allungò la mano per toccarmi la fronte. Io feci in tempo ad allontanarmi.
“No, siete sano, febbre non ne avete. Ceniamo”.
Dal tavolo veniva un odore di cibo fumante. Sono sempre stato sconvolto dal sadismo della cucina. I futuri polli vengono mangiati in forma liquida. Le interiora dei maiali vengono riempite con la loro stessa carne. Un intestino che ha ingoiato se stesso e che è stato ricoperto da aborti di gallina: ecco cos’è in realtà una frittata col salame!
Il grano, lo trattano ancora più impietosamente: lo tagliano, lo battono, lo riducono in polvere. Forse perché tortura e farina [1] differiscono solo per l’accento?
“Avanti, cenate Andrej Kazimirovi?”, tentava di convincermi Veronica. “Non perdetevi d’animo per favore. Prenderò su di me tutte le colpe”.
E cosa succederebbe se si cucinasse in questo modo un essere umano?
Si prende un qualsiasi ingegnere o scrittore, lo si farcisce con il suo stesso cervello, si mette nella sua narice abbrustolita una mammola e lo si da ai colleghi per pranzo? No, i tormenti di Cristo, di Jan Hus e di Sten’ka Razin sono un’autentica inezia in confronto alle sofferenze dei pesci strappati dall’acqua con un gancio. Quelli, quanto meno, ne conoscevano la ragione.
“Ditemi, Andrej Kazimirovi?, voi vi sentite molto solo?”, chiese Veronica portando la teiera in camera.
Mentre era andata a prendere la teiera, io avevo rovesciato il piatto in un giornale.

Avevate degli amici,
-intanto versava dello zucchero-
dei bambini,
-ancora un cucchiaio di zucchero-
una donna che amavate?...
-e intanto mescolava, mescolava.

Tutti si accorsero che Veronica si preoccupava per me.
“Ho voi come amico”, dissi con cautela. “E per quanto riguarda le donne, lo vedete da voi: sono vecchio e gobbo. Vecchio e gobbo”, ripetei con inesorabile insistenza.
Sinceramente, volevo scongiurare qualsiasi dichiarazione d’amore: perché farsela fare, se era già difficile senza? Valeva la pena di corrompere la nostra unione militare contro i vicini malvagi e attrarre l’incandescente interesse di una ragazza che non aveva trovato nessun altro su cui sfogarlo?
Per evitare una disgrazia sarei stato pronto a fingere di essere un ubriacone. Oppure un criminale. O forse, meglio, un pazzo o al limite un pederasta. Ma io avevo paura: ognuna di quelle qualità avrebbe potuto dare alla mia persona una luce pericolosa e intrigante.
Non mi restava che accentuare la mia gobba, la mia altezza e il mio misero salario, la mia anonima professione di contabile che mi sottrae una gran quantità di tempo. E poi, a chi è gobbo come me si addice una donna gobba, simile a lui; mentre a una vera donna, per giunta bella, serve un uomo adeguato.
“No, voi siete troppo umile”, decise Veronica. “Vi considerate uno storpio e avete paura di essere di peso. Non pensate che sia uno sforzo da parte mia. A me semplicemente piacciono i cactus, e voi assomigliate a un cactus. Ma quanti ne nascono sul vostro davanzale!”.
Le sue dita bollenti sfiorarono la mia mano. Io mi scostai come se mi fossi ustionato.
“Siete gelato. Non vi sarete mica ammalato?”, chiese Veronica con compassione, sconcertata dalla temperatura del mio corpo.
Questo era troppo. Le dissi che avevo l’emicrania e la pregai di lasciarmi.
“A domani”, disse Veronica e agitò la mano come una bambina. “E domani mi regalerete un cactus. Immancabilmente”.
Questa fanciulla pacata mi parlò con un tono da ragioniere capo. Mi dichiarò il suo amore e per questo pretendeva una ricompensa. Dove l’ho letto che le persone innamorate diventano docili come schiavi? Non è affatto vero. Basta che ci si innamori e già ci si sente padroni e in diritto di disporre di chi non ti ama abbastanza. Come avrei voluto che nessuno mi amasse!
Rimasto solo, mi misi ad annaffiare i cactus. Li nutrii con un po’ d’acqua dal boccale smaltato, i miei figlioletti gobbi, poi mi feci una dormita.
Erano le due di notte quando, sfinito dalla fame, entrai furtivamente e in punta di piedi, attraverso il corridoio buio, nel bagno. Qui cenai per bene.
Com’è dura mangiare solo una volta al giorno!

2

Da quella sera passarono due settimane. Veronica mi disse che aveva dei corteggiatori: un tenente e un artista del Teatro Stanislavskij. Questo però non le impediva di manifestare la sua simpatia nei miei confronti. Minacciò di tagliarsi i capelli a zero se avessi seguitato a parlare della sua bellezza e a sostenere che sarebbe stato stupido donarla a un vecchio o a un mostro come me. Infine le saltò in mente di mettersi a spiarmi aspettandomi durante il tragitto verso il bagno.
“La cura del corpo abbellisce i gobbi”, questa fu la mia risposta di circostanza alla sua domanda sul perché mi lavavo spesso.
In ogni caso presi l’abitudine di coprire con un pezzo di compensato lo specchio opaco che c’era fra il bagno e il gabinetto. Prima di spogliarmi controllavo sempre la serratura. Mi infastidiva l’idea che qualcuno mi osservasse.
Ieri mattina bussai alla sua stanza per prendere l’inchiostro per la stilografica e continuare il mio irregolare diario. Veronica non si era ancora alzata e, distesa sul letto, leggeva I quattro Moschettieri.
“Farete tardi a lezione”, dissi io dandole gentilmente il buongiorno. Lei chiuse il libro e disse:
“Ma voi sapete che in casa tutti pensano che io sia la vostra fidanzata?”.
Io non risposi nulla e a quel punto accadde una cosa tremenda.
Veronica mandò un bagliore dagli occhi e, scostata la coperta, completamente nuda, si mise a fissarmi, irata:
“Guardate, Andrej Kazimirovi?, che cosa state rifiutando!”.
Quindici anni fa mi capitò di conoscere uno studioso di anatomia. Desiderando saperne un po’ di più, memorizzai attentamente tutte le immagini e i diagrammi. Successivamente ebbi la possibilità di osservare al Parco della Cultura e del Divertimento Gor’kij dei ragazzini che nuotavano nel fiume. Ma vedere dal vivo una donna nuda, e a una distanza così ravvicinata, non mi era ancora capitato.
Ripeto, fu terribile. Lei era tutta di un tale biancore innaturale, sul collo, sul viso e sulle mani. Davanti le ballonzolavano due masse bianche. All’inizio le scambiai per delle braccia secondarie amputate al di sopra dei gomiti. Ma ciascuna terminava con una ventosa circolare simile al pulsante dei campanelli.
E più giù, fino alle gambe, tutto lo spazio vuoto era occupato da un ventre sferico. In questo punto si concentrava, in un unico grumo, tutto il cibo ingoiato in un giorno. La sua parte inferiore, come una testa, era ricoperta di capelli ricci.
Da molto tempo la questione del sesso mi turbava. A causa del ruolo fondamentale che essa ricopriva nella vita intellettuale ed etica. Probabilmente per questioni di sicurezza, essa era stata ricoperta fin dai tempi antichi da un velo di impenetrabile mistero. Persino nei manuali di anatomia non si diceva nulla su questo argomento, oppure se ne parlava vagamente, di sfuggita, giusto perché non si tirasse a indovinare.
E ora, superata la mia confusione, decisi di approfittare dell’occasione e detti un’occhiata là dove, come scrivono nei manuali, si trova l’apparato riproduttivo che, come una catapulta, spara fuori bambini già pronti.
Laggiù, di sfuggita, vidi qualcosa di simile a un volto umano. Solo che non mi sembrava un volto femminile, ma piuttosto quello di un uomo attempato, barbuto e con i denti digrignati.
Quest’uomo affamato e malvagio le abitava in mezzo alle gambe. Probabilmente russava di notte e bestemmiava dalla noia. Forse da questo deriva la duplice natura delle donne della quale aveva correttamente detto il poeta Lermontov: “bella come un angelo divino, perfida e diabolica come un demone”.
Non feci in tempo a vederci chiaro riguardo a quella faccenda, poiché Veronica improvvisamente trasalì e disse:
“E allora?”.
Chiuse gli occhi e aprì la bocca, simile a un pesce strappato dall’acqua. Si dibatteva sul letto, un enorme pesce bianco, impotente e inutile, e il suo corpo nel frattempo si riempiva di bollicine azzurre.
“Scusate Veronica Grigor’evna”, dissi timidamente. “Scusate”, dissi, “ma è ora che io vada”.
E facendo attenzione a non toccare niente e a non guardarmi intorno, me la svignai.
Per strada pioveva e io feci tardi: nel nostro rione quel giorno c’era la disinfestazione. E io, liberatomi di Veronica, sotto l’aspetto di funzionario pubblico (preventivi, nicotina, il ragioniere capo Zykov, i macchinisti impazziti- il tutto per 650 rubli al mese), potevo concedermi il lusso di passeggiare all’aria aperta e umida.
Scelsi una grondaia bucata e mi piazzai sotto lo zampillo d’acqua. Mi scorreva direttamente sul collo, fresca e piacevole, e nel giro di tre minuti fui sufficientemente bagnato.
Ma i passanti, che si affrettavano di fianco a me, sotto gli ombrelli e in suole impermeabili, mi guardavano di sbieco interessati a ciò che stavo facendo. Mi venne voglia di cambiar posizione e di salterellare per le pozzanghere. I miei stivali si inzuppavano ben bene. Almeno lì sotto provavo piacere.
“Ah, Veronica, Veronica”, ripetevo esasperato. “Perché siete stata così crudele da innamorarvi di me? Perché non avete avuto un po’ di pudore del vostro aspetto esteriore e vi siete comportata in modo così impudente e sfrontato?”.
Eppure il pudore è una delle doti fondamentali degli uomini. La vaga consapevolezza dell’irrecuperabile inadeguatezza del proprio aspetto esteriore, l’istintivo timore di ciò si nasconde sotto il vestito. Solo e soltanto il pudore li può nobilitare e renderli, se non più belli, almeno più riservati.
Sicuramente, una volta capitato qui, mi adeguai alle consuetudini. Bisogna osservare le leggi del paese nel quale ti tocca vivere. Inoltre il continuo rischio di essere catturato e scoperto mi costringeva a coprirmi il corpo con tutti quei vestiti da ballo in maschera.
Ma se fossi al loro posto non mi toglierei quei costumi e quelle pellicce né di giorno né di notte. Mi sarei fatto una plastica per accorciare le gambe, lasciando perdere la gobba sulla schiena. I gobbi qui sono più decenti degli altri, sebbene siano dei mostri. In un triste stato d’animo passai per via Herzen. Di fronte al conservatorio aveva affittato una stanza in un seminterrato il gobbo della lavanderia. L’avevo notato già da un mese, grazioso e curvo non assomigliava a un essere umano e in qualche cosa mi ricordava la mia giovinezza perduta.
L’avevo visto tre volte di seguito in lavanderia e una volta dal fioraio, quando comprai il cactus. Ebbi la fortuna di scoprire il suo indirizzo dalla ricevuta che aveva dato in lavanderia.
Era giunto il momento di mettere i puntini sulle ‘i’.
Mi dissi che non era possibile che tutti quanti fossero morti e io soltanto fossi sopravvissuto come una sorta di Robinson Crusoe. Io stesso con le mie mani avevo tolto di mezzo tutto ciò che era rimasto dopo l’incidente, e altri oltre me non ce n’erano.
Ma improvvisamente avevano mandato questo a cercarmi? E nei panni di un gobbo... hanno iniziato a preoccuparsi! Si sono ricordati e si sono messi a cercarmi!
Come l’avevano saputo dopo trentadue anni, anche se solo anni terrestri? Vivo e vegeto. Non è uno scherzo.
Me perché cercarmi fin qui? Questo è il punto. Nessuno voleva venire fin qui. E’ proprio da tutt’altra parte. Non ci sono abituati. Si erano persi. Qui è come a casa del diavolo. Sette mesi e mezzo. Ci avevano rinunciato.
E se ci fosse capitato per caso? Sembrerebbe quasi un lapsus. Ha evitato il solito percorso e il solito orario invernale. Il primo che è capitato. Esistono le coincidenze, no? È capitato a puntino. Non aveva voglia di camminare. Davvero, capita spesso. Nei panni di un gobbo. Identico a me . Uno solo, ma identico.
Una donna simile alla Kostrickaja aprì la porta. Ma la Kostrickaja era più grossa e vecchia di lei. Questa sapeva dieci volte di più di lillà. Era il profumo.
“Leopol’d torna fra poco. Entrate, prego”.
Dal fondo del corridoio abbaiava un cane insignificante. Ma non osò scagliarsi su di me. In passato avevo già avuto dei problemi con questo tipo di animali.
“Che avete? Guardate che non morde. Niksa, a cuccia, zitto”.
Sebbene stessimo parlando in modo civile, la bestia si inferocì e dalle porte laterali apparvero tre teste. Mi guardarono con interesse e sgridarono il cane. Ne risultò un gran baccano.
Nella stanza, dove entrai a mio rischio e pericolo, c’era un piccolo bambino armato di una sciabola. Appena ci vide volle delle bacche zuccherate, poi scoppiò a piangere facendo boccacce e roteando i fianchi.
“È goloso di dolci. Ha preso tutto da me.”, spiegò la Kostrickaja. “Se ti lamenti ancora, lo zio ti dà una strigliata”.
Per far ridere la padrona, dissi per scherzo che al posto della zuppa avrei bevuto il sangue riscaldato del piccolino. Il bambino tacque per un attimo, mollò la sciabola e si mise in un angolo lontano senza togliermi di dosso gli occhi, pieni di un terrore brutale.
“Non assomiglia a Leopol’d?”, chiese la Kostrickaja come involontariamente, ma con una tenera voce rauca.
Io feci finta di capire le sue allusioni.
Ero stordito dall’aria viziata mista all’odore di lillà. La mia pelle, irritata dal tanfo, si infiammò in vari punti. Sul mio volto rischiarono di apparire delle chiazze verdi.
Nel corridoio Niksa, rabbioso, grattava le unghie sul pavimento e fiutava le mie tracce rumorosamente. Gli altri inquilini eccitati spettegolavano fra di loro quasi sussurrando e non sospettando che io avessi una sensibilità acustica molto elevata.
“Si vede che è il fratello di Leopol’d Sergej?...”
“No, vi sbagliate. Il nostro gobbicino in confronto a questo è tale e quale a Puškin .”
“Fa’ che non me lo sogni stanotte, O Signore...”
“E’ imbarazzante persino guardarlo...”
Tutto ciò fu interrotto dalla comparsa di Leopol’d. Ricordo che apprezzai il modo in cui lui, senza tanti preamboli, assunse il suo ruolo, il ruolo classico dei gobbi che incontrano in presenza di estranei un mostro simile a loro.
“Ah, compagno di sventura! Con chi ho l’onore...?”.
A questo punto rimase incastrato in una sottilissima ragnatela psicologica: la fierezza per difendersi dalla derisione, la vergogna mascherata dalla farsa. Si sedette su una sedia, a cavalcioni, cingendo con le gambe il fondo di un barile, poi si alzò di scatto e si risedette di nuovo, alla rovescia e, appoggiando la testa allo schienale della sedia, iniziò a fare delle incredibili smorfie e a muovere le spalle in continuazione come sondando la sua gobba che gli spuntava sulla schiena come uno zaino.
“E così siete Andrej Kazimirovi?. Io invece, che ridere, mi chiamo Leopol’d Sergej?. E anch’io come vedete sono leggermente gobbo”.
Mi affascinò il suo esagerato giocare a fare l’essere umano, questa è vera arte ed era più simile alla realtà che a una finzione; e io, con muta tristezza, mi resi conto della sua reale superiorità e della mia incapacità, simile alla sua, di rientrare nell’unica forma possibile per noi sulla Terra, la forma di mostri gobbi e di esseri feriti nel loro amor proprio.
Ma venni al sodo e gli feci intendere che gli volevo parlare con-fi-den-zial-mente.
“Posso andarmene tranquillamente”, disse con aria offesa la Kostrickaja e uscì investendomi nell’addio con il suo odore pungente.
Pensai che si fosse impregnata di profumo fino al midollo per vendetta. Persino i suoi escrementi probabilmente profumavano, e non di patate bollite o di cibi casalinghi, come succede di solito. Lei si inzuppava della più pura acqua di colonia e in questo modo il povero Leopol’d avvizziva precocemente.
“È da molto che siete lontano da là?”, chiesi a bruciapelo non appena rimanemmo in compagnia solo del bimbetto, ormai debilitato. Egli stava seduto in un angolo con uno sguardo rassegnato ed enigmatico che esprimeva terrore.
“Da là, dove?”, glissò la domanda.
Assieme alla padrona di casa come per incanto se ne era andata anche la sua festosa allegria. Sparì ogni velleità scherzosa, caratteristica principale di quei gobbi che sono abbastanza intelligenti da nascondere la loro schiena e abbastanza orgogliosi per non soffrire a causa di essa. Ma mi parve che non fosse ancora rientrato in se stesso e che per inerzia, stancamente, continuasse a fingere di essere ciò che in realtà non era.
“Smettetela!”, dissi a voce bassa. “Vi ho riconosciuto al primo sguardo. Noi veniamo dallo stesso posto. Siamo, per così dire, parenti. PCHENC! PCHENC!”, sussurrando ricordai quel nome sacro per entrambi.
“Come avete detto? Sapete, anche a me sembra che ci conosciamo già. Dove posso avervi incontrato?”.
Si strofinò la fronte, fece una smorfia e storse le labbra. Il suo volto si muoveva quasi come quello di un uomo, e io di nuovo invidiai la sua straordinaria tecnica di allenamento, sebbene le sue precauzioni cominciassero a irritarmi.
“Bah”, esclamò continuando a tergiversare, “non avete sentito del sistema di Glambumsbyta? È diventato direttore, nel quarantaquattro, Jakov Solomonovic Zak. Un ebreo piuttosto simpatico...”.
“Non conosco nessun Zak”, risposi seccato. “Ma so bene che voi, Leopol’d Sergej?, in realtà non siete Leopol’d Sergej?, e non siete per niente gobbo, anche se ficcate la vostra gobba dappertutto. È tutta una gran pagliacciata. Alla fin fine io non rischio per nulla meno di voi.”
Egli si inalberò letteralmente:
“Come osate”, disse, “decidere chi sono io! Rovinare i miei rapporti con la padrona ed essere così impertinente! Trovatela voi una donna così bella e poi potrete fare illazioni sulle mie imperfezioni fisiche. Voi siete più gobbo di me. Sentito? Voi siete più rivoltante. Un mostro! Gobbo! Un povero sciancato!”.
Improvvisamente scoppiò a ridere e si toccò sul cucuzzolo:
“Ora ricordo! Vi ho visto in lavanderia. Noi ci assomigliamo solo per il fatto che portiamo la biancheria nella stessa lavanderia”.
A questo punto mi convinsi della sua sincerità. Egli pensava veramente di essere Leopol’d Sergej?. Era talmente entrato nella parte, si era talmente inselvatichito e umanizzato che era divenuto troppo simile a quelli che aveva intorno e aveva ceduto alle loro influenze. Si era dimenticato il suo vero nome, aveva tradito la patria lontana e, se qualcuno non l’avesse aiutato, si sarebbe scisso in due.
Lo presi per le spalle e lo scossi con cautela. Lo sbatacchiai e gli dissi amichevolmente, con le buone, di ricordarsi, di sforzarsi e ricordare, di tornare in sé. E come faceva a piacergli l’ormai consumata Kostrickaja col suo velenoso odore? Persino fra gli esseri umani l’accoppiamento non gode di una grande popolarità. A maggior ragione per uno che aveva tradito la patria, sebbene non per una malvagia intenzione, ma per una semplice dimenticanza.
“PCHENC! PCHENC!”, dissi e gli ripetei altre parole cosicché lui stesso se le ricordasse.
Improvvisamente attraverso la sua giacca di boston giunse fino a me, non so da dove saltasse fuori, un forte calore. Le sue spalle diventavano sempre più calde, calde come la mano di Veronica, come migliaia di altre mani che io preferivo non stringere.
“Scusate”, dissi e schiusi le dita. “Mi sembra che ci sia stato uno sbaglio. Uno spiacevole malinteso. Io, vedete...come spiegarvi?”, e fui preso da un attacco nervoso...
Allora sentii un grande fragore e mi voltai. Dietro, a una rispettosa distanza, il piccoletto saltava, minacciandomi con la sciabola.
“Lascia stare Leopol’d!”, gridò. “Ehi tu! Lascia stare Leopol’d! Lui ama la mia mamma. Lui è mio padre, mio, e non il tuo Leopol’d!”.
Non c’erano più dubbi. L’avevo scambiato per un altro. Era un vero essere umano, il più normale essere umano, sebbene gobbo.

[continua...]


[1In russo mùka è la tortura e mukà è la farina, NdT.

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