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11 - Che il gallo canti pure. Ritratti
Aristide Bruant. Il grande iniziatore
L’uomo in rosso e nero
giovedì 3 febbraio 2005, di
Nella Francia di fine ‘800 esiste già, come forse è noto, una canzone di protesta di matrice popolare, che accompagna le rivoluzioni o il lavoro, com’è già esistito un importante verseggiatore anticonformista e raffinato, che ha raggiunto una grandissima popolarità nella prima metà dello stesso secolo: Pierre-Jean de Béranger. Ci sono poi i grandi autori dei canti della Comune, momento magico di grande fioritura dell’arte di una canzone poetica e politica insieme.
Si tratta però, nel primo caso, di un libero pensatore, di un ottimo artigiano che ha la straordinaria abilità di rendersi comprensibile a tutti gli strati sociali, nel secondo di cantori di grande forza espressiva, ma talmente immedesimati nel messaggio di cui sono portatori, da non essere più distinguibili come voce singola e personale.
Qualcuno, sul finire del secolo, riuscì in una abile fusione dei due livelli diventando il cantante che dava voce, volto e parole al sottoproletariato urbano parigino ed essendo nel contempo un artista stimato e perfettamente riconoscibile nella sua unicità
Impostosi nella memoria collettiva grazie anche a un’attentissima e assolutamente ante-litteram gestione della propria immagine che culmina in quei capolavori dell’arte che sono i ritratti/affiches di Toulouse-Lautrec, che oggi rappresentano la cosa più

di Bruant: una affiche di
Toulouse-Lautrec del 1893.
conosciuta di lui, questo poeta della strada, iniziatore della saga dei bassifondi, ingombrante e ineludibile premessa all’opera dei vari Brassens e Brel, e da questi, dei De André e di quanti insomma hanno capito che il vero specchio della società in cui si vive sono i luoghi e le persone che quella stessa società degrada ed emargina, fu Aristide Bruant (1851-1922).
Figura personalmente contraddittoria e multiforme, perfettamente in grado di utilizzare le risorse di una celebrità acquisita col mestiere di Chanteur, non ha mai corso il rischio di cader vittima del suo stesso personaggio, o di incorrere nell’ostracismo di quella classe borghese, che, in fondo, è sempre stata quella che gli dava da mangiare, da bere, da vestirsi e da abitare in condizioni di grande agiatezza.
Personaggi “difficili” e che pagarono a caro prezzo l’irriducibile propagazione, in canzone, di idee totalmente radicali e anticonformiste rispetto ai propri tempi, furono i suoi colleghi Joules Jouy e Gaston Coutè, ma Bruant no! Bruant comprese come mantenere una distanza di sicurezza fra la propria vita, le proprie aspirazioni e il materiale che gli ispirava le canzoni.
Tale materiale, si può dire, era lo stesso di alcuni dei romanzi di Zola, se non ché lo scrittore conserva, anche nelle grandi pagine in cui affonda il bisturi della sua penna nel torbido ribollire delle passioni umane, un atteggiamento da entomologo attento a cogliere l’infinito (dis-)equilibrio dei rapporti sociali... per Bruant si tratta invece di raccogliere la schiuma, lo spumeggiare dei caratteri, e procedere così per bozzetti all’illustrazione di singolari paesaggi umani illuminati dal lampo del flash di una bella canzone, di una monologo riuscito.
Ciò che salva la sua opera dal rischio della “cartolina dai bassi fondi”, della “sceneggiata” lacrimevole o della macchietta pulcinellesca volta a dare alla miseria il tranquillizzante aspetto surreale e sostanzialmente inoffensivo della grande tradizione clownistica italiana di Petrolini e Totò (inoffensiva sul piano sociale, ché sul piano linguistico tale tradizione è rivoluzionaria e interessantissima), è una miscela perfetta fra la comprensione,

allora unica, di una struttura chiusa come la canzone e il tono che fonde realismo e sarcasmo in un’unità inscindibile e di una miracolosa modernità.
Le canzoni di Bruant hanno spesso per titolo il nome di un luogo mitico di “Parigi”, una strada, una piazza, un quartiere (A la Bastille, A la Villette, A Batignolles, Rue Saint Vincent...): è il centro del racconto da cui si dipana e a cui necessariamente tornerà la vita del personaggio descritto, nella maggior parte dei casi un poco di buono, ladro o prosseneta, allegramente avviato sulla strada che lo porterà a terminare i propri giorni sulla ghigliottina; sono storie miserabili, di una certa ripetitività, ma, un gusto straordinario per uno humour nero canagliesco, l’uso di un secco “argot”, un montaggio di scene di grandissima efficacia, dal taglio, diremmo quasi, pre-cinematografico, scansa abilmente la trappola del sentimentalismo; la tecnica di Bruant è incredibilmente matura: le capacità di costruzione, di passaggio in passaggio, del racconto, già perfettamente compiuto e racchiuso idealmente in ciascuna delle strofe, agganciata alla successiva quasi fosse un mini-feuilleton orale, fanno di queste opere dei capolavori della canzone narrativa.
La voce dell’autore, miracolosamente conservataci da alcuni 78 giri di qualità molto precaria, è, a quanto si può giudicare, gagliardamente caratteristica, con un impasto timbrico piacevole e di fortissima personalità un po’ guascona, chiara nella dizione, anche se non perfettamente intonata. La musica, all’apparenza semplice e ripetitiva, sfrutta una certa tensione melodica, che ipnotizza l’ascoltatore rendendo agile la prosecuzione del racconto. Consideriamo che queste canzoni erano pensate per un pubblico probabilmente indisciplinato e chiassoso: proletari, bohemiens e borghesi in vena di “incanaglimento”, che fra un bicchiere e l’altro porgevano orecchio allo Chansonnier di turno, che, in una condizione acustica tutt’altro che ideale, doveva dominare il brusio di sala, favorire le riprese in coro dei ritornelli, avere a disposizione una struttura sufficientemente semplice ed elastica da poter garantire l’improvvisazione di strofe nuove dettate dagli umori della platea; queste necessità situano molte canzoni di quegli anni nel più basso e pecoreccio avanspettacolo; il fatto che quelle di Bruant restino godibili, quando non schiettamente belle, la dice lunga sul talento dell’autore.
Qualche volta nei canti di Bruant una sorta di pathos o di tenerezza sostituisce - o lascia sul fondo - il tono canzonatorio, sono gli esiti più alti della sua arte: A St. Lazare (era il sanatorio dove andavano le prostitute affette da malattie veneree) è una straziante canzone epistolare di una puttana rivolta al suo protettore, già nel tono si coglie la prossimità di una fine mascherata attraverso la promessa di un rapido ritorno e questa coscienza inverte le parti: la voce di lei è commoventemente materna nel raccomandare al proprio uomo una condotta che lo tenga al riparo dai pericoli, e questa bellissima invenzione getta una luce nuova su personaggi altrimenti frustri.
Rue St. Vincent fonde perfettamente le sfumature di tono della tavolozza poetica di Bruant che, alternando passaggi crudi a passaggi romantici, chiude il pezzo con l’accoltellamento della protagonista, una delicata adolescente detta “Rosa bianca”, sventrata dal suo protettore, e, che col suo pallore lunare, commoverà talmente i becchini che ai curiosi riferiranno “...che la povera ragazza/era morta il giorno delle sue nozze...”; non si faticherà a riconoscere in questa favola triste l’antenata della “Marinella” Deandreiana. A la Moquette poi, come anche Les Canuts, sono due canzoni che prendono esplicitamente posizione contro il potere: la prima è una requisitoria contro la ghigliottina di sapore Hugoliano, la seconda - forse oggi la più nota delle canzoni di Bruant - è un secco canto di rivolta dedicato ai lavoratori tessili in lotta contro rappresentanti del potere, preti e governanti: “...stiamo tessendo il sudario del vecchio mondo/perché già sentiamo la tempesta che si annuncia...”.
Bruant, dopo aver tentato anche la carriera politica nelle file del partito socialista, finì la sua esistenza nel buen retiro di un castello, lontano dalla sua Parigi, ormai convinto antisemita, patriota guerrafondaio e revanscista, ma i suoi versi restano la testimonianza di interessi e di idee completamente opposti che marcheranno indelebilmente la storia della canzone d’autore in senso pacifista e umanitario.

Rosa Bianca (Rue St.Vincent)
Aveva sotto il cappellino
sulla collina di Monmartre
un aria innocente;
si chiamava Rosa ed era bella
odorava di fiori freschi
in via Saint Vincent.
Non si conosceva il padre
non c’era più la madre
e da quel dì
viveva vicino alla vecchia aiuola
dove sbocciava tutta sola
in via Saint Vincent.
Lavorava, già, per vivere
e le sere di nebbià
sotto il freddo nero e ghiacciante
con il suo straccio sulle spalle
risaliva per via des Saules fin
in via Saint Vincent.
Nelle notti di gelo guardava
la tovaglia stellata
e la luna, come un croissant
che brillava alta e fatidica
sulla croce della basilica
in via Saint Vincent.
L’estate nell’afa del crepuscolo
incontrava Giulio
che era così tenero
che restava con lui tutta la sera
vicino al vecchio cimitero
in via Saint Vincent.
Ma il Giulietto era uno della banda
che pappano sulle donne
così il ragazzino
vedendo che non rigava dritta
con una coltellata le aprì la pancia
in via Saint Vincent.
Quando la stesero sulla tavola
era tutta bianca
così chè seppellendola
i becchini dissero che la povera ragazza
era morta nel giorno delle sue nozze
in via Saint Vincent.
Les Canuts (i tessitori)
Per cantare il VENI CREATOR
bisogna portare babbucce d’oro.
Noi le tessiamo per i grandi della chiesa
però, poveri tessitori, ci seppelliscono nudi..
Per governare tocca vestirsi
di mantelli, ricami e nastri.
Noi li tessiamo per i grandi della terra
però, poveri tessitori, spogli scendiamo nel fango.
Ma il nostro regno arriverà
quando il vostro finirà.
Stiamo tessendo il sudario del vecchio mondo
perchè sentiamo già la tempesta che s’annuncia.
A la Roquette
(La Grande Roquette era l’ultima dimora dei condannati a morte. Venne soppressa nel 1899.)
Scrivendoti queste parole tremo
con tutto il mio essere
quando le leggerai avrò poggiato
il naso alla finestra.
mi sveglio verso mezzanotte
povera ’Toinette
sento una sorta di scatto
alla Roquette.
Il presidente non ha voluto
firmare la grazia
senza dubbio gli sarebbe spiaciuto
che la facessi franca.
Se si graziasse troppo spesso
sarebbe troppo facile!
Bisogna tagliare delle testa ogni tanto
alla Roquette.
Lassù il sole candeggia le nubi
la notte muore
presto arriveranno quei signori
lassù il sole che sale.
Sento che la gente
ebbra di gioia si prepara
a cantare il mio funerale
alla Roquette.
Tutto questo, sai, non è nulla,
ciò che mi terrorizza
è che taglieranno prima del mio
il collo della camicia
pensando al freddo delle forbici
alla "toilette"
ho paura di avere un brivido nelle ossa
alla Roquette.
Per non tradire le mie emozioni
avvicinandomi alla ghigliottina
mi penserò come un estraneo
che non esita davanti alla "vedova".
Che non dicano che ho avuto il panico
della mannaia
prima di starnutire nel sacco
alla Roquette.
(Ringrazio Paolo Capra per la preziosa consulenza sulle traduzioni. A.L.)
Questo articolo prosegue la pubblicazione in rete della rubrica dal titolo "...e compagnia cantante" tenuta da Alessio Lega sulle pagine di ’A rivista anarchica’, nell’ambito di un progetto sviluppato con Paolo Finzi, che qui torniamo a ringraziare.
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