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Malcolm Pasley - Rilke e Kafka # 2/2

venerdì 15 aprile 2005

Pubblichiamo la seconda e ultima parte (la prima è qui) della traduzione del saggio di Malcom Pasley. Il compianto germanista inglese entra nel vivo e nel dettaglio della sua suggestiva e convincente ipotesi di un influsso di Kafka su Rilke.

Nonostante tutte queste somiglianze non deve sfuggire una differenza fondamentale. La giostra umana è vista da Kafka in maniera apertamente negativa sia nel suo reale dolore che nella sua inscenata felicità. La speranza di un spettacolo circense differente, in cui sia possibile un’esibizione che appaghi e sia umana, non viene apertamente espressa. Questo era infatti proprio il metodo di Kafka. Solo in relazione al giovane spettatore della galleria che, “sprofondando nella marcia finale come in un sogno pesante, piange senza saperlo” si avverte questa taciuta nostalgia. Tutt’altro in Rilke, il quale non solo nel pieno della negatività lascia risplendere il sorriso sincero del ragazzo come un segno di buon auspicio, ma chiude perfino la sua elegia con la visione di un luogo “indicibile”, dove sia possibile compiere atti umani perfetti e realmente felici.

Il tema del virtuosismo fine a se stesso che Rilke introduce nella quinta elegia (e che tra l’altro non ha molto in comune con Picasso o Père Rollin), appare anche in un altro passo dei racconti di Un medico di campagna. In Relazione per un’accademia (Walter Sokel ha già richiamato l’attenzione su questo brano) la scimmia Rotpeter descrive l’impressione esercitata su di lui dalle acrobazie umane: “Nei teatri di varietà, prima del mio numero, sono rimasto spesso a guardare una coppia di trapezisti al lavoro. Si slanciavano, oscillavano, saltavano, volavano uno nelle braccia dell’altro; uno, con i denti, reggeva l’altro per i capelli. ‘Anche questa, per gli uomini, è libertà’, pensavo, ‘sovranità nei confronti dei propri movimenti’. Derisione della santa natura!”

Tra le dolorose, imperfette azioni di Rotpeter - il suo “faticoso nessundove” - e quelle eccessivamente volute e consapevoli, che qui descrive - il “vuoto fintroppo” - , si trova quel “luogo indicibile” dell’autentico, efficace agire umano, cui Kafka allude solamente attraverso la radicalità della sua negazione, mentre Rilke lo evoca espressamente. Il destino della scimmia di Kafka è di restare ferma, bloccata in quel luogo “dove erano ancora ben lungi dal poterlo, dove ancora / cadevano l’uno dall’altro, come copulando / due bestie male assortite;- / dove il peso è ancora pesante [...].”

Simili, anche se non così evidenti, analogie si possono trovare anche tra Relazione per un’accademia e la descrizione della “città Patimento” nella decima elegia - secondo Erich Fried “una delle più straordinarie rappresentazioni dell’alienazione della lirica del nostro secolo”(1). In particolare si potrebbe paragonare il futile trafficare della “fiera annuale” così come appare al giovane in Rilke - ad esempio le “altalene della libertà” o “quella birra amara, che pare dolce a chi la beve” - , ai divertimenti degli uomini dal punto di vista di Rotpeter.

Lasciamo, però, l’appena delineato parallelo di temi e immagini e dedichiamoci a una nuova questione. Il 14 febbraio 1922 Rilke abbandonò di colpo l’originaria quinta elegia (ora Antistrofi), che pochi giorni prima aveva completato e ne scrisse al suo posto una nuova, l’elegia dei “saltmbanques”. Ciò che più sorprende in questa nuova elegia è l’oggettività della rappresentazione. Solo la decima, scritta come penultima l’11 febbraio, le è sotto quest’aspetto paragonabile. Un unico avvenimento determina l’intero componimento: l’entrata in scena di un gruppo di acrobati descritti nel dettaglio in una piazza di periferia. Invece di abbandonarsi, come nelle precedenti elegie, al movimento delle sue meditazioni, accompagnandolo con fluttuanti costruzioni metaforiche, Rilke si concentra qui - esattamente come Kafka - su una scena oggettiva chiaramente descritta che diviene un eliottiano “correlativo oggettivo”, e si concede l’espressione di un’elegiaca tristezza solo nel commento di questa scena. Questa elegia ricorda, come la decima, a differenza delle otto scritte precedentemente, le cosiddette “poesie della cosa” (Dinggedichte) del periodo rodiniano. La rappresentazione del gruppo di acrobati può essere definita come “oggetto” dell’elegia nella stessa accezione della danza della spagnola in una delle Nuove Poesie(2). Allo stesso modo nella decima elegia “oggetto” della poesia è il viaggio del giovane dalla “città Patimento” al “paese Patimento” come nelle Nuove Poesie lo è il viaggio di Orfeo nel regno dei morti. Nessuna precedente elegia, neppure la quarta, si riferisce in maniera così diretta a un avvenimento oggettivo. Ora è da notare che l’uso simbolico di un avvenimento oggettivo è proprio lo specifico metodo di Franz Kafka. I racconti della raccolta Un medico di campagna insistono sull’alienazione spirituale dell’uomo almeno quanto le Elegie e Rilke li aveva sottomano proprio i quei giorni.

In ogni caso è evidente che Rilke nelle due elegie composte per ultime si allontanò dalla metafora e dalla similitudine per andare nella direzione dell’oggettivo in forma simbolica o allegorica. A quanto risulta egli stesso ha considerato queste due come creazioni differenti dalle altre in quanto alla forma: esse sono “state composte nella quiete dopo una grande tempesta interiore” e sono “magnificamente costruite”(3). Hermann Pongs nota come la prima stesura della decima elegia (1913) resti “sostanzialmente metaforica”, mentre nella versione definitiva Rilke abbia cercato di raggiungere “una forma sovrapersonale mitico-simbolica”(4). Hans Jaeger parla delle “grandi immagini simboliche” della quinta e della decima elegia e spiega: “In nessuna altra parte dell’opera la realtà e l’irrealtà simbolica sono poste una accanto all’altra e mescolate tra loro come qui, non solo nelle linee generali, ma fin nelle singole immagini.”(5)

Dopo tutto ciò è legittimo chiedersi cosa abbia sorprendentemente spinto Rilke nella seconda settimana di febbraio a gettare via la quinta e la decima elegia già composte, e sostituirle con due nuove di forte carattere immaginifico, che si concentrano su avvenimenti precisi. Che ciò derivi dall’esperienza della sua recentissima lettura di Kafka è per lo meno pensabile. Riguardo al metodo simbolico delle due elegie scrive, senza sospettare la possibilità di un influsso, E. Cassirer-Solomitz: “Ottiene nella forma e con i mezzi della poesia, ciò che Kafka raggiunge con lo stile dei suoi romanzi: gli oggetti del mondo reale sobriamente descritti divengono senza aggiungergli apparentemente nulla segni di un’immagine metafisica del mondo.”(6)

E’ stato scritto molto - e anche molte assurdità - sulla straordinaria produttività di Rilke nelle prime settimane del febbraio del 1922. L’atmosfera di Muzot era favorevole al suo lavoro poetico. Più di tutto lo mosse la notizia della morte di Wera Knoops. La stesura del primo ciclo di sonetti contribuì da parte sua a inspirare le ultime elegie. Non è necessario qui usare toni eccessivamente trattenuti, poiché, per dirla con Nietzsche: “il capitale si è accumulato, non è caduto di colpo dal cielo”. Rilke si è principalmente nutrito delle sue provviste interiori, da tempo preparate con fatica e dolore: è stato un “ricercare nel cuore”, che gli ha permesso dopo anni di inibizione poetica, di ritornare a essere “finalmente contemporaneo di [s]e stesso”(7). Ci si potrebbe chiedere - mettendo da parte ogni agiografia rilkiana - se proprio la sua straordinaria produttività durante queste tre settimane non escluda la possibilità di un influsso esterno determinante. Quanto a me posso solo rispondere che proprio quando è in piena è più facile che un fiume devi il suo corso.

Dalla nostra indagine risulta quindi quanto segue:

1) Tra le Elegie Duinesi, se si prende in considerazione il metodo di rappresentazione poetica, ricordano Kafka su tutte le due composte per ultime: la decima e la quinta.

2) Se si ricercano nelle Elegie Duinesi dei legami interni con Kafka - sia per tematica che per singoli motivi e immagini - si ritorna sempre alle ultime due, innanzitutto alla quinta e poi ai versi da 16 a 40 della decima.

3) Se ci si chiede a quali racconti di Kafka queste elegie sembrano alludere in particolare, vanno presi in considerazione due racconti dalla raccolta Un medico di campagna: In galleria e Relazione per una accademia.

Ritengo che la redazione di queste due elegie sia stata almeno in parte stimolata dalla lettura di questi racconti da parte di Rilke e in particolare che la quinta elegia sia stata influenzata in maniera determinante dalla impressione che Rilke ha ricevuto da In galleria. Ciò è possibile solo nel caso in cui lo abbia potuto leggere nel volume Un medico di campagna al più tardi il 10 febbraio 1922. Dalla già citata lettera a Wolff del 17 febbraio si può dedurre che aveva letto il libro per intero soltanto il 16. Sappiamo per contro, come abbiamo già detto, che già da inizio mese era in suo possesso l’ultimo libro di un autore, del quale fino ad allora ogni riga lo aveva “colpito e stupito nella maniera più sorprendente”. Dobbiamo credere che abbia lasciato passare più di quattordici giorni senza anche solo aprire il libro (tra l’altro in un’edizione particolarmente attraente)? E’ una questione di probabilità. Un prova ‘scientifica’ non può essere addotta. Meno credibile mi sembra comunque l’ipotesi che Rilke abbia per la prima volta conosciuto la cavallerizza di Kafka due giorni dopo la creazione dei suoi “saltimbanques”.



Note

1) Erich Fried, Rilke: Täuschung, Enttäuschung, Sprache in technischen Zeitalter 17/18 (1966).

2) Appunto Danzatrice spagnola del 1906. (N.d.T.)

3) Lettera a Kippenberg del 15/02/1922.

4) Hermann Pongs, Zum ersten Entwurf der zehnten Elegie, Dichtung und Volkstum 37 (1936), p. 98.

5) Hans Jaeger, Die Entstehung der fünften Elegie Rilkes, Dichtung und Volkstum 40 (1939), p. 214.

6) E. Cassirer-Solomitz, Rainer Maria Rilke, Heidelberg 1957.

7) E’ la già citata lettera a Kippenberg del
15/02/1922.

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