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Piperno - Le intenzioni di Alessandroth
ALESSANDRO PIPERNO, Con le peggiori intenzioni, Milano, Mondadori 2005, pp. 305
giovedì 28 aprile 2005, di
1. Due parole, apprestando un fondale
Antonio D’Orrico, dalle colonne del «Corriere della Sera», dixit. E’ il Philip Roth italiano.
Poco dopo, dalle assai meno influenti ma non certo inascoltate onde virtuali del web, Giuseppe Genna lo ha in buona misura confermato. Eh sì, è proprio un novello, italico Philip Roth.
E il giorno seguente Loredana Lipperini, su Lipperatura, faceva eco: «Scomodare Roth è facile e forse eccessivamente dorrichesco. Però, leggere per credere, non è affatto lontano dalla realtà.»
Poi, che ti succede? Forse l’inevitabile. Un passaggio in tv da Ferrara (accompagnato, ancora, da un D’Orrico sempre più privo di inibizioni nello spararle grosse, padronissimo del gioco al rilancio che crea il fenomeno best-seller, mentre il malcapitato autore non riusciva a dissimulare il disagio nel sentirsi avvicinare a nomi quali Tolstoj e Proust) e oplà, il decollo verso la testa delle classifiche, singolare rockstar in giacca e fazzoletto sporgente dal taschino, creatore di un blockbuster cartaceo da ventimila copie in otto giorni.
Infine, qualche giorno fa, dopo tanti pareri positivi e tante entusiasmanti vendite, scoppia un altro mini-caso Piperno. Aldo Nove pubblica su «Liberazione» (qui) quella che, anche con le migliori intenzioni, non si può non definire una stroncatura, e Genna insorge in sua difesa, da “I Miserabili”, con un articolo fiume dalla temperatura polemica a dir poco rovente (qui). E via così, con un espandersi a cerchi nell’acqua che mette tuttora in subbuglio altri quotidiani, riviste specializzate, blog di letteratura.
Fin qua la cronaca, più o meno risaputa a chi talvolta, tra un decesso papale e uno principesco, getta ancora l’occhio alle neglette sorti delle lettere.
2. Scartando l’argomento “sociologico”
Non seguirò Aldo Nove sulla definizione di un libro «noioso», «consolatorio» e «di regime», perché Piperno è senza dubbio uno scrittore dotato, sia di lingua che d’orecchio che di sguardo, sebbene mi sia parso, questo sì, grandemente irritante e compiaciuto il ritratto di un’altissima borghesia romana (tanto ebraica quanto gentile) che qui si squaderna con dandystica pavoneria, quasi ad ogni pagina.
E non seguirò Fofi sull’idea che il libro sia in realtà «un pamphlet contro la borghesia italiana». Trovo, piuttosto, che se Arbasino ha costeggiato per tutta la sua carriera il rischio dell’apologia involontaria, verso il bel mondo che scimmiottava e derideva, ma che in fondo era tanto più suo che dei suoi lettori, Piperno nell’apologetica ci finisca dentro a capofitto, senza pensarci un istante, in maniera perfettamente consapevole. Dunque a Nove invidio piuttosto, più di tutto, d’avermi “scippato” la formula che avevo - solo oralmente, senza attestazioni, ossia senza prove - usato con amici, l’idea che l’intero messaggio del lungo romanzo si possa ricondurre al titolo della più archetipica e indimenticata fra le soap opera sudamericane: Anche i ricchi piangono.
Genna sostiene indignato che l’osservazione è ideologica e miope, e si fa forte di un argomento debolissimo, quale quello che certi lussi, e certi tipi umani, esistono davvero. Argomento tenue, perché non è l’esistenza antropo-sociologicamente attestata di ricchi e financo ricchissimi, a decretarne automaticamente l’interesse in un romanzo, quanto la forza di fascinazione su un pubblico, vasto, che fatica ad arrivare a fine mese con degli euro in tasca. Esattamente come il gossip delle teste coronate fa presa non su un’audience ristretta di nostalgici monarchici, bensì sui tanti piccoli borghesi che sognano, appunto, il bel mondo e divorano le riviste patinate.
Insomma, malgrado un’autoironia spesso acre e l’uso non parco del pedale del grottesco, siamo lontanissimi dal pamphlet, come si vede fin dall’immagine scelta per la copertina di Con le peggiori intenzioni, una foto storica di un motoscafo Riva, che è tutto tranne che priva di seduzione, evocante il boom economico degli anni Sessanta, le vacanze al mare, la Dolce Vita e tutto il resto (e su Fellini e gli equivoci generati da quel film, infatti, ci sarebbe da parlare). Comunque, centotrentamila copie del libro son state vendute in poche settimane, e non credo solo a rampolli scelti dell’aristocrazia economica della capitale.
Si è tanto insistito sulla peculiarità del libro, sul “coraggio” di proporre una scrittura elaborata e colta, in un panorama che privilegia prodotti di facile consumo, ed è un dato innegabile, tuttavia sarebbe disonesto dimenticare quanto, di questi tempi, il lusso e la sua ostentazione siano in auge. Qui la battuta di Aldo Nove trova la sua forza di penetrazione critica: è una storia di ricchi, e il loro esser piangenti (a parte che le lacrime, nel libro di Piperno, hanno quasi sempre motivazioni risibili) non li rende più vicini ai lettori, né dovrebbe farlo. Da sempre, nelle soap e anche in quella loro singolare perversione contemporanea che sono i reality show, gli amori, le relazioni, perfino le vite vanno e vengono. Ciò che non viene mai meno è il contesto, ossia la ricchezza (1) . La vera tragedia, sempre evitata, sarebbe la rovina finanziaria. Il sentimentale è solo un esaltatore di sapidità in fondo accessorio, conta il fondale che profuma di soldi.
Detto questo, e ammesso pure che Piperno si ispira evidentemente alla sua concreta esperienza personale, mi pare inevitabile ridimensionare un tantino il “coraggio” dello scrittore.
Però il lusso non squalifica il romanzo in sé, non più di quanto squalifichi Il Piacere osservare che D’Annunzio diede forma, in quel libro, non alla Roma dei salotti che frequentava come cronista mondano, quanto a una Roma iperbolicamente raffinata e sofisticata, ad uso e consumo del pubblico di una Italia umbertina male in arnese, perennemente escluso da certi circoli e affamato di promozione sociale, sia pure fantastica e immaginativa. Si tratta di incoraggiare una proiezione collettiva.
Al contrario di Genna, io ho il sospetto che la critica mossa da Piperno all’ultimo Roth, quello de La macchia umana, proprio sulle pagine de “I Miserabili”, vale a dire di aver scritto un racconto inverosimile, si ritorca alla perfezione contro alcune parti del suo stesso lavoro. E più avanti le indicherò.
3. Centrando l’argomento
Aggiungerei, per non lasciare indietro niente, che persino nella seconda di copertina del libro di Piperno si afferma a chiare lettere: «nella sua scrittura [...] si sentono le voci di Philip Roth, di Saul Bellow e della grande tradizione ebraica».
Eccoci al punto che a me pare davvero cruciale, e finora non approfondito da nessuno. In che modo, e a quale livello, l’opera prima di Piperno dialoga, a detta di tutti, con la produzione di Roth? A onor del vero, la Lipperini annotava una cosa sacrosanta, nella succitata recensione del 16 febbraio, ma poi l’abbandonava monca, insoluta. Diceva, appunto, che «scomodare Roth [...] non è affatto lontano dalla realtà. Tanto da far venire il sospetto che Con le peggiori intenzioni sia stato scritto volutamente così».
Ecco, è questo che io, molto pedantescamente, avrei voglia di sostenere. Con tanto di argomentazioni precise.
Fin dalla prima pagina del libro, succedono due cose che, per un lettore appena appena smaliziato di Philip Roth, suonano allarmanti. Un déjà vu, indiziario s’intende, ma fragoroso.
- Prima pagina, prima frase: «Bepy sentì di non avere scampo diverse ore dopo aver incassato la diagnosi di tumore alla vescica, quando tra il novero sterminato d’interrogativi agghiaccianti scelse: Potrò ancora scopare una donna o tutto finisce qui?» (2)
- Ultimo paragrafo della prima pagina: «Era andato tutto in malora il giorno in cui Ada, stralunata moglie di Bepy [...], aveva scoperto la diciassettenne modista - sbarazzina e altezzosa come la Catherine Spaak del Sorpasso - urinare sui baffi del consorte [...]» (3) .
A quel lettore appena appena smaliziato di Philip Roth di cui sopra, che nel caso sono io, risulta irresistibile una doppia equazione. Bepy Sonnino, il nonno del protagonista-narratore, si ammala (e morirà) di tumore alla vescica. Non molto diversamente, Seymour Levov e lo stesso Nathan Zuckerman, nel primo capitolo di Pastorale Americana (1997) si confrontano sulla recente operazione subita da entrambi alla prostata (4) . Piperno sembra fondere i casi di Levov e di Zuckerman nel suo Bepy. Levov, lo Svedese, si spegne due mesi dopo quel colloquio. Lo spettro dell’inabilità, invece, è ben più reale di una semplice fantasia, in Zuckerman, il quale dopo l’intervento si ritrova impotente e incontinente.
Ma nella fisionomia di Bepy, questo nonno-satiro che preferisce la morte all’impotenza e si nega al bisturi, si innesta subito il ricordo, altrettanto puntuale, di Mickey Sabbath, satiro ben altrimenti memorabile e altrettanto ossessionato dal femminile. Ne Il Teatro di Sabbath (1995), non solo l’anziano burattinaio finisce nei guai almeno due volte per molestie - peraltro gradite - a ragazze molto giovani, la Helen semispogliata in strada durante uno spettacolo di burattini nel 1956 (5) , e la Kathy che nel 1989 registra le telefonate hot con il suo allora professore e le rende pubbliche (6) , ma ottiene anche, dall’unico autentico amore della sua vita, la croata Drenka, di consumare il medesimo rituale animalesco e simbolico etichettato disinvoltamente da Piperno come «urina-party» (7) . L’emozione stupefatta di Drenka, la sua resistenza al “tentatore” Sabbath, lo sforzo nel superare un tabù radicatissimo culminante in un liberatorio «Ce l’ho fatta!», patisce qui, come molti altri temi di Roth, una riduzione edonista e direi quasi consumista, con una strizzata d’occhi evidente al voyeurismo di un lettore scandalizzato e blandito insieme.
Però, fin qui, è soltanto un déjà vu, non una prova.
Il sospetto comincia a farsi più consistente con il procedere della lettura.
Intanto, va detto che il narratore, Daniel Sonnino, dichiara una filigrana autobiografica abbastanza evidente. Ebreo romano come l’autore, come lui poco più che trentenne, professore a contratto all’università, autore di un saggio “scomodo” sulla questione ebraica intitolato Tutti gli ebrei antisemiti. Da Otto Weininger a Philip Roth (8) , Daniel Sonnino evoca, per quest’ultimo tratto in particolare, proprio l’alter-ego letterario di Roth, quel Nathan Zuckerman che ha esordito con un romanzo provocatorio e giudicato irriguardoso se non oltraggioso dell’identità ebraica. Un romanzo che traveste, naturalmente, il vero libro outrageous di Roth, Il lamento di Portnoy (1969).
E, per inciso, le poche e senz’altro vivide pagine del libro di Piperno ambientate in Israele, durante le vacanze giovanili di Daniel a casa dello zio Teo, richiamano i passaggi nella desolata terra promessa che si leggono nell’epilogo del Lamento e anche in Operazione Shylock (1993). Ma non solo: il personaggio di Daniel nel romanzo è ebreo soltanto per parte di padre e, mosso dal conseguente senso di inadeguatezza, specula - con una forma di masochismo abbastanza prevedibile - sulle componenti antisemite della medesima cultura ebraica. In ciò dipende in maniera abbastanza evidente proprio dall’Alex del Lamento (per molti ebrei americani quel libro fu un intollerabile affronto) e dal doppio perturbante Philip Roth che in Operazione Shylock si aggira per Gerusalemme sbandierando idee quanto meno antisioniste.
Nel capitolo terzo di Con le peggiori intenzioni, il giovane Daniel ci si rivela come un feticista cleptomane, la cui ossessione verte sui piedi femminili, e di conseguenza su calze, calzini, pantofole e scarpe. Passione alla quale, nel finale del libro, si aggiungeranno, prevedibilmente, le mutandine dell’amatissima, ricchissima, dissolutissima (manco a dirlo) Gaia, scovate al termine di una rapinosa perlustrazione della cameretta di lei - siamo sempre fra adolescenti - durante una festa di compleanno. Non ci sarebbe gran che di cui stupirsi, se non fosse che, ancora una volta, questa predilezione trova un parallelo nel Teatro di Sabbath, quando Mickey Sabbath si rifugia a New York a casa dell’amico Norman, e viene da lui ospitato nella stanza della figlia adolescente Deborah. Stanza che Sabbath perlustra attentamente più volte alla ricerca della biancheria della ragazza o di qualche suo segreto privatissimo, sottraendole, in mancanza di più trasgressivi rinvenimenti, proprio un paio di mutandine che si porterà in tasca a lungo per le pagine del romanzo (9) .
Sospendo un attimo l’inchiesta per sottolineare un aspetto: la profonda, pervasiva inautenticità di questo libro, in tutte le sue articolazioni.
Allo stesso modo in cui la ricchezza dei Sonnino appare in buona misura mitica, cioè frutto più che altro del carisma personale di Bepy, e quella del suo ex-socio Nanni Cittadini è di «fumettistica inverosimiglianza» (10) , mentre per esempio la fortuna dei Levov con la fabbrica di guanti, in Pastorale Americana, è rappresentata con un realismo e una sapienza nel dettaglio sconvolgenti (11) , così la dimensione erotica, o se vogliamo erotomaniacale, che percorre gran parte del romanzo di Piperno (in Bepy, in Daniel, in Gaia, tanto per parlare dei maggiori), trova certo un suo formidabile precedente in Roth, nel Roth di Portnoy come in quello Professore di desiderio, del Teatro di Sabbath, o dell’Animale morente, eppure qui si misura anche la distanza, incolmabile, dal modello. La capacità di indagine psicologica dell’autore americano è virtualmente senza fine, e se riesce a sostenere e a rendere credibile anche un personaggio estremo come Mickey Sabbath per quattrocento pagine, è proprio grazie alla sua abissalità di sguardo e di immaginazione, a una capacità dostoevskijana di indagine dei caratteri. Nel libro di Piperno, invece, tutto rimane alla superficie. E la cosa mi pare più grave se commisurata alla questione dell’identità ebraica che insiste in ogni pagina di Con le peggiori intenzioni. E’ come se, riducendo Roth a stereotipi, Piperno avesse lavorato per stereotipi anche sulla stessa natura della sua cultura d’appartenenza, e - dando senza volere ragione a un liso luogo comune - avesse ridotto l’essere ebreo all’essere danaroso e sessuomane (12) .
Ecco perché il grottesco, ma anche la sua presunta demistificazione in forma di commento autoriale, spesso si rivelano controproducenti. Come quando si descrive la scalata al successo di Nanni Cittadini etichettandola di «fumettistica inverosimiglianza», così altrove, frequentemente. Quando il figlio di Nanni, Riccardo, dopo una violenta discussione con il padre, che gli proibisce di abbandonare la moglie per sposare la giovane amante, si allontana sconvolto, Bepy dice, testualmente: «Non forzare la mano con quel ragazzo! E’ molto più fragile di quanto credi. Non immagini quanto possano essere suscettibili i figli normali. Sono loro quelli davvero imprevedibili. [...] i figli che nascondono la propria vulnerabilità dietro a una facciata di letizia sono i più determinati: sono loro che, alla fine, compiono gesti inimmaginabili e spettacolari» (13) . E naturalmente Riccardo si uccide.
Piperno insiste, poi, con una sorta di excusatio non petita, sulla singolare profeticità delle parole di Bepy, sui suoi motivi personali per esprimersi così, sull’ossessione che ne ricava Nanni, ma non riesce a cancellare l’impressione - peggio, la conferma - che quella scena sia inverosimile. Troppo lucida, troppo argomentata, troppo scritta (chi mai userebbe, parlando a un amico, una frase come “i figli che nascondono la propria vulnerabilità dietro a una facciata di letizia”?), e non meno iettatoria la previsione.
L’errore è il medesimo della formula «fumettistica inverosimiglianza»: il fruitore di romanzi è da sempre pronto ad accettare l’inverosimile credibile, ma lo pretende spacciato su un fondale enunciativo per l’appunto attendibile. Non si può porgere l’inverosimile con scetticismo, specie se si tratta della propria storia, nella finzione di un narratore intradiegetico. Laddove il sistema di attese del lettore va sforzato, elasticizzato, persuaso, mi sembra un cortocircuito improduttivo convogliare anche un tasso di perplessità. Già il grottesco, cui come detto Piperno ricorre spesso, è un registro caricaturale, e non necessita di enfatizzazioni. Proporsi come narratore inattendibile è una scelta peraltro lecitissima, ma questo non sembra affatto l’intento complessivo di Piperno.
Alcuni ulteriori loci similes, rapidamente:
«Come è possibile che se sai così bene organizzare la tua vita, se hai un pieno controllo su di essa al punto di porre le tre forchette sempre a sinistra, il cucchiaio sempre vicino al coltello e, per carità, mai la salvietta sul piatto... Com’è possibile se hai impresso un ordine cartesiano alla tua esistenza, corredandola di tutte le consuetudini amorevoli che alla fine la trasformano in un affare così piacevole, che tuo figlio, per tutta risposta, si ammazzi?» (14)
Questo passo di Piperno, introduttivo al racconto del suicidio di Riccardo, sarebbe - quasi senza ritocchi - pertinente anche come sintesi del dramma che percorre tutto Pastorale Americana.
Con la sola differenza che Merry Levov non si uccide, decide di diventare una terrorista.
L’incontro tra la famiglia Sonnino e i cattolici Bonanno, in vista del matrimonio tra Luca Sonnino (il padre del narratore) e Fiamma Bonanno, anzi soprattutto il faccia a faccia tra Bepy e l’altro futuro nonno, Alfio, tutto giocato su atavici sospetti e incomprensioni reciproche, è forse una delle scene migliori, più vivide e intelligenti di questo romanzo (15) . Purtroppo, però, presenta una sospetta vicinanza con il serrato interrogatorio subito da Dawn nel finale di Pastorale Americana. Anche Dawn è cattolica, e quando lo Svedese la presenta al padre, intenzionato com’è a sposarla, i due - ossia la piccola ma determinata reginetta di bellezza e l’intransigente ebreo Lou Levov - si “conoscono” su uno straordinario ring verbale lungo nove pagine (16) . Sia in Piperno sia in Roth la battaglia è durissima, e termina nel modo più sorprendente, il matrimonio.
David Ruben, detto Dav. È un personaggio cruciale in Con le peggiori intenzioni, sebbene compaia solo a metà libro. David è ebreo come Daniel, però è alto, biondo, atletico, il beniamino della scuola idolatrato da tutte le ragazzine. Dobbiamo continuare? Fin dalla prima pagina di Pastorale Americana, Seymour Levov viene presentato con i medesimi attributi. Il suo soprannome, lo Svedese, deriva proprio da quel genere di avvenenza nordica e di prestanza fisica, giudicati inusuali in un ebreo. Ma ahimè sì, dobbiamo continuare. Perché l’inetto in erba Daniel Sonnino diventa amico dello splendido Dav, e questi lo sdogana, lo rende umano agli occhi del liceo tutto, esattamente come il giovane Zuckerman assume l’inamovibile soprannome di “Skip”, perché così benevolmente era stato apostrofato dallo Svedese.
E ancora: «Giorgio e io - ricorda il narratore - eravamo gli estremi di un segmento affettivo al centro del quale brillava in tutto il suo fulgore e la sua bonomia il nostro eroe liceale, DAVID RUBEN detto DAV» (17) .
Secondo una geometria di desiderio e frustrazione, non molto diversamente, in Pastorale Americana si posizionano il fratello minore dello Svedese, Jerry, e il piccolo Nathan “Skip” Zuckerman. Skip, come Daniel Sonnino, è uno zero assoluto ma il divo delle folle prova per lui una inattesa forma di simpatia, ben gratificante. Giorgio, come Jerry, è invece colui che odia sordamente il prediletto pubblico numero uno. Piperno si dilunga per pagine a descrivere la natura della perfezione senza fascino che infesta Giorgio, la sua eleganza dispendiosa e la sua anatomica diligenza nel dettaglio scultoreo, che però non possiedono alcuna attrattiva, al contrario della pura aura emanata da Dav. Roth fa di meglio, con ammirevole finezza, in sole tre righe: «Poiché non riuscivo a immaginare nulla di meglio che essere il fratello dello Svedese (tolto il fatto di essere lo Svedese), non capivo come per Jerry potesse essere difficile immaginare qualcosa di peggio» (18) .
M’arresterei qui, e non per esaurimento di argomenti. Solo che, siccome in cauda venenum, porgo un’ultima notazione. Nella quarta di copertina di Pastorale Americana, dunque in un luogo eminentissimo del paratesto editoriale, la seconda voce di più immediata fruizione da parte di qualunque acquirente dopo la cover, spicca un giudizio critico, per me discutibile ma certo d’impatto, proveniente dal «New Yorker», che recita così: «Pastorale Americana è un romanzo di quattrocento pagine che finisce con un punto interrogativo. Questo è ciò che lo rende grande».
Mi pare un giudizio strampalato, però concedo che forse il critico del «New Yorker», leggendo Pastorale Americana come un impareggiabile racconto dello sgomento, ne cogliesse il senso ultimo in quello spiazzante punto interrogativo finale.
Ebbene, sarà davvero un caso, dopo tutto ciò, che anche Con le peggiori intenzioni si concluda su una interrogazione aperta?
Note
1. Non fanno eccezione i reality di sopravvivenza o pauperisti come “L’Isola dei Famosi” o “La fattoria”. In simili casi la ricchezza è a) preesistente e presupposta nell’atto di selezione del cast; b) presente sullo sfondo per così dire in latenza, quando viene momentaneamente esclusa per ragioni di copione; c) promessa al termine dell’esperienza in forma di “ritorno d’immagine”.
2. A. PIPERNO, Con le peggiori intenzioni, Mondadori, Milano 2005, p. 11.
3. Ivi, pp. 11-12.
4. Si cita da P. ROTH, Pastorale Americana, Einaudi, Torino 2001, pp. 30-31.
5. Si cita da P. ROTH, Il teatro di Sabbath, Einaudi, Torino 1999. La storia di Helen Trumbull e della denuncia per atti osceni è raccontata per esteso alle pp. 280-294.
6. Con tanto di ironica trascrizione del nastro incriminato, cfr. ivi pp. 192-213.
7. «La traumatica scoperta da parte di Ada della dissoluta relazione del consorte a base di weekend balneari e urina-party», cfr. A. PIPERNO, Con le peggiori intenzioni, p. 30.
8. La prima monografia di critica letteraria pubblicata da Piperno, altrettanto ardita, è Proust antiebreo, Roma, Franco Angeli 2000.
9. P. ROTH, Il teatro di Sabbath, pp. 138-144, poi 149-153, e ancora 306-312.
10. A. PIPERNO, Con le peggiori intenzioni, p. 121 e sgg. Nanni Cittadini trova per caso da un rigattiere nientemeno che due Caravaggio perduti, e su quelli costruisce un impero, «diventando in pochi anni il padreterno del mercato offshore di compravendite artistiche», ivi, p. 124.
11. Basti come esempio la straordinaria descrizione di come si fa un paio di guanti che Seymour propina a Rita Cohen nel loro primo incontro, cfr. Pastorale Americana, pp. 119-134.
12. A questo proposito rimando a un libro affascinante, Immagini della malattia. Dalla follia all’Aids, di Sander L. GILMAN, Il Mulino, Bologna 1993, in particolare al capitolo su Freud, dove viene egregiamente spiegato quanto sul giovane medico viennese e sul suo lavoro abbia pesato il pregiudizio razziale che vedeva negli ebrei dei portatori di dissolutezze morali e di un comportamento sessuale incline a ogni perversione.
13. A. PIPERNO, Con le peggiori intenzioni, p. 141.
14. Ivi, p. 138.
15. Ivi, pp. 97-114.
16. P. ROTH, Pastorale Americana, pp. 392-400.
17. A. PIPERNO, Con le peggiori intenzioni, p. 164.
18. P. ROTH, Pastorale Americana, p. 8.
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