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Il «Verri»: cinquant’anni fra “cultura militante” e “cultura accademica”. #2/2

lunedì 3 ottobre 2005, di Marta Barbaro

La seconda e ultima parte della celebrazione verriana di Marta Barbaro. A cosa abbiamo teso e tendiamo quando abbiamo immaginato e poi fatto SM, ?® chiarito qui.

Fra le pagine del «Verri» la critica assume un profondo valore, diventa un impegno, non più una valutazione e un giudizio sui prodotti dell’arte che interviene a posteriori, ma un attivo lavoro dell’immaginazione. Compito del critico è quello di chiarire la situazione in cui si trova, di affrontare un mondo di cultura già consolidato e coglierne l’instabilità e le trasformazioni dando loro un senso. Egli concorre quanto l’artista ad accogliere il nuovo, a riconoscerlo come tale e a dargli valore, alimentandolo nelle sue forme ancora incerte. «Non attende né dal Filosofo, né dal Sociologo, né dal Moralista, né dal Politico l’indicazione del modo» (12) in cui operare ma, tenendo conto di quanto essi hanno detto, stabilisce i propri criteri e principi in piena autonomia; ed è in tale operazione di riconoscimento e di istituzione, per la quale si richiede responsabilità e rigore, che l’«immaginazione ha la sua parte necessaria e operativa» (13) .
Il primo atto, per così dire ufficiale, di questa istituzione del nuovo, è l’uscita nel 1961 de I Novissimi. Poesie per gli anni sessanta, un’antologia che raccoglieva le prove dei poeti formatisi intorno al «Verri» e che avrebbe dato avvio ai movimenti della neo-avanguardia e alla nascita del Gruppo 63. Il «Verri» indubbiamente contribuì a creare quel clima di confronto e dibattito di cui si sarebbe nutrito il gruppo, almeno nelle iniziali intenzioni, e fu un organo di stimolo e di sostegno per le sue battaglie intellettuali e letterarie, ma sarebbe riduttivo istituire una coincidenza troppo stretta fra i due movimenti. La rivista anceschiana, infatti, «per la sua stessa struttura, non può identificarsi con nessun gruppo, qualunque ne sia il proposito, né con alcuna personalità particolare, qualunque ne sia il talento e lo stile» , come dichiarò il suo direttore in quei polemici anni di avanguardia e sperimentalismo. Così, una volta trascorsa l’ondata della seconda avanguardia, una volta scioltosi il gruppo per dissensi interni insolubili, il «Verri»

non tramonta, ma avvia una nuova fase di riflessione che darà i suoi frutti intorno agli anni ’70, pronto a scovare «ancora una volta, con un gesto attivo, il momento di una realtà inattesa, qualche cosa che comincia a vivere o sta per nascere» (15) .
Per questa apertura che non ammette esclusioni, per il suo sapersi adattare e insieme provocare nuove situazioni di arte e di cultura, e per il suo metodo di ricerca capace di addentrarsi e scandagliare ogni realtà, è dunque evidente la differenza rispetto al «Menabò» di Vittorini e Calvino e ad «Officina» di Leonetti, Roversi e Pasolini, nate quasi contemporaneamente e ugualmente rivolte alla letteratura quale interresse privilegiato. Mentre queste infatti sono nate per il loro tempo e la loro opera di promozione culturale trova legittimazione all’interno degli anni ’60, il «Verri», in virtù del metodo e delle finalità che da subito si era proposto, può rinnovare il proprio impegno fin oltre il nuovo secolo, suggerendo una via ed un orientamento anche in quell’epoca postmoderna (o post-postmoderna?) nella quale viviamo.
La rivista ha così attraversato quei poverissimi, come sembrava ai più, anni ’80 e ’90, schierandosi contro le voci apocalittiche che periodicamente si riaffacciano a proclamare la morte della poesia e la fine dell’arte, e che colgono nel caos solo il silenzio o forse rimpiangono l’assenza di un Vate Altissimo. Il gruppo del «Verri» si è invece spinto ad indagare il labirinto di poetiche nel quale si dispiega la poesia, per scovare singole personalità e nuovi nomi da proporre, e ancora oggi, in epoca globale e tecnologica, affina le proprie armi per tentare di conoscere e capire ogni nuova condizione e territorio che gli anni ’90 hanno creato. Così, nel numero di maggio del suo 50° anno, ad opera di alcuni suoi storici animatori e di nuovi studiosi, la rivista lancia una nuova sfida rintracciando e proponendo forme di scrittura di un certo profondo spessore che sfuggono all’«imperio soffocante della romanzeria formattata, del narrare pret à porter» (16) e capaci di lasciare al futuro una qualche traccia di sé.
L’«archeologia del nuovo», così come la definisce Anceschi, si salda nell’operare della rivista alla «fenomenologia della crisi» (17) , è, cioè, il risultato di un’opera di scavo all’interno di una crisi che è oramai «lo stato normale della cultura» (18) .

La scommessa della rivista anceschiana - che l’autunno prossimo festeggerà i cinquant’anni di attività - e il suo senso più profondo consistono in questo far fronte ad una condizione che, dopo il crollo dei Grandi Sistemi, inquieta il pensiero europeo da oltre un secolo: una «rivista della crisi», quindi, indagine nei vari volti di questa che alterna momenti di stanchezza ad altri più eccitanti e vivi. Dopo Nietzsche, Marx, Freud, Einstein e Husserl, che dell’instabilità della verità e dell’esistenza umana hanno dato chiaro avvertimento, demolendo dogmi consolidati e mettendo l’uomo di fronte ai limiti delle sue possibilità conoscitive, la scelta verriana è quella di una lucida consapevolezza e di un sapere critico che metta sempre in dubbio se stesso e interroghi continuamente i propri risultati.
Non ignorare o sottovalutare la crisi, né evitarla, ma affondarvi dentro, immergersi nella

Palus Putredinis e uscirne con le mani sporche, per usare le parole di Sanguineti, ma uscirne con una coscienza nuova e con una nuova vitalità. In un tempo «in cui la stessa possibilità del compito teorico sembra essere sospesa» (19) , la via di uscita è prospettata proprio attraverso la passione e il rigore della ricerca, nel rifiuto categorico sia di ogni nuovo tentativo di sistemazione, sia del torpore e della rassegnazione: «e fi! A tutti coloro che alla pronuncia della parola Crisi si sentono tentati di por mano alla pistola» .
I modelli a cui guardare in questa prospettiva sono Montaigne e Nietzsche, ai quali spesso Anceschi affianca Pascal e Savinio, antisistematici per eccellenza e quasi dei suggeritori del metodo fenomenologico nel rifiuto di ciò che è Unico e Assoluto, pensatori che si volgono all’esperienza per coglierne «non più l’essere, l’essenza, la verità delle cose, ma il loro divenire, il fluttuare di esse, il loro passaggio» (21) . L’insegnamento che il «Verri» trae da Montaigne è quello della necessità di vivere fino in fondo la condizione umana e di amarla nella sua infinita varietà, in una continua consapevolezza, e ancora vale come richiamo ad una razionalità che sia sempre critica, mai appagata di sé. Mentre la rilettura di Nietzsche porta a concepire il senso della morte come nuova libertà, un cielo finalmente sgombro (22) pronto per un nuovo cominciamento e una nuova attribuzione di senso che mette fra parentesi i significati già raggiunti.
Tramite l’operazione del «Verri» non soltanto assistiamo al dissotterramento del valore dell’arte, alla rianimazione della critica letteraria e artistica e del vasto campo dell’estetica, ma giunge il suggerimento di un sapere che sia guida e sostegno per l’uomo, affinché egli viva e non smetta di indagare se stesso e i suoi fini. L’immagine che emerge dalle pagine della rivista è quello di un uomo socratico, ma secondo una particolarissima visione:

un Socrate che non ha timore di Dionisio, un Socrate il cui concetto non è uno schema che si impone alle cose e al loro deflagrare, anzi appare come nato dalle cose a cui accenna, anzi voglioso di inquietare, di sollecitare la vita. Un Socrate che ha bisogno continuamente della vita, ma che non vuole esserne sommerso. (23)

Si tratta di un rapporto fertile fra cultura e vita, di una cultura che orienti nella complessità del vivere e che da questo contatto trovi le ragioni del suo rigore; ed è in questa chiave che bisogna leggere l’auspicata fusione fra «mondo di ciò che chiamiamo cultura militante» (24) e cultura universitaria o accademica.
Il progetto verriano è, quindi, letterario solo in parte, approda in quel regno in cui la letteratura si trasforma in una strada da percorrere per uscire dalle complessità del mondo e trovare una via all’interno di un labirinto - reso ancora più complicato dall’intrecciarsi di numerosi fili di Arianna, come giudicava Anceschi - «perché l’uomo viva» (25) , si muova e si intenda con gli altri uomini.
Uno degli scopi della ricerca da subito messo in evidenza è proprio lo sgombrare la confusione linguistica che impedisce agli uomini di comunicare, attraverso il chiarimento delle nozioni e creando un’intesa sul significato delle cose e delle parole: non è, infatti, la contraddizione e lo scontro fra idee diverse la causa del caos e dell’isolamento, ma la loro distorsione e l’incomprensione. Recuperando anche in questa direzione la lezione di Montaigne, maestro del dialogo, della conversazione come fecondo esercizio dello spirito (26) , il «Verri» ha da sempre incoraggiato l’ascolto, il confronto e il dibattito come basi della ricerca, affinché essa sia aperta, libera ed in comune, e contribuisca a ristabilire una «civiltà del dialogo». Questa intenzione era insita fin dall’inizio nel proposito di costituire una rivista, strumento che per la sua stessa natura si alimenta nella pluralità e nel confronto delle idee, e che nel caso del «Verri» ha costantemente cercato di affiancare personalità diverse per età, formazione e interessi al fine di fornire su ogni questione prospettive varie e persino opposte.
Eliminate le idee preconcette e i presupposti dogmatici in favore di un discorso aperto alla comprensione del diverso e del molteplice, la rivista anceschiana ha cercato nel dialogo la via di uscita dalla crisi, nella convinzione che, come sosteneva Savinio, tutto il male del mondo derivi dal fatto «che gli uomini pensano una sola idea e sono incapaci di pensarne più di una» (27) .



Note*

12 LUCIANO ANCESCHI, Progetto di una sistematica dell’arte, Mursia, Milano, 1962, p. 47.
13 LUCIANO ANCESCHI, Critica e immaginazione, in «Il Verri», I, 1956, n°1, poi ristampato in «Il Verri», XLI, 1996, n°1, p. 11.
14 LUCIANO ANCESCHI, Intervento, in «Il Verri», VIII, 1963, n°10 (in INT p. 77).
15 LUCIANO ANCESCHI, Variazione su alcuni equilibri della poesia che san di essere precari, in «Il Verri», XX, 1976, n°1 (INT, p. 146).
16 ANDREA CORTELLESSA, «L’opera e l’attesa dell’opera», in «Il Verri», L, maggio 2005, n°28 (“il libro a venire”), p. 8.
17 LUCIANO ANCESCHI, I lumi del “Verri”, in «Alfabeta», Maggio 1984, n°60, p. 8.
18 LUCIANO ANCESCHI, Intervento, per una ripresa, in «Il Verri», XVII, 1973, n°1.
19 LUCIANO ANCESCHI, Intervento, in «Il Verri», XXXI, 1987, n°1-2, p. 20.
20 LUCIANO ANCESCHI, Intervento, in «Il Verri», XXVIII, 1984, n°1-2.
21 MARIE LOUISE LENTEGRE, La coscienza della crisi. Anceschi tra Montagne e Valere, in Luciano Anceschi fra filosofia e letteratura, cit., p. 96.
22 «Finalmente l’orizzonte torna ad apparirci libero» si dice nella Gaia scienza (Adelphi, Milano, p. 252).
23 LUCIANO ANCESCHI, Il caos e il metodo, in «Il Verri», XXVIII, 1984, n°3-4, p. 45.
24 LUCIANO ANCESCHI, Che cos’è la poesia?, a cura di Fernando Bollino, CLUEB, Bologna, 1998, p. 180.
25 LUCIANO ANCESCHI, Intervento, in «Il Verri», I, 1957, n°4, p. 6.
26 Cfr. MICHEL DE MONTAIGNE, Della conversazione, in Saggi, III, 8, Mondadori, Milano, 2000, p. 980.
27 ALBERTO SAVINIO, Sorte dell’Europa, 1977, Adelphi, Milano, 1991, p. 66.

* Le note proseguono la numerazione della prima parte dell’intervento.

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