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Riflessioni sulla critica dei poeti. #2/4. Mario Luzi

lunedì 8 maggio 2006, di Matteo Veronesi

Prendiamo le mosse da Mario Luzi, figura quasi emblematica di poeta-critico novecentesco, la cui parola luminosa e profonda, che «tocca nadir e zenit della sua significazione», sorge all’indomani dell’amara e disperata ironia, della pronuncia ferma, spigolosa, scabra, delle dialettiche e dubitose sospensioni che contraddistinguono la poesia - e fino a un certo segno, fatti salvi certi esiti banalmente e piattamente giornalistici, la critica - di Montale, e in certo modo prosegue e porta a compimento l’anelito ungarettiano, anch’esso critico non meno che poetico, ad una Parola resa «pura», «innocente», «scavata» nell’abisso della vita e della «pena», anche e proprio dal lavorio critico, dalla rilettura, personalissima e a volte anche arbitraria, di un canone poetico che riusciva - in forza di quella stessa ’rete di analogie’ che avvolgeva ed innervava il parallelo dettato poetico - a far genialmente coabitare Petrarca con Mallarmé, Leopardi con Gongora, aprendosi anche a vivide ed eclettiche suggestioni figurative.

Due volumi recenti - di cui il primo raccoglie diversi scritti già apparsi in varie sedi, il secondo riproduce, con una breve ma illuminante nota dell’autore, il saggio su Mallarmé edito nel ’52 (1) - possono rappresentare ben più di un pretesto, e anzi un assai proficuo punto di partenza, per un ripensamento e una rilettura dell’esperienza critica luziana nei suoi rapporti con la poesia.
In generale, l’esperienza di Luzi mette in evidenza le profonde risonanze metafisiche e le alte implicazioni ontologiche insite nel connubio tra creazione poetica e riflessione critica - tra «pensiero poetante» e «poesia pensante», per ricorrere a categorie concettuali che dai primi romantici tedeschi arrivano ad Heidegger.
Lo strettissimo, quasi necessitato nesso che si pone, nel poeta fiorentino, tra creazione e pensiero della creazione, tra effusione musicale ed evocativa e tormento speculativo, tra espressione e meditazione, è pienamente consustanziale ad una parola, ad un Verbo poetico che - specialmente con l’uso di un inconfondibile endecasillabo, cesellato, compiuto, conchiuso nella sua perfezione (2) , ciclicamente e ricorsivamente ritornante su se stesso, come ad inverarsi e a chiarirsi - rispecchia fedelmente una cristallina, per quanto sofferta, adesione alle verità prime e rivelate, al significato più autentico della realtà e dell’essere (3) .
Come infatti l’Essere e l’Assoluto sono, secondo una secolare tradizione metafisica, noesis noeseos, pensiero del pensiero, pensiero che pensa se stesso, intelletto trascendente ed ineffabile che attinge, direttamente o per gradi successivi, la piena coscienza di sé, l’hegeliana Selbst-Bewusstein, così la poesia, che di quell’Assoluto vuole farsi riflesso, non può che accentuare la conscientia sui, il proprio pensarsi e conoscersi - potremmo dire arieggiando una terminologia heideggeriana - come poesia nel proprio esser-poesia.
L’origine prima - almeno nella modernità - di questo movimento, di questo intreccio e scambio tra poesia e pensiero, andrà forse rintracciata nell’ultima opera di Poe, caposcuola di tutta una genìa di poeti-critici, da Baudelaire a Mallarmé a Valéry. Alludo al poema in prosa Eureka, a detta dell’autore «semplice prodotto d’arte» la cui Verità era resa vera dalla Bellezza; un testo che, attraverso la traduzione e il commento di Baudelaire, esercitò largo influsso sul simbolismo e sull’estetismo europei. Ebbene, l’ambizioso disegno cosmologico, di stampo panenteistico, che attraversa questa breve opera è tutto teso - un po’ come accadrà, mutatis mutandis, in Luzi, e prima di lui in Mallarmé - verso una suprema Autocoscienza che, per mezzo dell’analogia - «reine des facultés», come la chiama Baudelaire, strumento insieme conoscitivo ed espressivo -, si riverbera dalla stessa struttura profonda dell’universo sulla costruzione formale e stilistica della pagina. L’Infinito, scrive Poe, altro non è che «pensiero del pensiero», un concetto che sollecita «la più sottile qualità del pensiero», cioè «la sua autocoscienza».

«Ma pensée s’est pensée et est arrivée à une conception pure», scriveva Mallarmé in una lettera del ’67, su cui non a caso Luzi si sofferma nel citato studio, pur non accettando il tragico nichilismo di quello che era per antonomasia poeta dell’Échec, del Gouffre, del Néant. In Luzi, ecco, la poesia e la critica si incontrano e si uniscono proprio lungo la strada che conduce la parola a protendersi verso l’ineffabile, il sovrumano; ma non si deve credere che per questo il suo discorso sprofondi nella totale irrazionalità, nel misticismo più rapito e trasognato. Anzi, in Glossolalia e profezia, un testo del ’73 confluito l’anno successivo in Vicissitudine e forma, viene chiarita proprio la distinzione fra il discorso irrazionalmente e caoticamente effuso e disarticolato e quello, invece, proprio dell’autentica profezia, disciplinato da un controllo formale, da una intenzionalità artistica, da una precisa volontà di stile, che non escludono affatto la razionalità, e che anzi ne traggono alimento e sostegno, pur senza piegarsi passivamente e meccanicamente al suo freddo giogo, senza chiudersi alle illuminazioni improvvise, alle epifanie imponderabili.
È proprio in questo protendersi della scrittura verso il grado della profezia, in questa parola accesa e illuminata, e nel contempo razionalmente controllata, che, per Luzi, il poeta e il critico vengono a fondersi, proprio nel senso indicato da Valéry in Situation de Baudelaire: nel senso, cioè, di un poeta che «contiene in sé un critico», di «un critico aggiunto al poeta» («artifex additus artifici», secondo la celebre definizione dannunziana), «cioè una facoltà di mediare a fini generali (...) gli stati soggettivi e le ispirazioni conseguenti» (4) . Baudelaire, padre e nume tutelare di tutti i grandi poeti critici della modernità, era stato, per Valéry, «inventore delle più nuove combinazioni della logica con l’immaginazione, del misticismo col calcolo» (5) . Del resto, anche per un teorico della ’poesia pura’ come il Bremond, da cui Valéry ebbe modo di prendere le distanze proprio in relazione a certe inflessioni misticheggianti, la poesia nasce dallo sposalizio di anima ed animus, di istinto creatore e razionalità critica.

Sennonché, prosegue Luzi, la critica - non ovviamente quella esercitata dal poeta, che nasce dalla stessa limpida sorgente del fare poetico - e l’ideologia si sono spesso ridotte al più vacuo soliloquio, alla mera «glossolalia», destituita di spessore e vigore. Il poeta critico rimarca la profonda differenza che separa la critica creativa e poetica da quella ufficiale, spesso affetta dalla «prevaricazione dottrinaria» e dall’«abuso di certi dati dell’analisi» (6) . La critica, come scrive l’autore, dialogando con Barthes, in un altro saggio di Vicissitudine e forma, La creazione poetica?, si è spesso ridotta ad un «discorso parassitario», ad una «niente affatto santa glossolalia».
Appare evidente, poi, come la stessa «naturalezza del poeta» teorizzata in un fondamentale scritto di L’inferno e il limbo non si configuri assolutamente come una sorta di preromantica ’ingenuità’, come la qualità propria di una poesia intesa quale frutto di ’età giovani’, immediata espressione di una condizione di ’infanzia dell’umanità’, e nemmeno come qualcosa di simile al pascoliano stupore, a volte dolciastro e lezioso, di fronte alle piccole cose, ma piuttosto come una specie di verginità ritrovata, di essenzialità e di purezza ricomposte e riattinte tramite il lavorio di uno spirito critico che arde, nel suo catartico fuoco, le scorie, gli eccessi, gli orpelli, gli infingimenti della retorica e gli autoinganni del pensiero. Una concezione, questa, su cui Luzi torna anche nelle pagine più recenti, soffermandosi - nella vertiginosa condensazione delle Riflessioni possibili su un secolo di poesia (8) - sul «mito saltuario», da Campana a Ungaretti a Celan, della naïveté, della «sete di innocenza», «essa stessa riflessa come una citazione, (...) sebbene talora autentica», essa stessa frutto del «continuo riflettere della poesia su sé medesima».
Solo dopo avere avanzato queste premesse sarà possibile, e anzi necessario, indagare i rapporti intertestuali che connettono la pagina saggistica a quella poetica, senza correre il rischio di arrestarsi alle mere coincidenze testuali e sintagmatiche .

Il rapporto tra poesia e critica, dunque, si manifesta attraverso nessi intertestuali, o più in generale linee di continuità di natura lessicale, concettuale, semantica, che tagliano trasversalmente, e legano in modo stretto l’uno all’altro, questi due domini - come trame di uno stesso canto o contorni di una duplice filigrana. Si sarebbe tentati di parlare, ricorrendo ad un tecnicismo forse inutile, di ’isotopie’; ed è stato nientemeno che D’Arco Silvio Avalle ad ipotizzare che l’intero movimento ermetico - inteso anche nel senso lato di temperie, ascendenza, retaggio culturale - possa essere studiato come un vero e proprio ’sistema’ letterario, innervato e sorretto da una fitta rete di isotopie, a livello sia semantico che tematico (9) .

Non è possibile, ovviamente, nell’economia di queste annotazioni, tentare un inventario di tali risultanze testuali che possa aspirare alla completezza, né indicare con certezza orientamenti o criteri generali che tutte le abbraccino e le chiarifichino. Ad ogni modo, si può cercare - per Luzi come per gli altri due poeti - di focalizzare alcuni nuclei concettuali e alcuni grumi di significato che si irradiano e si disseminano dallo spazio della critica a quello della poesia e viceversa, in una vicissitudine solidale e ricorsiva, e che paiono sintetizzare in sé ed esprimere alcuni aspetti salienti e cruciali del pensiero dell’autore.
Si considerino, ad esempio, le metafore e le evocazioni di matrice musicale. Nel quadro del pensiero luziano, la poetica di ascendenza simbolista della «musique avant toute chose», della «musique silencieuse» propria della parola scritta, rappresenta in modo quasi emblematico l’insidia, e insieme la tentazione, di una poesia che si rifugia nell’astrazione, nell’artificio, nell’evasione estetica, e che in tal modo elude il confronto con il reale, l’umano, la vita; ma la musica è, nondimeno, elemento essenziale e necessario alla poesia - melodia, canto, suggestione, fascinazione fonica.
Nel saggio Un’illusione platonica, che dà il titolo all’omonimo volume (10) , sono còlti insieme il fascino e il pericolo di un metastorico ’platonismo musicale’ (da Leone Ebreo a Maurice Scève, l’oscuro lirico caro a Montale e a Bigongiari, da Petrarca a Ficino al Castiglione), che è «forma pura e bianca», «continuità musicale pura», «modo acquisito di musica», e nel contempo, con un significativo passaggio analogico dal dominio del suono a quello della visione, «profondità trasparente e sacra», dimensione intellettuale «inabitata se non dalla legge eterna del suo essere» (e si noti che lo stesso poeta, in Per il battesimo dei nostri frammenti, chiederà alla parola di non sfumare e non disperdersi in impalpabile essenza, di non abbandonare il contatto con le cose e con l’uomo, di essere «luce, non disabitata trasparenza»)(11) .

In L’inferno e il limbo, poi, fondamentale saggio del ’45 confluito nell’omonimo libro, Petrarca, che Luzi rilegge, attraverso Mallarmé, come poeta per antonomasia dell’idealità, della cristallizzazione, della purezza dei valori formali, è ritratto come un «prigioniero», un individuo «distinto nell’universo», che alona e protegge la propria solitudine - quella stessa solitudine al cui «sentimento» petrarchesco Quasimodo dedicava un saggio importante - con la sua stessa «musica», il suo stesso «suono», con l’«armonia inevitabile di un globo personale».
E poi, da Petrarca a Leopardi, secondo un eclettico canone che trovava comunque conferma in un altro poeta-critico come Ungaretti, che anche e proprio lungo la linea Petrarca-Leopardi veniva riscoprendo, all’altezza di Sentimento del tempo, «il canto della lingua italiana (...) nella sua costanza attraverso i secoli», la purezza e la forza, e insieme la consistenza storica, della tradizione poetica italiana, diluita peraltro in una dubbiosa oscillazione tra memoria ed oblio, recupero meditato del passato e percezione della sua lontananza «immemorabile», senso storico e immaginosa, arbitraria deriva interpretativa. Anche la figura del poeta di Recanati è come avvolta entro un cangiante alone di metafore musicali: dalla «distanza» e dalla «catarsi» attinte attraverso la poesia - leggiamo nelle Note sulla poesia italiana, del ’42, rifuse ancora una volta in Un’illusione platonica - nasce un «ritmo» che è «gioia piena, destinata, come un respiro reso puro dall’attesa» (e gioverà qui ricordare l’importanza che proprio questa nozione di attesa riveste nella poesia e nella critica ermetiche, e prima ancora in Rebora). E in Vicissitudine e forma si parla di «occasioni» e di «fatti» che «figurano (...) come rapporti con una musica che ha il suo volo più in alto», di uno stile che è, nella sua assolutezza sublime e incorruttibile, «arcana risonanza delle cose di quaggiù in un cielo che le supera», di un dettato poetico inteso come «disegno melodico indipendente da ogni presupposto», di una «marmoreità» sintattica e argomentativa che si addolcisce nell’«inflessione melodica», divenendo infine «una specie di suono sordo», «una cariatide oscura dei posteriori accenti». Del resto, anche uno degli scritti giovanili opportunamente riesumati da Marco Zulberti, per l’esattezza Il movimento della poesia, attribuiva al poeta dei Canti un «movimento (...) ideale e musicale» che era simile ad «una traccia dell’infinito nel finito della perfetta materia» (12) . È appena il caso di sottolineare l’arbitrio storiografico (ma quanto sottile e fecondo) con cui Luzi, spinto forse anche dalla suggestione di De Robertis, dipinge una sorta di Leopardi-Mallarmé, un Leopardi visto come poeta di pure essenze verbali, di aeree suggestioni musicali, insistendo altresì, in una prospettiva non lontana dalla riflessione teorica di Carlo Bo, sulla distanza esistente tra la dimensione immanente e transeunte degli eventi terreni e quella assoluta della creazione artistica e del godimento estetico.
E si può allora, proprio su questa scia, gettare un ponte verso la scrittura poetica, spesso risolta, almeno nella prima stagione creativa, in disincarnate suggestioni musicali: l’enigmatica «voce» di Avorio è «una roccia / deserta e incolmabile di fiori» (i mallarmiani «fiori assenti da ogni mazzo», o quelli stilizzati ed esornativi di D’Annunzio); la «donna spagnola» di Tango, subitanea epifania femminea, affiora dall’oscurità con il suo sorriso che è «un’ombra intangibile in un soffio / di musiche viola», e incede «col senso melodioso / del suo passo», simile ad altre fluide e diafane creature musicali della poesia europea, dall’Erodiade di Mallarmé alla Viviana «gelida virgo» di D’Annunzio, fino all’Ofelia D’Alba di Ungaretti. L’ambito delle metafore musicali - come accennato - si lega poi sinesteticamente a quello delle metafore visive, come già nell’ultimo D’Annunzio (la “melodia di luce”) e in Mallarmé (le melodiose sillabe dei versi paragonate, in Crise de vers, ad un brillio di pietre preziose).
Ma nel contempo, come già nei mistici e in Dante, luce e fuoco sono anche simboli e manifestazioni della divinità, spiracoli attraverso cui il divino trapela e traspare nel tempo e nel linguaggio, e attraverso cui, per converso, l’uomo e il poeta possono entrare in contatto con il numinoso (e si prenda, a riscontro, Burnt Norton, nei Four Quartets di Eliot, per l’”heart of light”, la “white light still and moving” associati ad una keatsiana “unheard music”, e destinati a contrassegnare l’”eternità d’istante” propria delle epifanie del trascendente, laddove invece la “dim light” del quotidiano, la penombra che non è né luce né tenebra, ne preclude inesorabilmente la visione).

Torniamo, ancora una volta, ai testi critici. Uomini come Dante e Goethe, leggiamo in Del progresso spirituale, ancora in L’inferno e il limbo, sono lentamente pervenuti, emancipandosi dalla materia greve, a «zone di luce, di estrema chiarezza, dove risiede il principio». Il poeta, scrive Luzi in La creazione poetica?, è «al centro di un mulinello di forze che cercano la chiarezza e la luce». Uno scritto del ’39, Sull’ombra (13) , parla della «lucidità dell’ombra» - associata ad «un suono di argento purissimo» - che è «al di là della nostra oscurità e anche della nostra chiarezza», e che rappresenta l’«eternità» e la «vanità» di una poesia sottratta al fluire del tempo. In Vicissitudine e forma è detto che il canto sorge «sul ciglio mitico del tempo», «vestendo» le apparenze e le esperienze «di una luce che non avevano avuto». Guido Cavalcanti, il poeta che - si noti - aveva cantato l’epifania della donna angelicata «che fa tremar di chiaritate l’âre», nella pagina a lui dedicata in L’inferno e il limbo appare ammaliato da ogni «corpo chiaro» che «appare ed avanza nel deserto della sua attenzione», fisso allo «sguardo nella luce piena», al divino che «abita e brilla», «irresistibile», nella donna.
Alla luce, come detto, si associa, secondo una dinamica del resto archetipica, il fuoco; fuoco dell’«ispirazione» e della «profezia», platonico e stoico spirito igneo, ma - si badi - nel senso che si è prima chiarito, cioè da un lato come segreta e profonda sorgente dell’espressione, dall’altro come elemento vivo e dinamico di cui il peritissimo artifex, nel pieno della sua lucidità chiaroveggente, si avvale per purificare e plasmare i materiali della creazione («il luogo della poesia», leggiamo in L’incanto dello scriba, un saggio del volume Vicissitudine e forma, «è la cella dove brucia senza consumarsi la fiamma fissa della meditazione e del lavoro della poesia»).
Ecco allora che, nello scritto sulla Polemica romantica in Italia, ancora in L’inferno e il limbo, il «forte e commosso respiro», la «zona ardente» dell’ispirazione foscoliana appaiono dominati e finanche repressi dal sovrano dominio della perfezione formale (peraltro, nelle pagine foscoliane di Discorso naturale l’autore chiarirà che, nel poeta delle Grazie, arditamente accostato, in questo, a Mallarmé, l’ispirazione era «conscia della brevità del suo fuoco, conscia dell’imminenza della sua cessazione», destinata ad un «breve decorso» contraddistinto da una «luminosa consistenza» che è «anima inafferrabile del mondo», allo stesso modo che l’ebbrezza sensuale e insieme mitopoietica del Fauno si annulla, infine, nella vasta pace del meriggio); in Leopardi, leggiamo in Vicissitudine e forma, vi era «un fuoco interno e misterioso», che ancora una volta la «forma» e lo «stile» riuscivano a dominare, «redimendo» la vita dalla sua «frammentarietà». E del recente Vero e verso si dovrà citare almeno il commosso profilo di Carlo Bo, cupo e insoddisfatto asceta delle lettere la cui «anima ignea» si spense infine «in un cielo oscuro ed enigmatico».

Torniamo allora, prima di lasciare Luzi, alle pagine del poeta: fuoco e luce, anche nei versi, come epifanie del trascendente, e insieme come spazio di un’esperienza vitale e di un’ispirazione poetica che tendono alla trasparenza e alla purezza. Si veda ad esempio, per quell’ossimorica «lucidità dell’ombra» cui ci si è già richiamati, un testo come Maturità, stupendamente sospeso fra enigmatiche «tristi epifanie», «riverberi lontani» e «bianchi lampi» di fontane da un lato, e una vita ormai ridotta a «ombra d’un’ombra», dall’altro; o, per la simbologia del fuoco, poesie come Nell’imminenza dei quarant’anni, ove l’«opera» che spetta agli uomini è indicata in un «penetrare il mondo / opaco lungo vie chiare», procedendo «o d’amore in amore o in uno solo / di padre in figlio fino a che sia limpido», fino a «sparire nella polvere o nel fuoco / se il fuoco oltre la fiamma dura ancora»; o, infine, la celebre L’alta, la cupa fiamma ricade su di te, in Quaderno gotico, tutta accesa da «un luminoso spirito notturno», da una «luce» che «vibra», dal «fuoco», sempre «rigenerato» dal suo «ardore», dell’«essere incessante»; fino all’ultimo Luzi, quello ad esempio di Al fuoco della controversia, la cui parola si scioglie nel luminoso silenzio della divinità, nel
«silenzio raggiante
dell’amore pieno,
della piena incarnazione
anticipata da un lampo
»
- da un’«epifania», potremmo dire, che non è più «triste».

Anche per questa via è dato cogliere uno degli aspetti più salienti dell’avventura intellettuale e poetica luziana: la progressiva insoddisfazione destata da quello che è stato definito «lo scacco mallarmeano» (14) , cioè dal limite e dal vuoto di una poesia - e di una vita - fondate esclusivamente sulla purezza dei valori estetici, lontane dalla realtà e dall’esperienza, e che avvertono alfine la necessità di aprirsi all’umanità e alla trascendenza.



Note

1 - MARIO LUZI, Vero e verso, Milano, Garzanti, 2001; ID., Mallarmé, Cosenza, Marco Editore, 2002.
2 - Si possono vedere, al riguardo, le osservazioni sul metro luziano contenute in STEFANO AGOSTI, Il testo poetico. Teoria e pratiche d’analisi, Milano, Rizzoli, 1972.
3 - Si può vedere, al riguardo, anche per gli opportuni richiami alle ascendenze romantiche e simboliste di questa fusione di filosofia e poesia, G. MAZZOTTA, Mario Luzi: poesia e pensiero della creazione, “Otto/Novecento”, XV, 1991, 1, pp. 133-143.
4 - MARIO LUZI, Glossolalia e profezia, in ID., Scritti, Venezia, Arsenale, 1989, p. 97.
5 - PAUL VALÉRY, Varietà, a cura di S. Agosti, Milano, Rizzoli, 1971, p. 224.
6 - Ibidem, p. 98
7 - MARIO LUZI, L’inferno e il limbo, Milano, SE, 1997 (la prima edizione, del 1949, fu pubblicata a Firenze presso Marzocco).
8 - In MARIO LUZI, Vero e verso, cit., pp. 85-91.
9 - Si veda, per una prima verifica di questa ipotesi (limitata però ad alcuni poeti minori), ENRICO TESTA, Un modello di funzionamento dei testi ermetici, in “Studi Novecenteschi”, VII (1980), n. 20.
10 - Il volume, dato alle stampe dapprima nel 1941 per le Edizioni di Rivoluzione, è stato ristampato nel 1973 da Massimiliano Boni Editore di Bologna.
11 - Su questo peculiare platonismo, si può vedere LORENZA GATTAMORTA, Il platonismo del primo Luzi, “Strumenti critici”, XVII, 2002, 99, pp. 239-261.
12 - MARIO LUZI, Prima semina, a cura di MARCO ZULBERTI, Milano, Mursia,1999, p. 146.
13 - Ancora in Prima semina, cit., pp. 166-167.
14 - Vedi FAUSTO CURI, Ordine e disordine, Milano, Feltrinelli, 1965, pp. 25 sgg.

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