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Riflessioni sulla critica dei poeti. #3/4. Attilio Bertolucci

martedì 16 maggio 2006, di Matteo Veronesi

Sebbene Anceschi, in una pagina già citata, ascrivesse anche Bertolucci alla fenomenologia post-simbolista e novecentesca del poeta-critico (1) , passando da Luzi al poeta della Capanna indiana ci troviamo di fronte ad un autore la cui produzione critica (2) - del resto legata perlopiù alle esigenze della cronaca culturale - presenta un legame meno stretto con quella poetica, la quale peraltro, in sé e per sé, non è caratterizzata da una tensione speculativa e metapoetica paragonabile a quella di un Luzi o di uno Zanzotto.
Le ore passate, leggiamo nei versi distesi e pausati di Gli anni, in La capanna indiana, «scorrono ormai in un pacifico tempo»; «la folla è uguale sui marciapiedi dorati, (...) / il passo è quello lento e gaio della provincia». È questo stesso «passo lento e gaio», questa allure pacata, ma insieme varia e cangiante, e apparentemente un poco trasognata e svagata, quasi da baudelairiano flâneur, che ritroviamo anche nel Bertolucci prosatore e critico, non solo letterario, ma anche cinematografico e figurativo. Una misura critica, questa, che può ricordare certa saggistica rondista, tra un Cecchi maturo e un Baldini, con quel procedere divagante, conversativo, capriccioso, a tratti addirittura esteriore e pretestuoso, all’insegna di quella «marginalità della letteratura» di cui ha parlato, a proposito della Ronda, Giulio Ferroni.

È fin troppo facile, ma proficuo, riferire anche alla prosa la

ben nota «poetica dell’extrasistole» (rivisitazione delle proustiane «intermittances du coeur»), che - teorizzata in uno scritto raccolto in Aritmie - trova significativo riscontro concettuale ed intertestuale nell’VIII capitolo della Camera da letto (il «battito (...) frequente», l’«incessante martellare»). E proprio in Poetica dell’extrasistole incontriamo un esempio dell’approccio alla lettura e all’interpretazione che è caratteristico di Bertolucci critico: un libero succedersi di suggestioni, echi, accostamenti analogici, da Tasso a Whiman a D’Annunzio, sospeso al filo variegato ed esile della memoria, e in cui la fruizione estetica non è chiaramente scindibile dal ricordo biografico e dalla rievocazione della percezione sensoriale - qualcosa di simile, dunque, a ciò che accade in Proust, quel Proust che Bertolucci scoprì insieme a Sereni, tanto nelle Giornate di lettura quanto in certe pagine della Recherche, dedicate al magico incanto della lettura, e che nel Contre Sainte-Beuve gli appariva grande anche come critico(3) .
In tal modo, il lettore «edonista», «frammentario e frammentante», «tesse il proprio "arazzo" intriso di esistenza» (4) . E ha avuto ragione chi ha sottolineato che in Bertolucci non è tanto la poesia a tendere verso la critica, a farsi critica di se stessa, quanto piuttosto la critica ad avvicinarsi ai modi della poesia, nel senso di una soggettività intima e raccolta (5) . Come ha osservato Giuseppe Leonelli, il solo studioso che abbia contemplato, entro un organico disegno di storia della critica

Giuseppe Leonelli

letteraria italiana, la linea dei critici artisti e dei poeti critici, collegandola correttamente alle sue radici decadenti, Bertolucci - «divino egoista», secondo la famosa definizione che ne diede Sereni - è per antonomasia critico legato al «piacere del testo», e paradossalmente «infallibile» proprio grazie a quel «piacere» (6) .

Può essere utile soffermarsi, per avere un’impressione chiara della misura critica di Bertolucci, su di un articolo dell’81, E nel mio specchio vidi Telemaco (recensione al primo volume della mondadoriana Odissea curata da Heubeck e West), rifuso poi in Aritmie. Appare qui un’attitudine tipica dei critici «artisti» e «poeti», dalla décadence ai vociani, vale a dire la consuetudine, o in qualche caso il compiacimento e il vezzo, di indugiare sul singolo verso, e sulle risonanze, sulle sfumature, sulle suggestioni evocative ed analogiche che esso può destare nella coscienza umana e stilistica del critico-lettore, a prescindere dall’«esattezza» letterale e filologica della sua interpretazione. Il secondo canto dell’Odissea è rimasto, «dolcissimo», nell’animo dell’autore, fin dalla prima lettura liceale, «integrato» a un suo «tempo personale in cui vita e poesia si confondevano in un susseguirsi di dissolvenze e sovrimpressioni» (ove è dato cogliere, tra le altre cose, un richiamo a quella dialettica di letteratura e vita così profondamente sentita in quella stagione ermetica di cui Bertolucci fu contemporaneo, anche se solo minimamente compartecipe, e, nello stesso tempo, un riflesso della sua profonda e duratura passione per il cinema). In particolare, egli non ha dimenticato il verso 188: «Il sole calò e tutte le strade s’ombravano». Non è casuale che proprio su quel verso si appuntassero (dall’Avemaria all’Ultimo viaggio a Il poeta degli Iloti) l’attenzione e l’emulazione del Pascoli, poeta affine a Bertolucci per un certo gusto della sfumatura, del mezzo tono, del contorno esile e indeciso, della massa trascolorante, e anche per quell’«epos rusticale», come lo chiamava Contini, che avvolge, così nella Camera da letto di Bertolucci come nei pascoliani Poemetti, eventi, luoghi, persone, memorie, immergendoli nella temporalità ciclica, eterna, inesauribile, della natura, delle stagioni, del lavoro - nel «giro degli anni» che maturano, muoiono e rinascono, nel «tempo intrecciato / di ristoro e di dimenticanza» (e si noti che già il giovane Pasolini accostava Bertolucci ad un Pascoli riletto attraverso Serra, raccolto nella quiete tenera ed aurea della provincia, in un silenzio che è «più di bozzolo che di romitorio» (7) ).
E la mente di chi voglia collegare discorso critico e creazione poetica può correre, a questo punto, a molti luoghi della produzione in versi, parimenti contraddistinti dal chiaroscuro, dalla penombra, dalla fluida percezione di una luminosità che declina e trascolora, di una luce che, impercettibilmente, digrada e si converte lentamente in ombra, o viceversa, con quegli intensi effetti cromatici e pittorici che hanno fatto dell’”impressionismo” di Bertolucci un vero e proprio topos della critica : già in Inverno, nella raccolta d’esordio Sirio, i “gracili sogni” dell’infanzia sono “giardini lontani fra nebbia / nella pianura che sfuma / in mezzo alle luci dell’alba”; in E viene un tempo......., in Lettera da casa, “sull’intonaco / inverdito di muffa luce e ombra / si baciano”, dilatando , con “disperata tenerezza”, “il tempo dell’addio”. Ma anche nella Camera da letto, nel “romanzo in versi” che dovrebbe segnare, nella parabola stilistica di Bertolucci, l’avvicinamento - in modi non lontani da quelli di un Sereni o anche di un Giudici - della poesia al grado della prosa, alla concretezza del tempo narrativo, perdura questa sensibilità chiaroscurale, ossimorica, questo gusto, tipicamente “lirico”, della nuance: si evoca infatti, nel capitolo VIII,

l’adolescenza mischiata
nel tenebrore accecante di eterni
pomeriggi estivi dentro l’ombra inquieta
d’autunnali crepuscoli

e nel capitolo XIV è ricordato il tempo del ritorno a scuola, quando l’autunno incipiente offuscava

i mattini e le sere
di un fiato freddo, azzurro,
che rimaneva sospeso fra cielo e terra

e turbava la proustiana “beatitudine di una lettura / fra sole e ombra”. Anche l’articolo omerico, del resto, parla di un poema che “si fa romanzo”; e, forse, è anche attraverso la rilettura affascinata, rapita, se si vuole arbitraria ed estetizzante, di questo Omero filtrato attraverso Baudelaire e Proust, che Bertolucci perviene da ultimo al respiro insieme poematico e lirico, narrativo ed evocativo, di una parola che - pur nella vivida immediatezza di luoghi, eventi, figure - non dimentica le fascinazioni dell’analogia e della suggestione (9) .
E non si potrà non rilevare, da ultimo, quanto quest’arte della sfumatura e della suggestione cromatica rese attraverso la parola scritta possa avvicinare l’esperienza di Bertolucci alla critica d’arte di un Longhi e di un Arcangeli, dei quali egli fu, del resto, estimatore ed amico - se non si vuole risalire fino a quella «critique d’analogie» che ebbe in Baudelaire il suo maestro e in un Camille Mauclair o in un Maurice Denis i suoi più coerenti prosecutori, o all’idea preraffaellita della critica d’arte come verbal account. In quest’ottica, anche certe pagine di critica d’arte potranno essere proficuamente accostate ai versi. Si può vedere, ad esempio, un articolo del ’50, raccolto in Ho rubato due versi a Baudelaire, in cui nella pittura di Semeghini sono còlti «accordi di colore» (si pensi alle baudelairiane «harmonies de la couleur») che «suonano fra i più puri e intensi del nostro tempo, nella loro fragilità»; espressioni da riscontrare con un testo pressoché coevo, Il rosa, il giallo e il pallido viola (e si noti che l’articolo faceva riferimento a «rosa», «gialli» e «verdini»), ove il poeta evoca un’opaca atmosfera autunnale in cui pallidi fiori si estenuano «al fuoco calmo dei giorni». E si può notare, qui, anche il modo in cui l’impressione cromatica si rapprende, e per così dire si cristallizza, in un tricolon di sostantivi, di elementi linguistici che raccolgono e fissano la sostanza dell’impressione sensoriale, già pronto a trasfondersi - con una metamorfosi lievissima - dalla pagina del poeta a quella del critico, o viceversa.

Maggiore interesse dovrebbe poi essere dedicato al Bertolucci critico cinematografico (10) , in cui è dato ravvisare quello stesso gusto per l’immagine sfumata, tenue, cangiante, per le atmosfere sospese e rarefatte, per le tinte tenui e indecise, che contraddistingue il poeta. Si rilegga, ad esempio, in Aritmie,

La signora senza camelie, ove è ritratta con sguardo affascinato la «bellezza (...) misteriosa» della Bosé e del «paese di nebbie» che le diede i natali, e la fisionomia artistica del «malinconico ferrarese» Antonioni è associata all’«alto silenzio» e alla «tristezza deserta delle prospettive metafisiche su cui si sono aperti i suoi occhi di bambino»; o, nello stesso volume, Greta e Marlene, che inizia con l’affettuosa rievocazione del cinema muto, delle ormai remote immagini fatte, shakespearianamente, «della stessa sostanza dei sogni», che scorrevano «sui teloni silenti», accompagnate da una musica che giungeva come da un’ovattata lontananza.
Il cinema, in cui Benjamin vedeva, in un modo che potrebbe quasi apparire ingenuo, se non fosse velatamente intriso di distacco, un positivo e potente strumento di democratizzazione del discorso artistico, e che al Pirandello dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore appariva invece gelido e innaturale strumento di irrigidimento e reduplicazione artificiale del gesto immediato e vivo, diviene qui tramite, e insieme oggetto, di suggestione poetica e di sfumata rievocazione. Siamo lontani, com’è evidente, dal tratto netto e ruvido - ora scabro ora grottesco, volto ora a mimare, ora a deformare il dato reale - del Neorealismo; dal «linguaggio del mondo reale», fatto di cinemi riconducibili a una grammatica, di verba visivi che rispecchiano e fissano con forza i contorni delle res, teorizzato dal Pasolini di Empirismo eretico. Si tratta piuttosto di un discorso cinematografico fatto di materia onirica, di suggestioni visive e culturali trasfigurate da una facoltà poetica che dai versi si riverbera sulla pagina critica.
E non è difficile trovare, già a partire dalle prime prove del poeta parmense, testi attraversati dalle stesse «nebbie metafisiche», dallo stesso intreccio di sfumature, cangiantismi, sovrimpressioni, dissolvenze, che solcano le pagine critiche citate: dai «giardini lontani fra nebbie / nella pianura che sfuma», evocati nella già menzionata Inverno, alle «dolci nubi» che attraversano il cielo del mattino, al «fumo azzurro», al «celeste ottobre» che «in silenzio trascorre» di Lettera da casa, giù giù fino alle nuvole e al «fumo uscito lento dal mistero», «prima confuso all’azzurro dell’aria», che accompagnano la migrazione dei maremmani, alonata dall’aura del mito, nell’incipit della Camera da letto, o, sempre nel «romanzo famigliare», fino alla Via Vittorio «nel suo lungo percorso fregiata» di «ombre ormai slontananti» (XXIV), alle «maschere di celluloide» che «delirano nel buio», quasi schermando e allontanando illusoriamente le ferite e gli orrori della storia (XXXI).



Note

1 - LUCIANO ANCESCHI, Gli specchi della poesia, Torino, Einaudi, cit., p. 115.
2 - Parte delle prose - critiche e non - di Bertolucci è pubblicata, unitamente all’opera poetica completa, nel “Meridiano” (ATTILIO BERTOLUCCI, Opere, a cura di POLO LAGAZZI e GABRIELLA PALLI BARONI, Milano, Mondadori, 1997); numerose prose non incluse nel “Meridiano” si leggono in ID., Ho rubato due versi a Baudelaire, a cura di GABRIELLA PALLI BARONI, Milano, Mondadori, 2000.
3 - Cfr., per questo giudizio, ATTILIO BERTOLUCCI - PAOLO LAGAZZI, All’improvviso ricordando. Conversazioni, Parma, Guanda, 1997, p. 139.
4 - GABRIELLA PALLI BARONI, Le ali della prosa, in ATTILIO BERTOLUCCI, Ho rubato due versi a Baudelaire, cit., pp. 433-444.
5 - PAOLO LAGAZZI, Un po’ di luce vera, in ATTILIO BERTOLUCCI, Opere, cit., p. XLIV.
6 - GIUSEPPE LEONELLI, La critica letteraria in Italia (1945-1994), Milano, Garzanti, 1994, pp. 165-169. Per questo aspetto, con utili osservazioni circa il modo in cui la percezione del «tempo interiore» si esplica sul piano dello stile, si può vedere PIER LUIGI BACCHINI, Il piacere del testo in Attilio Bertolucci, “Paragone”, XLIII, 1991, 27, pp. 99-104.
7 - PIER PAOLO PASOLINI, Saggi sulla letteratura e sull’arte, t. I, a cura di WALTER SITI e S. DE LAUDE, Milano, Mondadori, 1999, p. 385.
8 - Utili precisazioni, al riguardo, in GIANCARLO PONTIGGIA, Luce e tempo in Bertolucci, in AA. VV., Poesia uno, a cura di MAURIZIO CUCCHI e GIOVANNI RABONI, Milano, Guanda, 1980, pp. 83 sgg.
9 - Circa l’influsso di Omero, filtrato dalle traduzioni del Festa, si può vedere ATTILIO BERTOLUCCI - PAOLO LAGAZZI, All’improvviso ricordando, cit., p. 113.
_10 - Da vedere, comunque, l’indagine, condotta con la consueta finezza, di Niva Lorenzini in AA. VV., Il cinema in Padania, Torino, Rosenberg & Sellier, 1989.


Lo studio, che qui proponiamo suddiviso in quattro parti, ?® comparso come saggio unico sulla rivista "Atelier". Questa la referenza bibliografica precisa: Matteo Veronesi, "Riflessioni sulla critica dei poeti (Luzi, Bertolucci, Zanzotto)", in ¬´Atelier¬ª, IX, 2004, n. 33, pp. 57-73. Qui la prima e qui la seconda parte su SM.

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