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04 - Recensioni
La vita degli altri
"Das Leben der Anderen", un film di Florian Henckel von Donnersmarck
lunedì 3 luglio 2006
Ecco la recensione di un film che non ?® uscito in Italia, e che probabilmente mai uscir?†. E per di pi?? scritta da una che non ?® n?© una critica cinematografica n?© una storica della DDR. A che pro pubblicarla, allora? Forse, da tutti questi “non”, potrebbe nonostante tutto venir fuori qualche spunto interessante - almeno speriamo. [ES]
La vita degli altri è uscito in Germania nel marzo del 2006, ricevendo numerosi premi. Regia e sceneggiatura sono di Florian Henckel von Donnersmarck. I protagonisti sono Ulrich Mühe, Sebastian Koch, Martina Gedeck, Ulrich Tukur.
La vita degli altri è una dimensione segreta, impenetrabile. La vita degli altri ci è preclusa per definizione. Eppure la vita degli altri, col suo carico di destino che deve rimanerci nascosto, può essere violata, ci si può inserire nelle sue pieghe, afferrandone gli aspetti più segreti. La vita degli altri, infine, è un film che parla della STASI, la Staatssicherheit della Repubblica democratica tedesca. E che tenta di confrontarsi col tema del controllo dello stato sulla vita dei cittadini, e finisce per essere solo dimostrazione della sua arbitrarietà. È, questo, un tema complesso, che corre come un filo rosso attraverso sistemi politici molto differenti tra loro. Come viene esercitato il controllo, e sino a che punto esso è lecito? Quali sono i meccanismi che lo permettono? Quali sono le forme che assume? È un controllo esercitato in maniera brutale ed esplicita - affinché di quella brutalità sia resa testimonianza e nessuno osi opporvisi - o si tratta invece di una forma di controllo più sotterranea, ma non per questo meno paurosa?

Mi sembra interessante una considerazione che, pur non essendo direttamente riferita al nostro tema, cioè il controllo esercitato in un regime totalitario (sempre che di totalitarismo sia qui corretto parlare), riguarda un aspetto importante della questione:
“Montesquieu comprese che la caratteristica dominante della tirannia era il suo isolamento - l’isolamento del tiranno dai suoi sudditi, e quello dei sudditi tra di loro per effetto del reciproco timore e del sospetto - e quindi che la tirannia non era una forma di governo fra le altre, ma contraddiceva la condizione umana essenziale della pluralità, dell’agire e parlare insieme, che è la condizione di tutte le forme di organizzazione politica. [...] Essa sviluppa i germi della propria distruzione dal momento in cui comincia a esistere” [1].
Ora, quello che a me pare importante è l’elemento del “reciproco timore e del sospetto”, dell’“isolamento”, che però nel film viene fuori in misura piuttosto limitata. La vita degli altri mi pare essere, infatti, solo un tassello che va ad assommarsi al quadro delle testimonianze, ma di fatto poco aggiunge alla comprensione d’insieme del fenomeno. Tuttavia, se da un lato lascia perplessi per il suo modo di affrontare la storia - perché forse è proprio questo l’interrogativo generale che nasce dal film ed è lasciato senza risposta: come si fa ad affrontare la storia in un film di finzione? - d’altro canto riesce ad avvincere lo spettatore nonostante i suoi 137 minuti, per la struttura narrativa coerente, per il suo essere una storia - stavolta intendendo il termine nell’altro senso - che funziona.
La vicenda, ambientata nella Berlino est degli anni Ottanta, è presto raccontata: un pezzo grosso della SED s’invaghisce della donna di un noto scrittore, idealisticamente linientreu, “fedele alla linea”, non per opportunismo ma per convinzione. Dato che lei non cede alle sue avance, per vendicarsi fa in modo che l’appartamento dove i due abitano venga messo sotto sorveglianza dalla STASI, nella speranza di incastrarli. Il caso vuole che, proprio in quel periodo, lo scrittore inizi a prendere coscienza delle numerose ingiustizie che il regime commette ai danni degli artisti, tarpando le ali alla loro libertà di espressione, e si avvicini quindi a un gruppo di dissidenti. L’ufficiale preposto alla sorveglianza dell’appartamento, però, prende sotto la sua ala protettrice lo scrittore e la sua compagna, che è una celebre attrice di teatro, perché si è reso conto di quanto

sia ingiusto tentare di rovinarli per motivi tanto futili come una vendetta privata. Il film, sostanzialmente, è la storia di come questo ufficiale riesca a salvaguardare la vita di questi “altri”, fino alla svolta tragica del finale.
Ora, da più parti il film è stato accusato di operare una semplificazione, non solo nei confronti della realtà storica, ma anche della caratterizzazione dei personaggi. In effetti, sia l’ufficiale della STASI che lo scrittore appaiono figure davvero troppo lineari, mancano di profondità. Anche le inevitabili contraddizioni che la situazione dovrebbe scatenare nei due protagonisti maschili sono del tutto assenti. Per quanto riguarda lo scrittore, infatti, non viene in alcun modo delineata la crisi che dovrebbe aprirsi col riconoscimento dell’abissale distanza tra uno stato nei cui ideali ci si riconosce e la prassi politica, terribilmente diversa, che esso adotta. Il caso dell’ufficiale della STASI presenta un limite ancora più evidente. In lui, che sarebbe in sostanza la figura del “buono”, di colui che si redime, dovrebbe essere esemplificato il ripensamento, la presa di coscienza del fatto che la violazione sistematica della vita degli altri è un atto aberrante. In realtà, però, le cose non sono così semplici: l’ufficiale, infatti, cambia perché gli ripugna l’idea di sorvegliare degli individui solo per venire incontro al desiderio di vendetta personale di un potente. Ma non perché si rende conto della “violenza” dell’atto in sé. Insomma, viene da chiedersi come non abbia potuto trovare altrettanto aberrante quel gesto quando lo compiva ai danni di persone sospettate di tramare contro “la causa”, il che poteva voler dire anche la semplice volontà di esprimere un dissenso estremamente moderato. Insomma, la redenzione dell’ufficiale non funziona, è poco credibile e non sufficientemente motivata.
L’unica che, a mio avviso, presenta una certa complessità, una certa imprevedibilità rispetto agli eventi, è l’attrice, la compagna dello scrittore. È in lei che vengono fuori il dissidio, l’indecisione, la confusione prodotta da una situazione così “violenta” (e intendo violenza proprio nel senso di violare, di spingersi in un territorio a cui non dovrebbe essere lecito arrivare). È in lei che le contraddizioni prendono corpo, che l’egoismo e la lealtà, l’esigenza di giustizia e quella di una vita tranquilla entrano in conflitto. Non è un caso che proprio lei alla fine non sia in grado di

sopportare tutti i condizionamenti a cui è stata sottoposta. È, insomma, nella sua fragilità, l’unico - o quasi l’unico - personaggio ad apparire davvero umano.
Insomma, il film non appare sempre all’altezza del tema che si propone di affrontare, e non solo dal punto di vista storico, ma anche per la caratterizzazione dei personaggi. Per uno spettatore non troppo informato (come la sottoscritta) ha però il pregio di essere non solo godibile e ben congegnato, ma di aprire anche la strada a degli interrogativi, nonostante qualche perplessità.
Un grazie ad Anna per una serata passata in un caffè a chiacchierare di questo film.
[1] Hannah Arendt, Vita activa: la condizione umana, Bompiani, Milano 1999, p.149
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