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Piero Pieri - Il reality crudele della gioventù

Piero Pieri, Furio, Allori, Ravenna, 2004, pp. 226.

mercoledì 6 settembre 2006

Piero Pieri aveva editato pochi anni fa, per Stampa Alternativa, il suo primo romanzo, La notte di Stalin, quando il comunismo finì di morire anche sessualmente. In quel testo si snodava il dirompente racconto di un piccolo uomo alle prese con una donna obesa, che lo strapazzava fisicamente e moralmente, fino alla tragica asserzione della fine dell’utopia comunista, impersonata dalla strabordante materialità della donna. Pieri non smette di stupire con il suo secondo romanzo, Furio, anch’esso metafora sottile, ma giocata sul paradosso e sull’iperbole, dell’agonizzante realtà contemporanea. Due ragazzi armati di macchina da presa, si aggirano per la città in caccia di soggetti sempre più pulp da filmare. È il romanzo crudele della gioventù che cerca il film perfetto che incarni la propria iconografia personale: «Emozione. Dolore. Orrore. Vita. Merda. Realtà. Finzione. Tequila e sale. Cinema!» La confusione dell’arte con la vita arriverà presto, anzi, nel capovolgimento simbolico, l’assoluta totalità dell’arte e la presunzione del genio porteranno il protagonista a “dirigere” come un regista demiurgico e implacabile, l’atrocità del mondo: «Cinema allo stato puro. Gioia e dolore. Spontaneità, improvvisazione, crudeltà applicata».
Ecco allora emergere il calco di Un’arancia a orologeria, nella girandola di perversioni che i due amici mettono in scena per provare sensazioni sempre più forti. Ma forse è proprio l’occhio impietoso di Kubrick e la crudeltà di Cronenberg, ciò che sporge dalla penna del narratore, nell’attestare la bellezza della decadenza, e la dolcezza acre della trasgressione: «Fuori la vita umilia, in sala entusiasma». La Grande Voce del Cinema raccoglie il senso dell’idealità totalizzante del vissuto, immolato agli altari dell’arte, il genio che consuma sangue e carne e si riproduce per scissione: «La Voce del cinema non ama tutti i suoi figli. L’arte non è una mamma premurosa e solo pochi figli arrivano ai piedi del roveto ardente».
I due giovani aspiranti registi, sono dunque alla ricerca del film perfetto da girare, una sorta di opera d’arte totale, che sconfina con il Reality show. In un’iconografia Mod primi anni Sessanta i due ragazzi si muovono in una città impazzita, mentre una voce fuori campo narra la loro storia. Sentire le voci oggi è sinonimo di pazzia, ma la Grande Voce che compare nel libro è anche quella del narratore onnisciente, è l’uomo che parla nell’età della ragione, è l’Io scisso, diviso, di una personalità che giudica analiticamente il suo lato malato. Ma non per condannarlo, semmai per evocarlo, eternarlo in un istante sublime di atroce tenerezza. È il richiamo spirituale alla materialità della terra, il grande battito della natura che anche la gioventù ipertecnologicizzata sente affianco a sé, almeno per un minuto. È questa la magia del “tutto & ora” dilaniata dalla sublimazione culturale imposta per tenere a bada la potenza rivoluzionaria della giovinezza.
La storia avanza intessendo frasi lapidarie, qua e là intessute da vere epifanie poetiche: Pieri è prevalentemente e soprattutto un poeta, la vera natura della sua scrittura è quella lirica, da questa caratteristica primaria si diramano le altre. Ma è la capacità immaginativa del verso che rende avvincente la sua prosa, l’eco della parola, la carezza dell’assonanza, il calembour, il gioco di parole che parte dal suo stesso nome: Piero Pieri.
L’essenza della scrittura dell’autore è racchiusa in un’immagine dicotomica: Pieri da un lato è Pierino, dall’altro è Pierrot. Gioca con le parole con la meraviglia del bambino che si stupisce del mondo, capacità sicuramente debitrice dei suoi studi palazzeschiani, ma dall’altro lato è capace di una riflessione critica che incapsula in un sorriso triste la provocazione polisemica della lingua.
Dunque è la texture poetica della prosa di Furio a rendere l’andamento teatrale della storia.

La riflessione sulla violenza è il nodo cruciale del libro. Il momento dell’incidente filmato dai due protagonisti ricorda la celebre serie degli incidenti di Andy Wharol, ed anche il lavoro di un famoso fotografo americano dei primi anni Sessanta specializzato in scene cruente. Pieri individua la scissione tra violenza e lotta nel ripiegamento individualistico post-punk. Il suo operare si ricollega alla prosa di Boris Vian ed Henry Miller, ma anche al Opus pistorum. Permane l’eco del Burgess e dei racconti di Bukowsky. La temperie del libro è tutta di quegli anni, c’è la desolante disperazione di una clonazione sterile di modelli, svuotati della loro carica eversiva. Ma più che ad Arancia meccanica, ci preme ribadirlo, questi due ragazzi rimandano all’atmosfera di Crash di Cronenberg. Si nutrono della stessa estetica necrofila, ma non riescono ad ironizzarla e decontestualizzarla attraverso l’iperbole, come avviene ad esempio nei film di Tarantino. Anche le battute macabre fatte dai due ragazzi alla vista del sangue e del dolore, somigliano all’escamotage usato dagli aguzzini di Salò di Pasolini: amplificano l’orrore. Questa è tragedia pura.
La scissione tra sopravvivenza e crudeltà avviene attraverso la “simulazione”, fenomeno ben noto a chi, come Pieri, si occupa di teatro. È lo strappo primigenio dal realismo alla virtualità, dal corpo all’immagine. In questo anche la morte, mandata in onda in diretta, perde la sua connotazione finale per divenire il The End televisivo: un fotoritocco originale come il sesso, i due continenti oscuri dell’inconscio usati dal sistema per sedurre, cioè per simulare il desiderio.
Pieri ci dice che la morte è già tra noi: la metropoli è una necropoli, le case sono bare dalle finestre murate e gli ospizi sono forni crematori. Il suo sguardo riesce ad inquadrare tutto ciò in un’operazione alla Mondo movies, ma con la consapevolezza ironicamente atroce di un film come Natural Born Killers. Questi due ragazzi che vanno alla ricerca, per dirla con Mishima, del Sapore della gloria, sono destinati alla morte. La “bella morte” estetizzata dalla destra, quella a cui la televisione di regime ci sta pericolosamente abituando. E Pieri riesce a mettere in scena un occhio cinematografico che sembra chiedersi: Essi vivono?


Qui i testi di Pieri disponibili in rete.

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