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David Madsen - Confessioni di un cuoco eretico

Traduzione di Francesco Francis, Meridiano Zero, 2006, 216 pp.

sabato 9 dicembre 2006, di Giulio Braccini

Leopold Bloom comincia la sua giornata ingurgitando un sostanzioso rognone - e giù gli esegeti a spiegarci che è tutta una metafora della carnalità del personaggio. Che dire allora di questo Orlando Crispe la cui vicenda potrebbe avere come incipit qualcosa di para-camusiano tipo “Oggi ho mangiato mia madre”?
David Madsen (a quanto pare un professore universitario inglese in incognito nel paese delle lettere) ci aveva già dato lo scorso anno le grottesche Memorie di un nano gnostico, romanzetto storico a tema che sullo sfondo delle guerre d’Italia e delle copule papali raccontava del buffone di Leone X e della sua scoperta del male insito all’esistenza; si trattava di una riedizione, in chiave appunto gnostica, del bellissimo e spietato Nano di Lagerqvist (ben consigliatoci da FSC), con una giunta di sesso e una riverniciata di gusto dell’orrido. Stavolta Madsen (che sta per altro lavorando alla sceneggiatura del film che ne verrà tratto) ci offre questo “pamphlet anti-vegetariano”, la storia di un mistico della gastronomia che consacra la propria esistenza alla “carne”, in entrambi i sensi della parola. Dopo la saga di Hannibal Lecter, e magari dopo il caso del cannibale tedesco che aveva trovato su internet un partner disposto a farsi mangiare, è difficile stupirsi se a un certo punto la carne sessualmente intesa la si ritrova in tavola, ma il romanzo trova il passo migliore forse proprio nel climax delle ricette, microgenere letterario che si comincia ad esplorare con un anodino (per quanto pomposo) Boeuf Stroganoff per ritrovarsi sul finale con delle strepitose Aiguillettes de canetons à l’esprit de femme a base di petto d’oca giuliva. Si percorre d’altronde tutta la storia clinica di Crispe, da un neonatale morso alla mammella materna fino ad un adulto parossistico slancio erotico verso i quarti di bue, e non poteva mancare il tradizionale controcanto narrativo costituito dalla figura dello psichiatra. Si evoca facilmente il dottor S. in conflitto con Zeno, ma forse il richiamo più appropriato è invece al fittizio prefatore della “Lolita” di Nabokov, una figura così moralista da farci mille volte preferire il viscido Humbert. Crispe, autodefinitosi filosofo del “fagocitazionismo”, ha in comune (per opposizione) con l’universo nabokoviano diverse altre cose, a partire dal culto per la sinestesia (la capacità di percepire ciò che esiste con sensi diversi da quelli designati a percepirlo), algida nel genio russo-americano, qua caldissima ed attivabile addirittura a comando - ma soprattutto l’idea del mondo come errore di un demiurgo. Se infatti per certi ingredienti serviti ai suoi inconsapevoli clienti Crispe può ricordare il dadaismo scatologico-alimentare di un Fight Club, l’ispirazione è qua invece nient’affatto sociale (tant’è vero che la vicenda comincia ad Highgate, sulla tomba di Marx) e del tutto escatologica; comporre (sinfonie o salse) è divino, e sono stati “senz’altro gli intossicanti profumi delle future carni sacrificali ad accendere le nari di Yahvè” predisponendolo nientedimeno che alla Creazione. Dove, in tutto ciò, finisca la satira e dove cominci il puro delirio letterario, non si sa, però il piacere (con qualche inevitabile nauseetta) dura per tutto il libro, composto per cliché (da un Edipo da manuale fino a classiche “botte in testa” rivelatorie del senso della vita) ma con un’anima originale e con una scrittura corposa e (inutile dirlo) gustosa.
Per chi gli sta sulle palle i minimalismi da nouvelle cuisine.



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