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06 - Die Fackel e il fiammifero

Le stalle di Augia dell’accademia

martedì 24 aprile 2007, di Matteo Veronesi

Due libri recenti, Lacchè, fighette e dottorandi di Maurizio Makovec (Clinamen) e Candido o del porcile dell’Università italiana. Storia vera di un cervello senza padrino (Limina) di Ernesto Parlachiaro (eloquente pseudonimo, quest’ultimo, dietro cui si cela prudentemente un noto studioso di filosofia), richiamano con vigore l’attenzione su un problema del resto ben noto, e da tempo conclamato: quello delle baronie, delle clientele, del corporativismo e del nepotismo che affliggono l’università (quella italiana in modo particolare, ma, temo, non solo quella), trasformando concorsi e carriere in tristi farse, che rischiano di avere poco o nulla a che fare con la qualità della ricerca e il valore dei candidati. Documentato quanto agghiacciante, al riguardo, il recentissimo dossier di Cristina Zagaria, Processo all’università (Dedalo), che altro non fa se non raccogliere e riunire in un quadro organico e tristemente coerente le desolanti notizie rese pubbliche da inchieste tanto giornalistiche quanto giudiziarie.
Pur se con due stili diversi (improntato ad un allegorismo voltairiano, leggero e brioso ma insieme tagliente, quello di Parlachiaro, pervaso invece, quello di Makovec, da una dura e speso livorosa indignatio e da una rudezza e una violenza verbale che hanno indotto la critica a fare il nome di Céline), i due libri sopra citati inducono tutti, e in particolare coloro che possono essere definiti in senso lato uomini di cultura, ad amare e desolate riflessioni.
Perché, quando si parla di Università (di quella universitas studiorum che dovrebbe auspicabilmente rispecchiare la universitas rerum, la molteplicità plurale, variegata ed affascinante dell’essere e del pensiero), non ne va solo della legalità, della correttezza, dell’equità che sempre dovrebbero regolare, in un mondo ideale ben lontano, purtroppo, da quello reale, i rapporti fra gli uomini: ne va di qualcosa, se possibile, di ancor più delicato e prezioso, vale a dire della libertà e del riconoscimento del lavoro intellettuale, e della possibilità stessa che giovani studiosi capaci hanno di dedicarvisi con il tempo, l’agio e la serenità necessari, e con la legittima aspettativa di ottenere un riconoscimento proporzionato ai propri meriti e ai propri contributi.

Fra i due casi estremi di un neolaureato privo di pubblicazioni che si ritrova, grazie alla benevola e generosa «segnalazione» di un docente italiano, o magari di un papà influente, a fare il lettore ad Oxford, e di un giovane studioso che, dopo avere scritto o curato uno o più libri e aver dato alle stampe decine di saggi, finisce, perché privo di appoggi e di «cooptazioni», a farsi minacciare con un coltello in un istituto professionale, corre il discrimine perentorio e spietato di una fortuna che, nel settore accademico (come del resto, temo, nella maggior parte dei settori), è tutt’altro che cieca o bendata, ed è anzi abilmente ed inesorabilmente pilotata dalla logica delle baronie e delle consorterie, delle fazioni e delle parentele, quando non da pregiudizi e preclusioni (perlopiù, del resto, strumentali e pretestuosi) di natura ideologica e politica, che la storia stessa parrebbe oramai, nel modo più chiaro e finanche drammatico, aver superato, bruciato, privato di ogni valore.
La favola, lieve ma amara, narrata da Parlachiaro si conclude con la consolazione (invero magra) di avere, grazie all’esclusione dall’olimpo accademico e alla relegazione nel grigio insegnamento liceale, evitato la «suinificazione» di chi, accolto dal sistema dopo anni di adulazioni, di clientelismo e di corvées, finisce inevitabilmente per accettarne e subirne le norme avvilenti e le regole meschine.

A ben vedere, però (e non c’è bisogno, per rendersene conto, di aver letto Il maestro di Vigevano di Mastronardi o Il supplente del troppo dimenticato Angelo Fiore), il mondo e la quotidianità dell’insegnamento elementare, medio e superiore (del «mestiere oscuro», come lo chiamava Luzi che si trovò ad esercitarlo, in cui si deve ostinatamente, pervicacemente «durare») rischiano di risultare, con la loro monotonia ossessionante, il loro scarso o nullo prestigio sociale, il loro valore culturale reso ormai impalpabile e vano dalla superficialità e dall’effimero della «società dello spettacolo», ancor più alienanti, logoranti, avvilenti, «suinificanti», della pur tanto spesso greve e plumbea realtà accademica.
Il ballo dei sapienti di Maria Corti mostrava in modo eloquente le tensioni, le ambiguità, le schizoidie insite nell’anfibia condizione del letterato suo malgrado diviso e sospeso fra la ripetitività vuota ed insensata dell’insegnamento liceale, fatto di interrogazioni, di compiti in classe, di voti, di numeri senza valore e senza significato allineati giorno dopo giorno nelle caselle e nelle colonne, e le speranze balenanti, precarie, spesso fallaci, di un approdo accademico. Un particolare tipo di letterato, questo, che – diceva Serra riferendosi a Panzini, che nutrì anch’egli vane velleità accademiche – sta a metà strada fra il docente universitario dagli «occhiali d’oro» e dalla «fronte lucente», avvolto dal sacro alone di un più o meno fantomatico e convenzionale «prestigio scientifico», e il povero, rassegnato professore di provincia, alle prese ogni giorno con i compiti, il registro, le scolaresche ribelli, le chiacchiere paesane.
Montale, recensendo il romanzo prima citato della Corti, notava – con la laconicità desolata e lucidissima di tante sue pagine di prosa e di poesia – come «la vita della scuola» fosse «una parte minima», anche se «pur sempre una parte», «della vita della cultura», pur se in un’epoca in cui la sintesi e il culmine di quelli che oggi si definiscono «saperi di base» potevano risolversi, tutt’al più, in un umile e saggio «sapere di non sapere».
Forse l’insegnante medio e superiore, incatenato alla sua quotidiana ed uguale fatica, deve, oggi, rassegnarsi all’intrinseca ed essenziale inutilità del suo lavoro, che si riassume nel tentare, perlopiù invano, di difendere e trasmettere un repertorio o un canone di conoscenze fatalmente fissi e statici, se non stantii, proprio nel mondo della «modernità liquida», del perenne mutamento, della continua perdita, o della definitiva assenza, di concetti e valori condivisi, agiti, concretamente operanti nel vivere civile. Sul piano della persuasione occulta, della comunicazione subliminale, dell’immediatezza, rapidità ed incisività dei messaggi, la civiltà del testo, della parola, del ragionamento, della riflessione, dell’indagine, della conoscenza profonda – che sarebbe compito della scuola difendere – non può in alcun modo opporsi a quella dell’immagine e dell’apparenza.
In ogni caso, una fatale, asfittica, provinciale marginalità è proprio la condizione dello studioso, del letterato per vocazione e per anima che le logiche dell’Accademia hanno, a prescindere dalle capacità e dai meriti, escluso dal «cerchio magico» della ricerca scientifica, del lavoro intellettuale inquadrato, istituzionalizzato, ufficialmente riconosciuto e (particolare non certo trascurabile) pubblicamente finanziato.

Sembra quasi inutile, e come suol dirsi «dietrologico», insistere sul fatto, ben noto, che i concorsi universitari sono, a tutti i livelli (forse con la sola, rara eccezione di alcuni dei frustranti, quasi umilianti posti di dottorato «non coperti da borsa di studio»), sistematicamente truccati.
«Non coperti da borsa di studio», «Valutazione comparativa», «Pubblicità degli atti», «Produttività scientifica», «Rilevanza scientifica della sede di pubblicazione»: parole di una burocrazia gelida, distante, beffardamente impassibile, da un lato falsamente e freddamente corretta e cortese, dall’altro rigida e spietata; segni di un’«antilingua», come la chiamava Calvino, che maschera il «brutto poter» di un’istituzione iniqua, la quale – è bene ribadirlo senza mezzi termini – si trincera dietro i propri privilegi e si fa forte delle proprie connivenze politiche, e della propria conseguente intoccabilità, per operare al di fuori di qualsiasi legalità e di qualsiasi giustizia.
Forse, malgrado i toni un po’ troppo categorici, e al di là del fatto che si condivida o meno la sua posizione politica, non aveva tutti i torti Marcello Pera quando scriveva, su «Panorama» del 9 novembre 1995, che «la nostra università è più propriamente un’accademia sovietica delle scienze la cui unica funzione è quella di riprodurre i propri membri».

«Era il migliore, l’abbiamo fregato. Abbiamo fatto una battaglia terribile. Proprio mafia e contromafia. Fare giudizi in modo da fregarli tutti tranne uno o due non è facile, però sto uscendo fuori con una bella lingua italiana, mi sto divertendo». Così si esprimeva (si veda ad esempio «La Repubblica» del 17 settembre 2005), in un’intercettazione telefonica, riferendosi ad un concorso appena arrangiato, un professore pisano. Un’intercettazione, questa, che tra l’altro mostra con chiarezza ed evidenza innegabili l’arbitrio assoluto ed incontrastabile con cui le commissioni, forti dell’insindacabilità del loro giudizio, usano la sempre aleatoria, opinabile, facilmente manipolabile «prova orale» come strumento per eliminare, con sapienti quanto cervellotiche alchimie di punteggi, candidati difficilmente attaccabili e superabili sul piano, ben più solido, delle pubblicazioni.
Parrebbe, a giudicare dalle intercettazioni e dalle inchieste, che il malvezzo dei concorsi truccati affligga in modo particolare (forse anche per via degli interessi economici legati all’industria farmaceutica) l’àmbito medico. Ciò può indurre a considerazioni preoccupanti. Se ad essere manipolato è un concorso di filologia, la conseguenza (per quanto deprecabile) potrà essere, tutt’al più, qualche verso storpiato, qualche pagina stravolta, qualche congettura assurda. Se il fenomeno coinvolge, invece, un concorso di cardiochirurgia, potrà andarne (mi si perdonino il patetismo e l’allarmismo) della vita di un uomo, di una donna, di un bambino.
«Fregarli tutti, tranne uno o due»: questa, precisamente, la filosofia dei concorsi universitari. C’è da temere che dietro ogni bocciatura di uno studioso meritevole ci sia – magari in modo solo leggermente meno sistematico e meno scientifico – una logica simile a questa, arrogante, sprezzante, conscia di operare al di fuori e al di sopra di ogni legge.
Una logica che ha forse, negli ultimi anni, inciso (anche nel campo umanistico) sugli stessi orientamenti metodologici della ricerca accademica, favorendo la diffusione e il predominio di quella che un grande filosofo chiamava la «barbarie della specializzazione». Se ad essere istituzionalmente premiate non sono l’originalità o la profondità del pensiero, ma la mera applicazione di protocolli metodologici impersonali ed asettici – se, addirittura, la creatività e l’originalità attirano sul candidato accuse di «impressionismo» o di «soggettivismo», quasi che per il fatto di essere critici o filosofi si fosse meno uomini, e ci si dovesse trasformare in macchine –, allora diventa più facile favorire quella che Pietro Rossi ha icasticamente definito («Il Mulino», n. 5, settembre-ottobre 2000) «l’irresistibile ascesa del cretino locale», l’inarrestabile carriera, condotta indipendentemente dalle capacità e dai meriti, di un aspirante che abbia svolto anni di onorato servizio come famulo e portaborse nell’Ateneo in cui il concorso – solitamente indetto ad personam – si svolge. La triste «burletta dei concorsi locali», come la chiamava Claudio Magris sul «Corriere della Sera» del 16 marzo 2004, è destinata, temo, a ripetersi in modo ostinato e inesorabile per molti decenni.
Il decentramento e la localizzazione dei concorsi universitari – per quanto giustificati, in astratto, dalla logica in sé non errata dell’autonomia universitaria – hanno, a parere di alcuni, ulteriormente favorito il clientelismo, le baronie, il malaffare, l’arbitrio, indebolendo ancora di più il già mite controllo che gli organi superiori potevano esercitare sui singoli Atenei.
Né sembra che le riforme più spesso proposte possano in alcun modo estinguere questo malcostume: non l’introduzione, nelle commissioni, di membri stranieri, perché in ogni caso, come si accennava, la fantomatica «fuga dei cervelli» di cui tanto si favoleggia passa sempre e comunque – anche formalmente e legalmente – attraverso il consueto sistema delle conoscenze, delle «segnalazioni», delle recommendation letters, e la rete internazionale (pur legittima, e in qualche caso preziosa e feconda sul piano scientifico) che lega i docenti italiani a quelli stranieri porterebbe in ogni caso ad accordi, trattative, scambi di favori; non la reintroduzione della «libera docenza» o di una primaria abilitazione nazionale all’insegnamento universitario, che diverrebbero con tutta probabilità nulla più di un titolo formale, di un «pezzo di carta» in sé e per sé privo di valore (più o meno come un diploma di liceo classico) che non si negherebbe a nessuno, e men che meno ai vincitori in pectore, che hanno già una cattedra pronta che li aspetta in qualche università; non l’introduzione di contratti a termine soggetti a periodica riconferma subordinata alla «produttività scientifica», perché questo sistema accentuerebbe il già grave problema del precariato accademico, e rischierebbe di esporre i docenti a pressioni o ricatti da parte degli Atenei, compromettendo la loro libertà di studio e di ricerca.
L’unica vera possibile (anche se non probabile) riforma dovrebbe sorgere dalla coscienza morale ed intellettuale, dalla probità, dall’equità, dall’amore disinteressato per il sapere – sentimenti e attitudini da cui non dovrebbe mai andare disgiunto il lavoro intellettuale.
«Diligite iustitiam, qui iudicatis terram».
I tempi e la mentalità dominante non sembrano favorevoli ad una svolta in tal senso, né paiono lasciarla presagire.

Nel frattempo, gli «orfani accademici», gli studiosi privi di appoggi, non possono che lavorare ostinatamente nell’ombra, ai margini – per pochi, per se stessi, per i morti che attendono di risorgere nella luce dell’interpretazione, per i posteri che di quella luce potranno scorgere un riflesso – o, forse, per nessuno, per il vuoto e la quiete che verranno, e che attendono, senza distinzione e senza salvezza, ogni gesto, ogni parola, ogni testimonianza.
Forse anche nel nostro caso, come in quello del supplente di Fiore, «la vita è una carriera spirituale»; a noi «il fallimento è necessario», e la nostra «coscienza» deve trovare «tormenti nuovi e diversi». Non per questo dobbiamo essere disposti a «menare buona ogni menzogna e ogni verità» – anche se l’epoca precisamente a ciò potrebbe indurci.
Possiamo forse consolarci – ma è una consolazione ben grama ed amara –, o, se preferiamo, disperarci, pensando a Michelstaedter che si spara un colpo alla tempia certo per ragioni profonde, remote, insondabili – ma, forse non a caso, davanti ad una lista, appena redatta, di assurdamente aridi argomenti per le dissertazioni storico-erudite che avrebbe dovuto sostenere all’Istituto di Studi Superiori – qualcosa di simile, precisamente, ad un corso di perfezionamento, un «master» o un dottorato senza borsa. «Così – scriveva nelle pagine finali della Persuasione e la rettorica – si conforta il giovane a perseguire nel suo studio scientifico senza» – come esigevano il filologismo e lo scientismo ottocenteschi al pari di quelli odierni, e sempiterni – «che si chieda che senso abbia, dicendogli: “tu cooperi all’immortale edificio della futura armonia delle scienze e sarà un po’ anche merito tuo se gli uomini, quando saranno grandi, un giorno sapranno”». Noi, se non altro, anche se forse non per nostra volontà, siamo rimasti esclusi, e dunque siamo stati salvati, da questo marchingegno alienante – salvo poi cadere in un altro, ancor più grigio ed inerte.
Anche noi – credo, con questo «noi», di poter parlare a nome tanto degli «orfani accademici», dei «cervelli senza padrino», insomma degli studiosi privi di appoggi, e dunque estromessi dall’accademia e condannati all’isolamento, quanto dei «ricercatori precari», la cui condizione non è, forse, molto meno fragile ed angosciosa – abbiamo, come il Montale di Satura, pur se in un contesto e in un senso differenti, fatto esperienza delle «stalle di Augia», riboccanti di una poco nobile materia e pervase da un olezzo non molto amabile. Né ha più senso la «nuova palta» in cui ci troviamo ora, il nostro «vorticare sopra zattere di sterco», il nostro attraversare la Palus Putredinis o il nostro essercela lasciata, un po’ amaramente, per sempre alle spalle.
Noi, come il Pasolini di Empirismo eretico, li sappiamo i nomi, li conosciamo i fatti, potremmo additare i colpevoli. Ma non possiamo, non abbiamo le prove, non abbiamo la forza e le armi per misurarci validamente con un sistema che si fa scudo delle leggi, delle norme, dei verbali incontestabili sebbene sistematicamente falsificati, delle graduatorie formalmente inoppugnabili, benché profondamente fasulle e mendaci.
Ma, in fondo, dentro l’università o al di fuori di essa, il pensiero, la poesia, la bellezza non possono che bearsi di quella «divina solitudine» che è loro propria, e che l’esilio e l’isolamento imposti loro dalla società di massa e dalla «logica del tardo capitalismo» non hanno fatto, paradossalmente, che confermare, accentuare, inverare appieno.

La nostra deve essere, ancora una volta, quella spontanea e gratuita «arte del nonostante» di cui ho parlato a proposito di Riccardo Bonavita, un giovane studioso che proprio le baronie e i soprusi contribuirono, forse, ad indurre al gesto estremo; quell’assurda e cieca voglia di cercare e di conoscere, di pensare e di scrivere, con pazienza, dedizione, umiltà, sapendo che, nella società dell’utile, del denaro, del prestigio, delle lobbies, nulla ci è dovuto, e nulla dobbiamo aspettarci.
Come lo sventurato professore del Ballo dei sapienti, dobbiamo inseguire con ostinazione e speranza il lampo di luce intellettuale, il bagliore di pensiero e di conoscenza che d’improvviso «incendiano» una pagina, una parola, un verso – o una particella, un’equazione, una formula, insomma tutto ciò che dà valore e significato al mondo, all’esperienza, alla vita.

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