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Michel Tournier e la didascalia, tra immagine, realtà e scrittura (# 2/2)
sabato 26 aprile 2008, di
Qui la prima parte dell’intervento, tratto dal volume Guardare oltre. Letteratura, fotografia e altri territori.
Tutta la diffidenza nei confronti della riproduzione fotografica e la volontà di proteggersi dall’aggressione dell’obiettivo sembrano riassunti in un doppio scatto dello stesso Tournier, tra i rari pubblicati, forse l’unico esposto in una mostra. Eccezione ancor più considerevole trattandosi di un autoritratto, genere abitualmente frequentato dai pittori ma praticamente assente dall’opera dei grandi fotografi, secondo l’autore, poiché:
C’è nello scatto fotografico – molto più che nel disegno – un elemento di predazione, d’aggressione, d’attacco che spaventa quando si tratta di ritorcerselo contro (…). Si capisce che il fotografo esiti a puntare sul proprio volto questa imboccatura nera che cattura e trattiene con una rapidità folgorante. Il fotografo non ama fare a se stesso ciò che fa così bene agli altri… (Tournier 1979, p. 100).
Questo spiega forse la presenza di uno specchio nel doppio autoscatto: dissociando lo sguardo del fotografo da quello del modello, l’espediente consente infatti all’autore di ritrarre il proprio volto evitando di rivolgere l’obiettivo contro di sé. La sottile cornice dello specchio, inoltre, mimando en abyme la cornice fotografica di confine tra immagine e reale, permette a Tournier di inscenare una sorta di movimento tra i due piani. La torsione innaturale del corpo così prodotta sembra comunicare non solo la volontà di nascondersi e sottrarsi all’obiettivo, ma un vero e proprio tentativo di proiettarsi fuori dallo spazio-trappola dell’immagine per riguadagnare la libertà del reale (5) .


Il percorso di liberazione di Idriss dalla trappola dell’immagine indica forse una possibile via d’uscita dall’alternativa di fascino e diffidenza che attraversa l’ambiguo legame di Tournier con la fotografia, quasi che l’autore consegnasse al personaggio una parte importante della propria poetica. Risolutivo, nel finale della Goccia d’oro, è l’incontro con un maestro calligrafo: nei pomeriggi silenziosi di apprendimento dell’antica arte tradizionale, non solo Idriss ritrova la propria identità culturale smarrita in Occidente, ma scopre nell’attività creativa di lettura e scrittura del segno l’antidoto alla seducente e passiva contemplazione delle immagini. Nella Leggenda della regina bionda, uno dei racconti inseriti nella cornice del romanzo che anticipano la futura salvezza di Idriss, sarà ancora l’intervento di un calligrafo a esorcizzare il potere pietrificante del ritratto di una moderna Medusa che uccide chiunque sia assorbito dalla sua visione. Sfruttando la natura tautologica del segno calligrafico, lettera che fissa la parola e linea che raffigura la cosa (Foucault 1973), il maestro sovrappone all’immagine arabeschi che ne decifrano il contenuto, creando una versione spiritualizzata e ormai inoffensiva del ritratto (6) .
Alcuni indizi nel racconto suggeriscono che nella compenetrazione di immagine e scrittura che ne esplicita il significato sia da ricercare la chiave del rapporto di Tournier con la fotografia. Non solo il nome del maestro calligrafo Ibn Al Houdaïda, celui qui tourne in arabo, è etimologicamente legato al cognome Tournier, ma una nota al racconto attribuisce a un certo Edward Reinroth una delle massime criptate nel ritratto: se Edouard è il secondo nome del romanziere, Reinroth è il rovesciamento quasi perfetto di Tournier (Fui Lee Luk 2003, pp. 106-110). Non sorprende che proprio ai personaggi artefici dell’emancipazione dalle immagini attraverso il segno siano affidati due pseudonimi dell’autore, se nei volumi che riuniscono fotografie e prose Tournier si propone scopertamente tale compito:
Possiedo una cultura fotografica assolutamente unica al mondo. La prima lezione di questa educazione forsennata è stata purtroppo una sentenza definitiva: come fotografo, io stesso ero inesistente. Ma poco importa, ho addestrato il mio occhio a guardare, a leggere la fotografia, poi, passando alla scrittura, mi sono azzardato ad allineare parole che mi sembravano dettate dall’immagine (Tournier 1992, p. 9).
“Poiché nessuna immagine fa più imperiosamente appello al discorso” (quarta di copertina), la fotografia evoca la scrittura, facendo del commento di Tournier una didascalia nella duplice accezione di légende: nel lessico francese, infatti, il termine non indica solo la nota esplicativa che accompagna un’immagine, ma anche la leggenda, la narrazione che mescola avvenimenti storici e di finzione, che deforma e amplifica fatti reali attraverso l’immaginazione popolare o letteraria. Se la semplice descrizione dell’immagine fotografica è punto di partenza per la rievocazione autobiografica, per la riflessione filosofica, per la pura narrazione storica, mitologica, fiabesca, biblica, è perché le prose di Tournier sono légendes nel senso più autentico del termine: un misto di “spiegazione e stupore” (ib.), didascalia e narrazione, denotazione e connotazione (8) .
La figura della didascalia come chiave di lettura dell’immagine sembrerebbe naturalmente sottesa alla prosa inaugurale di Des clefs et des serrures, a svelare la struttura del volume di fotografie e prose. A commento della

fotografia di Dieuzaide di una collezione di chiavi antiche, Tournier racconta di possedere nella sua casa di Choisel un intero cassetto di chiavi che non aprono nessuna porta e numerose porte a cui non corrisponde nessuna chiave. L’aneddoto personale innesca, ancora una volta, la riflessione filosofica. “Tutto ciò è altamente simbolico, perchè il mondo intero non è che un ammasso di chiavi e una collezione di serrature” (Tournier 1979, p. 8): serrature il viso umano, il libro, la donna, il paese straniero, l’opera d’arte, le costellazioni; chiavi le armi, il denaro, l’uomo, i mezzi di trasporto, gli strumenti musicali, ogni utensile in generale. Nonostante Tournier insista sull’idea di chiusura evocata dalla figura della serratura, “un segreto da svelare, un’iscrizione da decifrare” (ib.), e sull’opposto valore di apertura della chiave, sorprendentemente il sistema interpretativo binario non estende la simbolica dei due oggetti alla relazione tra testo e immagine che attraversa l’intero volume (9) . Se ciò non avviene è forse perché tale relazione riposa su un equilibrio instabile: la complementarietà, suggerita dall’affiancamento di fotografie e prose (10) , appare infatti continuamente insidiata dalla tentazione all’asservimento e alla subordinazione dell’immagine alla scrittura.
Anche i pochi testi presi ad esempio evidenziano come Tournier, di fronte alla fotografia, non si lasci guidare dal proprio senso estetico, né vesta i panni del critico che illustra saperi e tecniche. Lo si potrebbe considerare piuttosto un fotografo, e non tanto in ragione della sua privata attività, che è del resto nota solo ai frequentatori del presbiterio di Choisel. All’origine dei suoi volumi è infatti un gesto selettivo e di cattura che sembra mimare quello più autentico cui è chiamato ogni fotografo: quel taglio e quel prelievo nella continuità spazio-temporale del reale, che implicano sempre un meccanismo di inclusione-esclusione e che fanno della scelta l’elemento costitutivo di ogni atto fotografico. Quella operata da Tournier è una selezione tra gli infiniti possibili della storia della fotografia, e sembra proprio che a orientare le scelte del fotografo siano gli interessi del romanziere.
Introducendo il catalogo dell’esposizione L’imagerie de Michel Tournier, spiega di aver voluto raccogliere le proprie migliori fotografie: “benché fuoriescano dal mio museo immaginario, ahimé io non ne sono l’autore” (Tournier 1988b, p. 3). Questa nozione di museo immaginario non è evidentemente utilizzata nell’accezione di Malraux: non si tratta di riunire i grandi capolavori della fotografia, quanto piuttosto di illustrare attraverso le opere il proprio immaginario romanzesco, in linea con la copertina firmata da Jacob, che ritrae l’autore seduto in giardino di fronte agli oggetti simbolo del suo universo narrativo. “Bastano poche righe, tutt’al più una pagina, perchè Tournier inscriva, nella prefazione al catalogo di un’esposizione, i grandi temi che attraversano i suoi romanzi” (Guichard 2006, p. 136): il narcisismo, l’infanzia, il mare, la madre e la nascita mitica, il rapporto Bene-Male. Nel Crépuscule des masques, frutto di un’analoga sovrapposizione è l’elenco dei nuclei segreti attorno ai quali ruotano le opere del suo geniale amico Arthur Tress: i bambini, l’inquinamento e l’immondizia, la morte e la necrofilia, la coppia in tutte le sue varianti. Per un sottile gioco di specchi, in questi volumi le immagini rimandano sempre ai testi, l’immaginario fotografico appare sempre al servizio di quello romanzesco.
“L’istinto antropofago” (Tournier 1992, p. 167), che Tournier rivendica a tutti i narratori, non solo guida la selezione fotografica, ma induce l’autore a modificare le didascalie dei fotografi, a sovrapporre titoli e contenuti delle proprie prose, a imporre alle immagini la propria lettura, la propria riflessione. Dal momento che la fotografia assomiglia tanto alla realtà che riproduce quanto al suo autore, “è il ritratto del fotografato tanto quanto lo è del fotografo” (p. 14), sarà al Tournier autore della selezione che queste fotografie assomiglieranno. In questo modo, le didascalie non ricuciranno forse lo strappo tra immagine e reale, ma ristabiliranno quella relazione tra immagine e somiglianza che Idriss, e Tournier con lui, vedevano inevitabilmente interrompersi durante l’atto fotografico.

Note
La numerazione delle note è progressiva a partire dalla prima parte del saggio pubblicata qui.
5. Ferdinando Amigoni ha richiamato la mia attenzione sulle notevoli somiglianze tra il secondo autoritratto di Tournier e il celebre ritratto di Baudelaire, scattato da Nadar nel 1855. Si è tentati di leggere in quest’immagine

un omaggio reso dall’autore a uno dei più accaniti detrattori dell’artisticità della fotografia, che tuttavia, come nota Tournier dopo aver riassunto le critiche di Baudelaire, “si precipitò anche lui da Nadar affinché la propria immagine fosse conservata per le generazioni future” (Tournier 1992, p. 46).
6. Sostituire la lettura dell’immagine alla pura visione è la lezione impartita a Idriss anche dalla seconda narrazione inserita nel romanzo, Barbarossa o il ritratto del re, e dall’incontro con un ritrattista, narrato nel racconto Il pittore e il suo modello, vera e propria riscrittura della Goccia d’oro con un finale alternativo (Tournier 1986b).
7. In un’intervista successiva alla pubblicazione della Goccia d’oro, è lo stesso Tournier a sottolineare le analogie tra il percorso di guarigione di Idriss e la terapia psicoanalitica, “questa sorta di esorcismo dell’immagine attraverso la parola” (Merllié 1988, p. 226).
8. Nel duplice significato di leggenda e didascalia, allora, è forse possibile intendere anche il titolo del racconto Légende de la reine blonde.
9. In questa direzione va forse la seconda fotografia di Hosoe che accompagna il testo.

Il corpo bianco di una donna, stretto dal braccio scuro di un uomo, svela infatti la metafora sessuale che lungo tutta la prosa oppone la serratura alla chiave, la materia informe e femminile allo spirito plasmante e maschile. E nella mitologia tournieriana è proprio l’immagine a rivestirsi di connotati femminili (sono donne la turista francese, la fotografa Veronica, la regina bionda del ritratto), l’immagine-serratura che solo il segno-chiave maschile può esorcizzare.
10. Anche la spaziosa mansarda del presbiterio di Choisel, adibita sia a studio fotografico che a laboratorio di scrittura, sembra visualizzare tale compenetrazione, suggerendo che le due attività, parallelamente intraprese e anche materialmente affiancate, siano d’ausilio l’una all’altra.
Bibliografia
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Guichard, J. P., 2006, L’âme déployée. Images et imaginaires du corps dans l’œuvre de Michel Tournier, St-Étienne, Presses Universitaires de St-Étienne.
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Tournier, M., 1988a, Le Tabor et le Sinaï. Essais sur l’art contemporain, Paris, Gallimard.
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Elena Cappellini, Michel Tournier e la didascalia tra immagine, realtà, scrittura, in Guardare oltre. Letteratura, fotografia e altri territori, a cura di Silvia Albertazzi e Ferdinando Amigoni, Meltemi, Roma 2008, pp. 125-140.