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"Il demone distratto" di Marco Federici Solari, Le Lettere, Firenze 2008, pp. 9-14.

"Il demone distratto" - Tutta l’introduzione...

...solo l’introduzione, nient’altro che l’introduzione

lunedì 29 settembre 2008, di Marco Federici Solari Chianese

INTRODUZIONE

Nel caso suo il desiderio si antepone al piacere e lo annienta.
Julio Cortazar

Non sappiamo quale soprannome Harry Houdini avrebbe dato a Franz Kafka se l’avesse conosciuto, ma l’uomo che trasformò Joseph Frank Keaton in “Buster” Keaton avrebbe probabilmente trovato un nome appropriato anche per l’emigrante boemo (1) . Allo scrittore si sarebbe potuto dare un soprannome complementare e opposto rispetto a quello del comico americano. Se Buster significa fondamentalmente Kaputtmacher, demolitore, rompitore di oggetti, per Kafka si dovrebbe cercare una parola per significare «colui che dagli oggetti è infranto» (2) , ridotto in pezzi, irriducibile, per il continuo scontro con le cose, a una qualsiasi unità.
Questa condizione raggiunge la massima evidenza nel carattere frammentario dell’opera di Kafka, che si configura nel suo complesso come un enorme tentativo autobiografico alla ricerca di un filo rosso tra i frammenti e i dettagli onnipresenti, tra i giorni, le ore e i minuti che inutilmente cercano di dare forma a una vita. Tutti i suoi scritti partono dal dato di fatto, doloroso e istintivo, di una crisi dell’esperienza, di fronte alla quale essi rappresentano una reazione strenua e puramente individuale, l’esperimento, portato alle più estreme conseguenze, di ciò che uno scrittore da solo può fare per opporsi ad essa. Questa solitudine della lotta è un carattere tipico della condizione degli intellettuali ebrei di fronte alla secolarizzazione della civiltà moderna. Scrive Hannah Arendt:

Quel che gli appartenenti ad altre nazioni avevano fatto come parte integrante di uno sforzo collettivo e nell’arco di parecchie generazioni fu compiuto dai singoli ebrei nell’ambito ristretto e circoscritto di una singola vita umana e con la pura forza della fantasia. Gli ebrei, senza eccezioni, cominciarono a emanciparsi dalla tradizione come individui. (3)

La crisi si esprime, sul versante compositivo, nella continua, estenuante lotta per l’unità, nell’opposizione a uno scrivere che avanza per frammenti; all’interno delle narrazioni essa appare nella dispersione dei dettagli, nella seduzione dei fenomeni in cui si perdono i personaggi e si impongono particolari modalità di osservazione. Su questo doppio livello, vicissitudini della composizione e peripezie dell’osservazione, si concentrerà il presente lavoro.
Partendo dalle opere ‘giovanili’ di Kafka e dal laboratorio di scrittura dei diari, si possono individuare alcune costanti negli atteggiamenti degli osservatori e nella forma che la realtà assume ai loro occhi; una forma mobile e fluida che costringe il personaggio a una continua distrazione, a una frenetica attività dello sguardo in cui si alternano stupore e stanchezza: la meraviglia dell’inesausta novità delle cose e la fatica di star dietro al loro incessante divenire. Emergono due figure complementari, l’attore e l’osservatore, che tendono a sovrapporsi, come una dissolvenza che passi da un volto a un altro confondendone i lineamenti.
Kafka vive in un’epoca che ha trasformato il ruolo dell’osservatore in un mestiere, in un vero e proprio anti-lavoro: il flâneur. Tutti i primi diari e le prime prose sembrano un prontuario per attori e flâneur; istruzioni per l’uso di una vita recitata. Dalla sua attenzione per la recitazione degli attori (stimolata dall’incontro-rivelazione con il teatro jiddish) e per quella propria e altrui, quotidiana, irriflessa, abito sociale e psichico, nasce la concentrazione kafkiana sul gesto. Kafka trova nel gesto l’oggetto privilegiato di una descrizione che pone al centro l’effimero e l’ambigua molteplicità di significato del reale. È una descrizione che parte dal corpo e si concentra su di esso, sui suoi tempi e movimenti e, in particolare nel Disperso, sulle sue interazioni con i dispositivi e le costruzioni della tecnica moderna, palpabile rappresentazione della temporalità scientifica, del tempo meccanico che si contrappone a quello insondabile e irregolare della coscienza. Kafka, come fa il cinema, sottopone i corpi a «test ottici» (4) , smontandoli, sezionandoli, rendendo l’azione del personaggio quasi indipendente da ciò che segue o precede. In un romanzo dominato dalla visione come Il disperso, che mette costantemente in scena la rappresentazione del traffico, dell’inquietudine, del moto universale, possiamo riscontrare molte tecniche descrittive affini a quelle cinematografiche, derivanti dal comune tentativo di adeguarsi all’irrequietezza dell’esperienza urbana.
Kafka chiude in un’unica, onnipresente figura attore e osservatore, trovando nel punto di vista radicalmente interno al personaggio un modo efficace per rendere le idiosincrasie e le allusività del corpo senza passare per una psicologia che sente ormai inevitabilmente come menzogna. Se è vero che la psicoanalisi, facendo nascere l’io dall’es, ha trasformato la persona in un semplice principio di organizzazione degli impulsi somatici (5) , è proprio la rappresentazione di questi ciò che affascina Kafka negli attori tanto da volerla raffigurare in molti suoi personaggi.
Un simile attore-osservatore, che registra ininterrottamente la realtà dentro e fuori di sé, ha un solo luogo di esistenza: l’istante. Lì, nel tempo fulmineo del simbolo (6) , si consuma e si gioca la sua partita con l’esperienza. È questa tendenza a non superare l’istante, a non conoscere altro che il presente immediato a condannare Karl, il protagonista del Disperso, al fallimento (7) , al costante fraintendimento degli avvenimenti vissuti come singole unità e non come parti di un ingranaggio, elementi di un meccanismo fluido. La comprensione e la sopravvivenza all’interno delle «macchine degli uomini per fare l’avvenire» (8) gli sono negate. Anche perciò la sua formazione, gli esercizi di educazione a cui viene sottoposto non possono avere successo. In questo contesto, in cui sia il personaggio sia l’autore rischiano di perdersi, accumulando fenomeni e tratti di scrittura semplicemente accostati, contigui ma non legati tra loro, il principio che tiene insieme l’opera è la ripetizione, l’eterno ritorno del simile, il profilarsi di situazioni e dinamiche che si somigliano, che ripropongono incessantemente gli stessi nodi tematici in versioni differenti. L’archetipica cacciata dai genitori ritorna en travesti per tutto il romanzo, ora con i caratteri terribili di un’ineludibile condanna, ora nella declinazione ironica di un gioco della trama. Essa si configura come l’unica azione, l’unica cosa che sia accaduta, esattamente come il peccato originale, di cui gli altri peccati non sono che conseguenza e variazione. Ha luogo prima dell’effettivo inizio del romanzo ed è contenuta nella sua prima riga (9) . Questo principio ha alla base l’idea della ripetizione come

visione moderna della vita; la ripetizione è l’interesse della metafisica, e insieme l’interesse su cui la metafisica si incaglia; ripetizione è la parola d’ordine in ogni concezione etica, ripetizione è la conditio sine qua non per ogni problema dogmatico. (10)

Nell’esperienza, però, «l’unica cosa a ripetersi è l’impossibilità di una ripetizione» (11) . Conseguenza di ciò è un movimento fittizio, circolarmente agonizzante, il moto statico di un pesce rosso nella sua vaschetta, della pallina di una roulette. La tensione frustrata e fallimentare verso il gesto liberatorio (perché pienamente ripetuto) del rito ha il suo surrogato parodico nel teatro (il Teatro di Oklahama (12) ), nell’interpretazione istrionica, nell’atto ricorrente, nel tic che prende il posto del carattere e copre la persona come una veste troppo larga. Scrive ancora Kierkegaard:

Ripetizione e ricordo sono lo stesso movimento tranne che in senso opposto, l’oggetto del ricordo infatti è stato, viene ripetuto all’indietro, laddove la ripetizione propriamente detta ricorda il suo oggetto in avanti. (13)

Kierkegaard mostra come la ripetizione sia paradossalmente protesa in avanti, instaurando un legame tra futuro e presente, una strana identità tra ciò che è e ciò che sarà. Questa continua spinta verso il futuro, lontana da ogni quiete, va al cuore del senso retorico originario del termine prosa come provorsa («discorso diretto in avanti») contrapposto a versus («svolta», «ritorno») (14) . Il personaggio chiuso in questo movimento contemporaneamente circolare e rettilineo partecipa dell’apertura del testo, del suo carattere di scrittura più che di opera in un cortocircuito continuo tra atto dello scrivere e sviluppo della trama.
Al di là delle sue singole parti e del suo funzionamento interno, Il disperso stesso si configura come una ripetizione: è una riscrittura onirica e frammentaria del David Copperfield di Charles Dickens. Il romanzo del vittoriano viene usato come un repertorio di situazioni e personaggi con cui alimentare il proprio scrivere, ma appare anche come una traccia rimasta nella memoria che la scrittura fa riemergere. Tramite il raffronto con Dickens e con altri scrittori, fonti o punti di riferimento ideali di Kafka, cercheremo di mettere in luce alcuni tratti distintivi della sua ispirazione e soprattutto il senso che in lui assume la tradizione letteraria, composta di testi, personaggi e autori divenuti simboli ed exempla della relazione tra letteratura e vita. Kafka sembra mettere alla prova la vitalità – quasi l’applicabilità – della tradizione alle condizioni di vita moderne e in particolare alla sua stessa esistenza, come chiedendo alla letteratura un percorso e una forma per comporre il passato, un’autobiografia immaginaria e impossibile che diviene biografia della propria scrittura, dell’alterità sfuggente che si nasconde in lui.
Il disperso rappresenta, nella sua stesura e nella sua forma, un tentativo di apprendistato, come per misurare quanto sia dominabile la scrittura, quanto si possa decidere e conoscere della propria vita, e al contempo lo sforzo di ridefinire volta per volta, nei confronti di se stessi e del proprio agire, il labile confine tra libertà e necessità, tra il movimento immateriale, utopico e profetico, dello scrivere e la ruvida, faticosa materialità del libro.


Note

1. Se Kafka, come fu per un periodo suo sogno e come fece “per interposta persona” nel romanzo Il disperso, fosse davvero emigrato in America.
2. Come scriverà: «Sull’impugnatura del bastone da passeggio di Balzac Io spezzo tutti gli ostacoli. Sulla mia: Tutti gli ostacoli mi spezzano. Di comune c’è il “tutti”.» KKAN II, p. 532, CD, p. 875.
3. H. Arendt, Creare un’atmosfera culturale, in Ebraismo e modernità (1947), Feltrinelli, Milano 1993, pp. 139-144; la citazione è a p. 141 (ed. or: Creating a cultural atmosphere, in The jew as pariah, Grove Press, New York 1978).
4. Cfr. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), Einaudi, Torino 1974, p. 31 (ed. or.: Gesammelte Schriften, I 2, hrsg. v. R. Tiedemann und H. Schweppenhäuser, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1974, p. 450s).
5. Cfr. T. W. Adorno, Appunti su Kafka, in Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Einaudi, Torino 1972, pp. 249-282 (ed. or.: Aufzeichnungen zu Kafka, in Prismen. Kulturkritik und Gesellschaft, in Gesammelte Schriften, 10 I, hrsg. v. R. Tiedemann, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1977).
6. Cfr. le riflessioni sul carattere istantaneo del simbolo in G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi, Torino 1993, pp. 35-37 (ed. or.: Die judische Mistik in ihren Hauptstromungen, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1980).
7. Esattamente lo stesso principio porta all’anarchico, comico e melanconico fallimento di Charlot di fronte alla società. Vedi il capitolo 2.
8. A. Bazin, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1986, p. 61 (ed. or.: Qu’est-ce que le cinema?, Ed. du Cerf, Paris 1961-69).
9. Cfr. B. Allemann, Zeit und Geschichte im Werk Kafkas, Wallstein Verlag, Göttingen 1998, p. 19.
10. S. Kierkegaard, La ripetizione (1843), Rizzoli, Milano 1996, p.35. Anche dalla lettura di quest’opera derivano, secondo Beda Allemann, le tarde riflessioni di Kafka sulla figura di Abramo. Cfr. B. Allemann, Zeit und Geschichte im Werk Kafkas cit., p. 16.
11. S. Kierkegaard, La ripetizione cit., p. 64.
12. Sic nell’autografo di Kafka, normalizzato in “Oklahoma” da Max Brod e riportato alla sua originaria stortura di luogo fantastico, ma privo solo per un soffio (una lettera, una vocale) di referente reale, nella edizione critica del Disperso da cui citiamo.
13. Ivi, p. 12.
14. Cfr. H. Lausberg, Elementi di retorica, Il Mulino, Bologna 1969, p. 256.