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Elena Sciarra - "Thomas Mann. Destino e compito di un intellettuale in esilio"

Tutta l’introduzione...

Pp. 7-13.

mercoledì 28 gennaio 2009, di Elena Sciarra

Introduzione

Prova a scrivere un romanzo. Non ce la fai? Allora prova col teatro. Non ci riesci? Allora prepara un grafico dei ribassi alla borsa di New York. Prova, prova di tutto. E quando non ne è venuto fuori nulla, allora di’ che si tratta di un saggio.
Kurt Tucholsky

Nel Novecento il sistema dei generi viene messo in crisi, a livello teorico e pratico, da una produzione letteraria non più riconducibile a una struttura chiaramente definita. In alcuni autori (1) lo scardinamento del sistema avviene con un procedimento per così dire ironico, in cui cioè l’uso e l’accumulazione di generi diversi hanno come risultato la percezione della loro arbitrarietà. Un’operazione di questo tipo, che si dovrebbe definire però più di contaminazione che di distruzione vera e propria, viene portata avanti, anche quando non così palesemente come in Joyce, in molta letteratura del Novecento: si pensi appunto alla presenza, nei romanzi, di parti saggistiche, che introducono all’interno di un tessuto narrativo delle strutture «altre» (2) . Il problema, consapevolmente vissuto come tale, è dunque non di introdurre categorie nuove entro un sistema dato, ma di verificare se il fatto stesso che si parli di genere letterario abbia un fondamento, e se sì quale. Le rotture con i canoni della letteratura, insomma, non vanno lette tanto come eccezioni a una regola altrimenti valida, quanto piuttosto come interrogativi, questioni aperte concernenti il senso stesso dell’esistenza di questi canoni. Il discorso non è comunque limitato al campo dei generi letterari, e concerne l’essenza e la funzione stessa dell’arte: l’opera nel suo complesso diventa un’interrogazione sul senso del suo esserci, del suo esistere (3) . Il gesto critico che caratterizza il discorso sul genere, o sull’arte tutta, ha radici profonde. Sono i romantici tedeschi ad aprire un nuovo capitolo a questo proposito (4) . La dimensione dell’autointerpretazione e della critica, intesa come un riflettere sull’opera nell’opera, i concetti fondamentali di forma e di riflessione, il grado di autocoscienza dell’arte (con la presenza di un livello ironico di fondamentale importanza) diventano infatti peculiarità della letteratura proprio a partire da questo periodo.
Rispetto al romanticismo però, che già conteneva in sé, attraverso il concetto di ironia, l’idea di opera come creazione artificiale, il Novecento è fautore di un’assoluta assenza di sistema: l’unico sistema possibile è l’opera stessa. Nei romantici, invece, questa visione va a inserirsi nella volontà di costruire sistemi organici: il procedimento per accumulazione di frammenti trova il suo senso e la sua collocazione nell’idea di potenziamento dell’arte che ne deriva. Nel Novecento, invece, questa accumulazione non va a inserirsi entro alcun sistema, né dà luogo ad alcun tipo di potenziamento. Tuttavia questo non vuol dire che l’esigenza ermeneutica, l’esigenza della comprensione, venga meno. Vengono meno però i presupposti su cui la lettura dell’opera si basava: non la sintesi e l’organicità, ma la loro negazione diventa il principio strutturale che la informa, e di conseguenza sarà proprio nell’eterogeneità e nella contraddittorietà che andrà ricercata la sua chiave di lettura. Riportando il discorso al concetto di genere, comunque, nel Novecento esso cessa di essere il dato in base al quale l’opera può essere identificata, o perlomeno la sua identità non si può costruire unicamente su questo fondamento. Tuttavia ciò non comporta una «sparizione dei generi»: essi piuttosto cessano di essere un elemento prescrittivo o normativo, per diventare uno strumento di interpretazione e di interrogazione, proprio perché vengono costantemente messi in discussione. Come afferma Todorov, «la trasgressione, per esistere in quanto tale, necessita di una legge – che sarà, appunto, trasgredita», e anzi «la norma diventa visibile – vive – soltanto grazie alle sue trasgressioni» (5) . L’idea della letteratura come assenza, come qualcosa che non è mai dato ma va continuamente ritrovato e ridefinito nella sua stessa capacità di esistere, è stata proposta e praticata da Blanchot, che vede l’opera come termine di un’interrogazione che non viene enunciata esplicitamente, ma viene realizzata, tradotta in atto nell’opera stessa (6) .
Ad ogni modo, il saggio può essere considerato un genere tipicamente novecentesco, se non altro per la sua struttura aperta, per la sua mancanza programmatica di sistematicità, per il suo carattere di frammentarietà (7) ; in generale si può affermare che esso sia una forma tipica delle «epoche essenzialmente critiche» (8) . Secondo Max Bense, questo dipende fondamentalmente dal fatto che «il saggio scaturisce dalla natura critica del nostro spirito, il cui piacere nello sperimentare è semplicemente una necessità del suo modo di essere, del suo metodo» (9) .
All’interno della riflessione novecentesca sull’argomento, almeno in area tedesca, esistono richiami e rimandi molteplici (10) . La scelta di focalizzare l’attenzione su di essa dipende, oltre che da ragioni di opportunità pratica, anche dalla particolarità della sua storia: in effetti, la scrittura saggistica non ha goduto in Germania, fino al Novecento, della considerazione che le è stata propria in altre culture, e la sua tradizione non è forte come in Inghilterra o in Francia (11) . Inoltre, come rileva Adorno, gli autori che hanno «affidato al saggio, cioè alla speculazione su soggetti specifici, culturalmente già prefigurati», le loro riflessioni (come Simmel, il giovane Lukács o Benjamin) sono rimasti di fatto ai margini della cultura ufficiale, che «continua a tollerare come filosofia solo ciò che si ammanta della dignità dell’universale, del non perituro, oggigiorno magari anche dell’originale» (12) . Non a caso, il saggio è un genere oltremodo libero, che «non tollera che gli venga prescritta la sua sfera di competenza» (13) , che tende a interpretare più che a catalogare.
La struttura aperta del saggio, il suo essere una forma sperimentale (14) , una prova, un «tentativo» (15) , ne fanno un genere assolutamente adatto alla sensibilità novecentesca, anche per il suo porsi, per così dire, trasversalmente alla letteratura e alla filosofia: il saggio non ha il compito di teorizzare o di definire oggettivamente, ma piuttosto di «aprire alla comprensione di una cosa» (16) . Proprio la sua natura sperimentale fa sì che l’oggetto della riflessione venga appunto «provato», «saggiato», e di conseguenza trasformato e rinnovato (17) . In effetti, «la norma della differenziazione minimale (trasgressione) è precisamente la regola del lavoro del critico saggista, è il metodo del suo esperimento» (18) .
Inoltre, sempre secondo Bense, la prosa del saggio si presenta, «nella sua totalità, come configurazione di parole», con l’adozione di «strategie combinatorie in ambito estetico» (19) . Questa definizione della prosa del saggio si avvicina a quella data da Adorno, per il quale nel saggio «il pensiero non procede tutto chiuso in se stesso, ma i vari aspetti si intrecciano l’uno con l’altro come in un tappeto» (20) .
Nel saggio, infine, si può notare una «coincidenza del tutto particolare tra tendenza e creatività» (21) : Mentre la creatività è una «categoria dell’estetico», la tendenza «ha il suo luogo naturale in campo etico» (22) . Anche per Musil «alla parola “saggio” si collegano […] etica ed estetica» (23) .
In maniera non dissimile, in una lettera del 1929, Thomas Mann definisce la «cultura critico-saggistica» come una «unione di seretà ed eleganza» (24) . Al di là di questo, che Mann considerasse la propria attività di saggista come profondamente legata al suo impegno politico, e che quindi essa fosse direttamente legata alla sfera dell’etica, è dimostrato anche solo dall’enorme quantità di scritti, trasmissioni radiofoniche, conferenze che lo impegnarono in tutti gli anni dell’esilio. D’altra parte, già il sottotitolo della raccolta Nobiltà dello spirito, Sedici saggi sul problema dell’umanità (25) , mette in luce molto chiaramente che la produzione saggistica nasceva anche dall’esigenza di individuare un nuovo senso di humanitas, un nuovo umanesimo.

Questo libro, che si concentra sul saggio Destino e compito di Thomas Mann, è sostanzialmente il frutto di un’esperienza di traduzione. Le motivazioni che hanno spinto alla scelta di porsi di fronte a un autore «colossale» in maniera, per così dire, «microscopica», affrontandolo nella maniera più diretta, nascono dalla convinzione che un tale procedimento possa schiudere molte porte alla comprensione dell’opera di Mann nel suo complesso. Destino e compito è una conferenza del che risale al 1943, dunque al periodo dell’esilio americano. A partire da questa peculiarità, si tenterà di mostrare come siano ancora percepibili quelle tracce di oralità che inevitabilmente appartengono a un testo destinato originariamente all’ascolto e non alla lettura. Un altro fattore di notevole interesse è costituito dal fatto che è stato pubblicato prima in inglese che in tedesco: il confronto con questa versione, rivista peraltro dallo stesso Mann, è servito da una parte a fornire una pietra di paragone con quella proposta in questa sede, e dall’altra a gettare una luce sul problema dei fruitori del testo, che necessariamente diventa più complesso per il fatto che essi appartengono a una cultura diversa rispetto a quella dell’autore. Le variazioni saranno allora un indizio di notevole importanza per ricostruire questo rapporto, non immediato, tra l’autore e il pubblico, o meglio un pubblico, cui il saggio è destinato.
Oltre a ciò, Destino e compito presenta alcuni elementi di estremo interesse che lo collegano sia alla restante produzione saggistica, sia a quella più strettamente narrativa dell’autore, come si è cercato di mettere in evidenza nelle note alla traduzione nel caso delle autocitazioni o dei riferimenti più evidenti ad altri testi. Inoltre, esso è attraversato da alcuni nuclei di immagini, di cui si è tenuto conto in sede di traduzione, che formano un tessuto coerente, rivelandosi peraltro comuni a opere quali il Doctor Faustus o la tetralogia biblica. Partendo da una vicinanza puramente lessicale, si è poi evidenziato come tali immagini alludano a una prossimità anche di tipo tematico.
In particolare si è analizzato il problema, attualissimo all’altezza temporale della conferenza, della responsabilità del popolo tedesco nei confronti del nazionalsocialismo e della guerra. Un problema che presenta pure un risvolto di maggiore complessità, essendo legato all’annosa questione del «che cosa è tedesco», interrogativo radicato nel pensiero germanico e alla base anche del Doctor Faustus. La questione è stata analizzata parallelamente al tema del nuovo umanesimo proposto da Mann come atteggiamento intellettuale e come comportamento politico, in contrapposizione alla barbarie fascista. Alla luce di questo nuovo umanesimo, e del concetto di Humanität che ne è alla base, l’impegno e la scrittura risultano le due facce della stessa medaglia. In questo senso, il destino e il compito si possono considerare come i due poli entro i quali il saggio si sviluppa, rivelando, come si diceva, numerosi punti di contatto con la restante produzione saggistica e con quella narrativa.
L’ultima parte di questo lavoro è costituita dalla traduzione vera e propria, che può considerarsi punto d’inizio e punto d’arrivo delle riflessioni qui proposte. Se infatti i temi presi in esame possono aiutare a comprendere meglio il testo, mettendone in luce gli elementi di complessità, è pur vero che la loro trattazione proprio dal testo è stata «richiesta», in un gioco in cui traduzione e riflessione critica si rispecchiano l’una nell’altra, contribuendo a chiarirsi reciprocamente.


Note

1. L’esempio più lampante è forse quello di Joyce, con cui lo stesso Thomas Mann dichiara di avere molte affinità, cfr. Romanzo d’un romanzo – La genesi del Doctor Faustus, TO XII, pp. 161-162 [GW XI, p. 205].
2. A dimostrazione di quanto questo discorso sia di non secondaria importanza in molta narrativa del Novecento, cfr. ad esempio Rohner che, a proposito di questo argomento, cita i Buddenbrook, il Malte Laurids Brigge e L’uomo senza qualità (L. Rohner, Saggio sul saggio, in Il saggio nella cultura tedesca del ‘900, a cura di S. Benassi e P. Pullega, Cappelli, Bologna 1989, p. 70) o ancora Just che, sempre a questo riguardo, porta gli esempi di Musil e Broch, oltre che di Thomas Mann (K. G. Just, Caratteristiche, contenuti e forme del saggio, in ivi, pp. 85-86). Nel caso di Thomas Mann in particolare, poi, si può dire che si abbia «il pieno inserimento e la fusione di intreccio e discussione» (G. Haas, Saggio e romanzo, in ivi, p. 151).
3. Cfr. quanto afferma Adorno all’inizio della Teoria estetica: «niente più di ciò che concerne l’arte è ovvio né nell’arte stessa né nel suo rapporto col tutto; ovvio non è più nemmeno il suo diritto all’esistenza», Th. W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1977, p. 3 [Ästhetische Theorie, in Gesammelte Schriften, Suhrkamp, Frankfurt a/M 1996, vol. 7, p. 9].
4. Per cui, specie per le implicazioni novecentesche, cfr. almeno W. Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, in Il concetto di critica nel romanticismo tedesco: scritti 1919-1922, Einaudi, Torino 1982 [Der Begriff der Kunstkritik in der deutschen Romantik, in Gesammelte Schriften, Suhrkamp, Frankfurt a/M 1974, vol. I-1].
5. T. Todorov, I generi del discorso, La Nuova Italia, Firenze 1993, p. 45.
6. Cfr. M. Blanchot, Il libro a venire, Einaudi, Torino 1969 [Le livre à venir, Gallimard, Paris 1959].
7. Nelle parole di Adorno, il saggio «è radicale nel rifiuto di qualsiasi radicalismo, nell’astenersi da qualsiasi riduzione a un unico principio, nel porre l’accento sul particolare contrapposto alla totalità, nella frammentarietà», Il saggio come forma, in Note per la letteratura 1943-1961, Einaudi, Torino 1979, p. 13 [Der Essay als Form, in Noten zur Literatur I, in Gesammelte Schriften cit., p. 17].
8. M. Bense, Sulla prosa del saggio, in Il saggio nella cultura… cit., p. 182.
9. Ivi, p. 184.
10. Tre dei saggi che stiamo seguendo – quelli di Adorno, Lukács e Max Bense – si interrogano e confrontano direttamente tra loro.
11. «Che in Germania il saggio sia discreditato perché ritenuto un ibrido; che non esista una tradizione convincente della sua forma […] è stato detto e criticato ormai a sufficienza», in Th. W. Adorno, Il saggio come forma cit., p. 5 [Der Essay als Form cit., p. 9].
12. Ibidem [ibidem].
13. Ivi, p. 6 [ivi, p. 10]. Il passo prosegue: «esso riflette ciò che si ama e si odia, invece di presentare lo spirito come creazione dal nulla, sul modello di un’illimitata etica del lavoro. Gioia e gioco sono per il saggio essenziali. […] I suoi concetti non sono costruiti partendo da un principio primo, né si raccolgono attorno a un’ultima parola. […] Lo sforzo del soggetto inteso a penetrare l’oggettività che si cela dietro la facciata viene bollato come perdita di tempo: si ha paura della negatività in generale. […] Su chi, invece di accettare e catalogare, interpreta, viene applicata la macula lutea che deve indicare chi con la sua impotente e degenerata intelligenza va a caccia di farfalle e si mette a implicare là dove non c’è nulla da esplicare».
14. Cfr. M. Bense, Sulla prosa… cit., p. 180 e p. 181.
15. In tedesco saggio, oltre che Essay, termine mutuato dall’inglese e dal francese, si dice anche Versuch, ovvero tentativo, o esperimento.
16. Th. W. Adorno, Il saggio come forma cit., p. 9 [Der Essay als Form cit., p. 13].
17. Cfr. M. Bense, Sulla prosa… cit., p. 184.
18. Ibidem.
19. Ivi, pp. 178-179.
20. Th. W. Adorno, Il saggio come forma cit., p. 17 [Der Essay als Form cit., p. 21]. Più avanti, l’affinità con l’immagine proposta da Bense si fa ancora più evidente: «il saggio non crea costruzioni né strutture. Tuttavia attraverso il loro movimento gli elementi si cristallizzano in configurazione. Questa è un campo di forze», ivi, p. 18 [ivi, pp. 21-22].
21. M. Bense, Sulla prosa… cit., p. 178.
22. Ivi, p. 177.
23. R. Musil, Sul saggio, in Il saggio nella cultura tedesca cit., p. 144.
24. Cit. in J. Eder, “Allerlei Allotria”: Grundzüge und Quellen der Essayistik bei Thomas Mann, Bouvier, Bonn 1993, p. 66.
25. Th. Mann, Adel des Geistes. Sechzehn Versuche zum Problem der Humanität, Stockholm 1945.


Elena Sciarra, "Thomas Mann. Destino e compito di un intellettuale in esilio", Le Lettere, Firenze 2008, pp. 7-13.