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Giulio Braccini, "Sorella Pigrizia", Le Lettere, Firenze 2009, pp.9-14
Sorella Pigrizia - Tutta l’introduzione...
...solo l’introduzione, nient’altro che l’introduzione
sabato 7 marzo 2009, di
FARE O NON FARE
(INTRODUZIONE A MO’ DI ANTIANTIPURGATORIO)
Per correr miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno
(Dante-Narratore in Pg., I, 1-2)
La navicella dell’ingegno di Dante alza le vele per correre migliori acque, e la narrazione vera e propria comincia con l’attracco di un angiolo nocchiero al porto del Purgatorio. Le metafore si innestano le une sulle altre; vedremo di districarci. I piani di lettura si giustappongono, si sovrappongono; non ci facciamo prendere dalle vertigini; siamo ancora ai piedi del monte Purgatorio; con l’aiuto di una flebile ragione arriveremo in vetta, se saremo valenti, o forse «di sedere in pria» avremo «distretta» (Pg., IV, 99). Intorno a noi una turba di morti di fresco, ancora caldi di vita, forse perché a vita nuova appena rinati, se non altro in forma di parole. A rigore, infatti, qua gli unici vivi siamo noi (noi che leggiamo, e quindi più voi di me); siamo noi che spezziamo i raggi del sole creando le ombre che ci circondano, che ci seguono e ci chiedono un qualche percorso di lettura, una qualche via ermeneutica per iniziare l’ascesa; il nostro Virgilio li avverte: «ma noi siam peregrin come voi siete» (Pg., II, 23); noi “siamo”; e loro? Ma qua non è importante chi è e chi non è; non ci interessa il problema dell’essere o non essere; daremo per scontato l’esserci, e già che ci siamo baderemo al problema del fare (o non fare) qualcosa, traslato perlopiù nella metafora dell’andare (o dello stare), dove le difficoltà dell’impresa vengono codificate come eventi paesaggistici (mari, monti, coste, salite più o meno scoscese, discese, pianure più o meno distese).
È nell’ambito della metafora alpinistica che si inserisce il significato etimologico (il linguaggio è delatore) della glorificata “mediocritas”; qualcosa come “a mezza costa”, e che Mandruzzato parafrasa (non si riesce ad uscir di metafora) «né vette ambiziose, né umili bassure» (1) . Il paradosso in cui ci imbatteremo è che è questa mediocritas la massima altezza a cui l’uomo possa giungere; il linguaggio è delatore, ma più spesso è reticente, e la logica su cui si basa mostra, qui come altrove, tutta la sua pochezza. L’antinomia come processo logico viene messa in crisi, ma riciclata come valido mezzo estetico nella forma del contrappunto, dell’accostamento inconsulto, non più contrapposizione ma giustapposizione; perché alla prova dei fatti il nostro giudizio ha bisogno di un numero indefinito di distinguo («Distinguo est le plus universel membre de ma logique» si legge in Essais, II, 1) anche quando i “fatti” siamo noi stessi nel nostro non fare; alle interne, potenzialmente dilaceranti contraddizioni si sostituisce un giocoso dimenticarsi, sovrapporsi a se stesso, sbeffeggiarsi.
Non saremo noi a inoltrarci nella selva oscura della Semantica, anche perché il modus cogitandi pigro di cui parleremo tratta del metodo, non del merito (che va trattato caso per caso, rifiutando ogni generalizzazione) ed entra nel secolare dibattito filosofico fra ottimismo cognitivo (derivi questo da fede tout court o da fede nella ragione) e scetticismo come un terzo termine (non sintetico) di un’opposizione non dialettica. Parleremo di una presunta forma mentis della pigrizia purgatoriale, certo, ma come di un concetto che ha unità di senso tanto quanto la parola “molteplicità” ne ha in verbo nel suo dare unità alla molteplicità in re, e sarà bene specificare fin da ora che non parleremo di tutta la pigrizia, e non solo di pigrizia propriamente detta, e che non definiremo questo studio anti-definitorio per l’unica ragione che la nostra sfiducia in quell’“anti” è pari soltanto alla nostra sfiducia nelle definizioni. Eppure non andremo per libere associazioni, ben sapendo di non poterci permettere il lusso della rapsodia; tratteremo invece di un fascio di concetti, di modi di fare e di pensare, e di metafore che da Belacqua a Beckett si ritrovano, si svolgono e si spiegano, anche sulla base di una biblioteca comune di riferimento che comprende Orazio e Ovidio, poi Rabelais, più tardi Shakespeare e Cervantes.
Troveremo il nostro archetipo nel Belacqua del canto IV del Purgatorio dantesco; Dante, in sé, ha poco a che spartire con la natura dilatoria e ondivaga della pigrizia, ma anche le sue brevi esitazioni, i suoi lievi ondeggiamenti gli sono a se stesso motivo di rimprovero, e noi faremo frutto delle severe reprimende indirizzategli dalla sua ragione.
Ariosto, Marivaux e Sterne saranno gli autori in cui troveremo questo modus cogitandi più esemplarmente agito, soprattutto (ma non solo) nelle figure dei narratori; Montaigne sarà per noi una specie di ideologo, perché ciò che negli altri è messo narrativamente in atto, è in lui addirittura enunciato, e a chiare lettere.
La nostra ricerca potrebbe esaurirsi prima degli albori del romanticismo, ma proveremo ad inoltrarci anche negli ultimi due secoli. Nell’800, si sa, dilaga il “mal du siècle”, l’amletismo diventa posa comune di ogni giovane letterato che si rispetti, e l’Angoscia pianta il suo vessillo nero sul cranio reclino dell’umanità; ma la Malinconia non è certo un’invenzione ottocentesca. Il lato oscuro della pigrizia, il suo stadio patologico, la sua versione infernale, è proprio la depressione, ed è un territorio che costeggeremo fino alla fine delle nostre riflessioni, con qualche veloce incursione per stabilire meglio i confini (2) .
Di questa tristezza (come di qualsiasi altra cosa, del resto) anche Dante parla, nel settimo canto dell’Inferno, e anche di questi versi faremo frutto, a suo tempo, vedendo poi di riassumere in un unico schema tutte le pigrizie della Commedia. Ma la codificazione più esemplarmente ordinata del peccato di Accidia è opera, naturalmente, di San Tommaso; ancora qua, nell’anticamera di quell’antipurgatorio dove troveremo il nostro archetipo, facciamoci dare qualche coordinata iniziale da chi possiede un simile invidiabile ordine mentale; leggiamo e chiosiamo insieme parte di questa parte della Summa (secunda secundae 35):
I) L’Accidia è peccato? -1) È in primis una passione e, in quanto tale, in sé né lodabile, né vituperabile; diventa vituperabile se applicata male; essere tristi de malo (essere cioè disgustati del male che imperversa nel mondo) è addirittura lodevole; essere tristi anche de bono (essere cioè disgustati da tutto indistintamente) è peccato. -2) È una passione in primis fisica; e in effetti se rimane a un livello fisico è al massimo peccato veniale. -3) Nasce inoltre da una buona radice: l’umiltà; ma quando questo abbassamento di se stessi coinvolge anche il resto del creato si scivola nel peccato di ingratitudine verso ciò che Dio ci ha offerto; si è disgustati da ciò che non piace, e non ci si può permettere di sdegnare ciò che Dio si è degnato di darci. -4) […]
Chiosiamo: la pigrizia di cui parleremo ha la sua base in una complessione mite e quieta; non è disgustata, ma semmai stranita, dal perturbante, ma in fondo divertente, non senso della vita, ed ha l’umiltà intellettuale di non varcare le colonne d’Ercole di ciò che è esperibile con la ragione.
II) […]
III) L’Accidia è peccato mortale? -l) […]. -2) Recedere dalle opere per qualcosa che non va verso Dio è peccato veniale, ma mortale se questo non fare riguarda il recedere da qualcosa che va verso Dio, come per esempio la confessione dei nostri peccati e la necessaria contrizione. -3) Stabilito che se rimane a livello fisico e sensuale è peccato veniale, bisogna completare dicendo che se ha il consenso della ragione, allora diventa mortale; è vero che è un peccato che si trova spesso anche in spiriti eminenti, ma in loro non arriva fino al consenso della ragione.
Chiosiamo: per quanto senza mai un eccessivo zelo o fervore, tutti i nostri pigri sono morti baciando idealmente il rosario; in loro l’Accidia ha avuto sì il consenso della ragione, ma perché è stata così sfruttata come sordina ai suggerimenti, talvolta assordanti come grida, di ben altre passioni, di ben più maligne pulsioni.
IV) L’Accidia è un vizio capitale? -1) Capitale è ogni vizio che porta ad agire male, mentre l’Accidia, almeno apparentemente, ritrae da qualsiasi agire; in realtà però anche l’Accidia spinge ad un particolare tipo di azioni, per esempio piangere e disperarsi, o anche qualsiasi azione perpetrata al solo scopo di liberarsi dal pianto e dalla disperazione. -2) e -3): vedi fra qualche rigo.
Chiosiamo: la pigrizia è stata sempre tacciata di essere un vizio passivo; ma già qua si vede quanto questa presunta “passività” sia da riesaminare; e uno dei nostri scopi è proprio questo riesame.
L’ultima obbiezione che Tommaso si trova a confutare, nella sua dimostrazione che l’accidia è un vizio capitale (IV, 2 e 3), è la discordanza nel numero e nel nome delle “figlie” che Gregorio e Isidoro le assegnano; l’Aquinate si limita a unificare le due liste rilevando la mancanza di contraddizione fra l’una e l’altra, che anzi si completano a vicenda; ne viene fuori un bizzarro albero genealogico che faremo bene a scorrere, notando però che questi vizi capitali a noi interessano solo nella addolcita versione veniale:
Filiae Acediae, dunque, sono Malitia e Rancor (che non ci riguardano proprio), Pusillanimitas (che citeremo giusto quando parleremo dell’Ignavia), Desperatio (che è la nota dominante dell’accidia infernale), e soprattutto il Torpor circa praecepta e la Vagatio mentis circa illicita; queste due ultime hanno un’ulteriore discendenza: il Torpor (che nella versione purgatoriale è una semplice Mora) dà luogo a Otiositas e Somnolentia, mentre la Vagatio mentis (non necessariamente circa illicita, vista anche la difficoltà di tracciare precisi confini fra lecito e illecito) ha come ulteriori filiazioni Importunitas mentis (Vagatio volendi, ma anche deliberandi), Inquietudo corporis e Instabilitas (rispettivamente Vagatio corporis immoti e corporis mobilis, che incontreremo spessissimo, sennonaltro come metafora dell’intera Vagatio), Verbositas (Vagatio loquendi) e infine Curiositas (Vagatio scientiae).
Vedremo come gli autori di cui ci troveremo a parlare siano in effetti degli indecisi e curiosi chiacchieroni, col vizio della passeggiata, e tenteremo di dimostrare (questa la nostra idea madre) che è la pigrizia la madre dei loro vizi, ma anche e soprattutto delle loro virtù.
Senza farci troppo influenzare da tanta Vagatio baderemo di non essere noi a vagare, dunque, di non divagare troppo, di non limitarci a svagare con arguti ghirigori, senza rinunciare a divertirci di quanto ci capiterà sott’occhio. Purché sia chiaro che il divertimento va inteso sì nel suo senso etimologico di “distogliere”, ma non dalle preoccupazioni, quanto dai preconcetti, autentico stratagemma della ragione.
Un sublime ripiego dal fare al non fare è il nostro oggetto, e bisognerà stare attenti alle semplicistiche schematizzazioni “vita attiva/vita contemplativa” che ci tenderanno agguati ad ogni passo, così come si dovrà schivare la confutazione classica dello scetticismo, che nel nostro caso non confuta affatto se stesso, ma al massimo si modera in una sorta di scetticismo operativo che bada più agli effetti delle cose che non alle loro presunte cause prime.
D’altra parte sarebbe come voler risalire alle sorgenti del Nilo («se in alcun luogo ha fonte» dirà l’Ariosto (3) ) e, a proposito di inizi, ci ritroveremo fra qualche capitolo, a mo’ di incipit ritardato, con un Tristram Shandy che non finisce mai di iniziare, per finire poi, un paio di secoli dopo, a mo’ di explicit che non conclude, con una Fin de partie che non inizia mai a finire davvero.
Ma sarebbe stato un non senso chiudere questa panoramica ragionata della sconclusionatezza letteraria in una maniera così intellettualisticamente rileccata; dire due parole su Beckett sarà come narrare la storia mai raccontata prima di Virgilio che ridiscende agli inferi dopo aver consegnato l’anima di sua competenza nelle braccia della fede beatrice; quando saremo di nuovo ai piedi del monte non sarà male fare quattro chiacchiere con qualche altro pigrone letterario, più recentemente sbarcato a destinazione.
Ora però alziamo le vele del nostro mediocre (magari!) ingegno ed entriamo con l’angiolo Dante nel porto del Purgatorio.
Note
1 - Enzo Mandruzzato, Il piacere del latino, Rizzoli, Milano, 1990.
2 - La fonte che mi ha fornito il maggior numero di spunti, fra cui questo (fondamentale), nell’analisi dei testi danteschi è il commento alla Commedia di Vittorio Sermonti, e non è un caso; è un lavoro, infatti, non solo di alta divulgazione, ma anche di compendio di tanta esegesi sull’opera di Dante, riesposta in modo magistralmente bonario, spesso commosso.
3 – Furioso, XXXIII, 126, 8. Topos peraltro ripreso anche da Montaigne, a proposito della nascita della nobiltà ereditaria: «une vertu […] sans naissance non plus que la rivière du Nil» (Essais, III, 5, 828).