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04 - Recensioni - Approfondimenti

Cy Twombly alla Gnam

Nelle sale di Valle Giulia, espone il più italiano tra gli artisti americani

lunedì 18 maggio 2009, di Angiolo Bandinelli

Bella retrospettiva di Cy Twombly, alla Galleria d’Arte Moderna di Roma: fino al 24 maggio, nelle sale di Valle Giulia si possono ammirare oltre sessanta tra dipinti e sculture del più italiano tra gli artisti americani, gli artisti cosmopoliti che in anni lontani e irraggiungibili furono italiani e romani, non di nascita ma (non ci crederete, e invece a quei tempi poteva succedere) per scelta. Nella considerazione di molti, e noi siamo tra questi, è ben di più: noi siamo bambini cresciuti, lui bambino è poeticamente rimasto, un bambino che fabbrica miti, e tale oggi ci riappare in queste sale. Come si fa a non amarlo? Twombly ci fa estranei all’oggi, sembra muoversi controtempo, féerique, suggestivo, ma anche aggrondato, solitario e scontroso: poeta - come scrive in catalogo Maria

Cy Twombly
"La caduta di Iperione" 1964

Vittoria Marini Clarelli, soprintendente della GNAM - di una “incompiutezza” che appare come un modo di rappresentare l’“indeterminatezza del mondo”.
Curata da Nicholas Serata, direttore generale della Tate Gallery di Londra, la mostra - inaugurata col titolo “Cycles and Seasons” alla Tate Modern di Londra e quindi ospitata al Guggenheim di Bilbao - arriva a più di vent’anni dall’ultima retrospettiva europea e a quasi quindici dalla rassegna del Moma di New York. Una buona parte delle opere emerge dagli anni cinquanta e sessanta, evocatrici di quella Roma cosmopolita che più non si può e non è più stata, capace di fare tendenza - nelle mode se non nella moda - molto più di Milano. In quella Roma Cy Twombly fu di casa, lo si poteva incontrare, mescolato con altri artisti policromi e internazionali, al caffè Rosati di Piazza del Popolo oppure alla galleria “La Tartaruga” di Plinio De Martiis, mitico mercante degli artisti legati alle correnti dell’Espressionismo Astratto o Informale Internazionale insieme al meglio degli italiani d’avanguardia. In questa galleria, nel 1958, Twombly tenne la sua prima personale. Andate a leggervi quanto hanno scritto di quei tempi Arbasino e Mughini, registratori, reporter o cantori di un’epoca irripetibile. Che vi credete? Anche a Roma c’erano, allora, i belli e dannati.

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Nel settembre 1987 si apriva ad Erice, presso l’ex Convento San Carlo, sede dell’Associazione artistico-culturale “La Salerniana”, una mostra dal titolo criptico - “Pittura scrittura pittura” - curata da Filiberto Menna, Fulvio Abbate e Matteo D’Ambrosio. Spiccavano i nomi di Carla Accardi, Gianfranco Baruchello, Giuseppe Capogrossi, Gastone Novelli, Achille Perilli, Cy Twombly. Il titolo rendeva conto di un aspetto specifico dell’arte tra il 1960 e, appunto, la fine degli anni ‘80, vale a dire il rapporto tra scrittura e pittura. Sul tema, o su temi affini, molti in quella stagione si esercitavano: a Montevarchi è in corso, per dire, una mostra con opere del “Gruppo ’70”, nato a Firenze nella primavera del 1963 (durerà fin circa il 1968) per esplorare i temi della cosiddetta “poesia visiva”, quasi il pendant o, concettualmente, il rovescio della “pittura scrittura”. Gli artisti della mostra di Erice erano, insomma, esponenti di un flusso della cultura internazionale radicato nelle sperimentazioni di futuristi e dada, che avevano già fatto della scrittura un’arte visiva - con i loro montaggi, le loro copertine, i collages calligrafici alla Soffici, per dire - di cui potrete vedere qualche bell’esemplare alle mostre in corso sui futuristi, ma soprattutto nel surrealismo della “écriture automatique” alla Breton. Si ponevano di fronte alla tela nello stesso stato d’animo dell’autore del “Manifesto del Surrealismo” del 1924, o del suo compagno di viaggio Soupault: vale a dire cercando di ridurre, minimizzare se non eliminare del tutto ogni controllo mentale sull’opera che le loro mani venivano tracciando in sintonia con le più oscure pulsioni dell’es.
In America, Jackson Pollock aveva da tempo raccolto, con disperata veemenza, questo messaggio, e non fu l’unico a dare vita ad una corrente detta informale forse proprio perché rifiutava la “forma” e si lasciava andare al flusso magmatico dell’inconscio. La Accardi, Novelli, Perilli o Twombly non erano gli inventori della formula ma ne esprimevano una declinazione specifica e riconoscibile, che aveva in Italia - forse a Roma - un centro importante. Lavoravano gomito a gomito, e tuttavia i loro risultati non erano completamente omologabili: tra un Perilli e Twombly lo scarto espressivo è evidente. Perilli aggiungeva al flusso dell’inconscio i suggerimenti lievemente mistici dello zen, appreso grazie alla frequentazione del guru Ernst Bernhardt, un analista ebreo austriaco che, non potendo esercitare una professione non ancora riconosciuta e legittimata in Italia, nel suo studio-appartamento di via Gregoriana, a Roma, dava “lezioni” junghiane a una folla di intellettuali, artisti e cinematografari (vi passarono anche Fellini e Manganelli); eppure alla

Gastone Novelli
"Guerra alla guerra" (particolare), 1968

fine i suoi quadri avevano qualcosa di euclideo, le sue linee tracciavano figure geometriche, aperte e distese sulla tela quasi fossero state sottoposte alla pressione di uno schiacciasassi. In quegli ambienti godeva di un giusto prestigio Gastone Novelli. Questo pittore, troppo prematuramente scomparso, più che il pennello usava la matita con la quale inseguiva sulla cruda tela parole, motti ondulanti, raggrumati, esitanti e balbettanti come la écriture automathique, appunto, di un demente o di un bambino gigante. Di così ardui e misteriosi processi culturali Twombly colse, più che il messaggio esoterico, l’aspetto dell’effimero. Anche lui scriveva sulla tela con la matita o la grafite: ma, come mi ha chiarito un giovane pittore di oggi, era come se si limitasse a copiare, a riprodurre le scritte tracciate sui muri o nei cessi da qualche vagabondo o nottambulo. Da notare: allora non erano ancora apparsi i “writers”, gli artisti cominciavano appena ad accorgersi dei muri urbani e della loro potenzialità espressiva. Proprio a Roma, Mimmo Rotella andava in giro di notte a strappare i poster multicolori dei film o della pubblicità. Poteva essere preso per uno dei barboni cartonari che di questa attività campavano, accumulando e poi portando a vendere lacerti di poster o scatole e scatoloni di cartone pressati e caricati sullo scheletro di una carrozzina per neonati, di quelle alte che sembravano automobiline vagamente aerodinamiche. Tra gli “strappi” di Rotella, i geometrismi di Perilli, le scritture dense e, in definitiva, assai poco “automatiche” (quanto, piuttosto, ben controllate da una volontà costruttrice) di Novelli, Twombly rincorreva, si può dire, i più sperimentali puntando su un sospetto di coprolalia da latrina di stazione, di decomposizione psichica che non c’è in Novelli o in Perilli (e nemmeno in un Kline o in Rotkho, con quella loro gestualità forte e drammatica, o nello sgocciolamento, nel flusso continuo di Pollock). Ma le sue primarie radici artistiche risalivano un po’ più lontano.

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Cy Twombly era nato nel 1928, a Lexington (Virginia). Fu registrato come Edwin Parker, il nomignolo Cy lo eredita dal padre, un giocatore professionista di baseball al quale era stato affibbiato in onore di un famoso giocatore di quello sport, tal Cyclone Young. In famiglia, la sorella e il padre si dilettavano di parlicchiare in latino. Quando scoprono il ragazzino dodicenne intento a copiare una cosa di Picasso, i suoi non perdono tempo e lo inviano a frequentare non banali corsi di pittura e lezioni di arte moderna, come dire europea, ma con qualche attenzione all’arte parietale delle grotte preistoriche, tipo Lascaux, un imprinting che confluirà nelle sue opere mature. Negli anni successivi Cy frequenta corsi e scuole d’arte tra Boston, New York, ma anche Lexington e Richmond, accogliendo influenze varie, studiando e copiando. Il panorama dell’arte americana contemporanea, già in pieno rigoglio, gli diviene perfettamente noto. Nel 1952, il primo viaggio in Europa in compagnia di Robert Rauschenberg, più vecchio di lui di tre anni. Rauschenberg è uno dei padri dell’arte pop, anche se in versione anomala e parecchio

Robert Rauschenberg
1925-2008

indipendente: già nel 1955 produrrà un’opera sconcertante, un “letto”, un letto reale su cui l’artista interviene sporcandolo con scolature di colore, mescolanze e macchie. I due approdano a Roma, dove subito a Twombly si offre una mostra che però lui abbandona per seguire ancora Rauschenberg in Marocco. Di nuovo in Italia nell’anno seguente, a metà marzo espone a Firenze, sempre in coppia con Rauschenberg, “arazzi” realizzati in Africa con tessuti locali.
Nel 1953 viene richiamato alle armi e come militare frequenta corsi di crittografia, ritenuta forse una sottospecie di arte pittorica. Intanto però, di notte e a luci spente, disegna alla ricerca di sé e del suo stile e realizza un primo, importante “Untitled” (gran parte della sua scultura, ma non solo, ha questo non-titolo), la “Funerary Box for a Lime Green Python”, utilizzando quattro ventagli di stoffa giapponesi - del tipo “uchiwa” - a forma di cuore (ma nel catalogo vengono presentati come “foglie di palma”). Dopo ulteriori, fertili vagabondaggi americani, arriva di nuovo in Italia: stavolta si ferma, prima a Grottaferrata poi, su suggerimento di Toti Scialoja, a Procida, quindi vicino a Cortina ospite del mecenate Giorgio Franchetti, infine a Roma tra Via Margutta e l’Appia Pignatelli. Nel 1958, la sua prima mostra, appunto alla galleria di Plinio De Martiis. Va e viene tra Italia e States, è e sarà sempre un viaggiatore instancabile: nel 1959, in Italia insieme alla moglie Luisa Tatiana Franchetti, per un po’ vive a Sperlonga, quindi si stabilisce a Roma. Il Mediterraneo, con i suoi miti classici, è ormai la fonte prediletta di ispirazione, e l’Italia diventa la sua vera residenza: al figlio che gli nasce dà il nome di due generali del mondo classico, Alessandro e Cyrus, e intitola “The age of Alexander” una tela di tre metri e mezzo per cinque e mezzo. Era stato ignorato alla Biennale di Venezia del 1964 (dove Rauschenberg vinceva il primo premio) e aveva provato l’amarezza dell’insuccesso alla seconda mostra con Leo Castelli a New York, nello stesso anno. Ma ora la sua fama è pienamente affermata a livello internazionale, la sua intensissima biografia è quella di un grande artista cosmopolita. Ha trascorso il suo ottantesimo compleanno, nel 2008, a Ponza.

Di una produzione vasta e di varia ispirazione, la mostra romana offre i momenti chiave dagli anni ‘50 ad oggi. La prima (in ordine temporale) opera esposta, “Min-Oe”, venne eseguita nel 1951, quando Twombly studiava presso il Black Mountain College: è una grottesca immagine in monocromo gessoso che già nel nome richiama il mitico re di Creta e mostra influenze in particolare dell’aggressivo e drammatico Franz Kline. Seguono opere dei primi anni ‘50 (“Quarzazat” e “Tiznit”): il segno che scandisce in verticale lo spazio lo ritroviamo, ingentilito e privo dell’aura ossessiva, in alcune sculture coeve (“Untitled”, 1953 e 1955) già pienamente portatrici di quella poetica del bianco (“la vernice bianca è il mio marmo”) che Twombly verrà via via sviluppando in questa attività, da alcuni (tra cui noi stessi) preferita forse alla sua pittura. Finalmente, credo nel clima culturale romano, Twombly si getta tutto nelle trame dell’écriture automathique, dal “Criticism” del 1955 a “Olympia” (1957) e “Arcadia” (1958), dal “Second Voyage to Italy. La caduta di Iperione” del 1962 a “A Murder of Passion” e “Crimes of Passion II” del 1960, o all’emblematico

Cy Twombly
"The Italians", 1961

“The Italians” del 1961: tutta una sinfonia di filamenti spermatici, di alghe nella corrente, o come di una lunga chioma femminile sforbiciata e galleggiante nel lavandino. Con la piccola serie di “Ferragosto” la sfilacciatura segnica si drammatizza, piombando in un inedita violenza cromatica di rossi spalmati come coaguli o ditate di sangue sul muro. Possiamo ricordare ancora la serie dei disegni “Poems to the Sea” del 1959, la serie “Bolsena” del 1969 o, ancora, i “Nini’s Paintings” del 1971, leggeri come il frusciare di sciami di libellule. Ma nei primi anni ‘70 Twombly ha una virata straordinaria, con i neri monocromi di “Treatise on the Veil” dalle dimensioni eccezionali, superiori anche a “The age of Alexander”, ispiratigli dalle prime spedizioni sulla luna.

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E adesso proviamo a fare un balzo avanti nel tempo ed arrivare più vicini ai nostri giorni, alle opere tarde di Twombly. Dovremo, per questo, fare qualche passo a ritroso nella mostra romana. Le opere dell’ultimo Twombly sono infatti esposte nella prima sala, quella che accoglie immediatamente il visitatore, e poi nella seconda, la più vasta: e dunque, appena entrati nel primo grande spazio bianco, incontriamo a tutta parete l’enorme acrilico “Untitled VII, Bacchus”. È un’opera simbolicamente importante, eseguita, assieme alle altre sette del ciclo, nell’estate del 2005, mentre l’America di Bush è in guerra in Iraq. Il ciclo completo, “8 pictures painted in vermilion color on the subject of Bacchus raging (raving) (mainomenos)”, si ispira ai versi dell’Iliade che raccontano come “in preda al terrore Dioniso si tuffò in mare/ e Teti lo accolse nelle sue braccia”. Angoscia, spaurito ritorno infantile nelle braccia rassicuranti della madre, dovrebbero assumere evidenza “nel rimando continuo tra vortici euforici che si librano verso l’alto e cascate sanguinolente e pregne di pittura, che trasuda e cola lungo la tela”. Così, nel catalogo Electa, Nicholas Cullinan, utilizzando continui richiami alla cultura classica, tenta di rendere il senso di quest’opera, nella quale un nastro rosso vermiglione rotea in evoluzioni che ci hanno (impropriamente?) richiamato il Matisse delle “danzatrici” (1909). Sembra che l’estasi dionisiaca sia familiare al pittore, e dunque Cullinan

Cy Twombly
Le quattro stagioni

collega al Bacchus del 2005 i “frenetici cinque Ferragosto” del 1961. Senza pretese critiche, che davvero non ci spettano, l’assimilazione non ci convince. Twombly è attirato dai sontuosi nomi dei miti mediterranei - Ero e Leandro, Teti e il figlio, ecc. - così lontani ed estranei all’America; e non si ha motivo di dubitare che quella ispirazione, coltivata anche in ampie letture poetiche, fosse in lui sincera. Ma la serie “Ferragosto” ci riporta piuttosto, pur in una nuova violenza cromatica, ai lavori degli anni ‘60, alle riflessioni e alle pratiche artistiche dei romani, in primo luogo Gastone Novelli. Oltre al “Bacchus”, sono esposti in queste due sale opere straordinarie, insolite e innovative. Con gli “Untitled” dal sottotitolo “Bassano in Teverina” del 1985 e con gli “Untitled (A painting in nine parts)” del 1988 Twombly sembra abbandonare i climi mediterranei e scoprire Venezia e i suoi pittori, Veronese più che Tiepolo, se non anche il Monet delle Ninfee. La critica accolse male questi verdi intensissimi, cupi come un sottobosco dove rarissima filtri la lama bianca del sole, spalmati a piene mani su tele o tavole che hanno spesso una inconsueta forma polilobata di gusto manieristico. Una ennesima virata, forse un ritorno, si ha poi con la serie delle “Quattro stagioni” degli anni ‘90, che ci mostrano un Twombly forse nostalgico di influssi giapponesi, delicatamente floreali. Ma le due sale sono invase piuttosto dalle sculture degli anni tardi, dal 2004 ad oggi.

Twombly non scolpisce nel senso pieno del termine, e neppure plasma argilla, creta o cera; assembla. In quegli anni – ma anche dopo – aveva varia fortuna una scultura realizzata con l’accorpamento di materiali disparati, compresi rottami di ferro e macchinari. Quelli che Twombly raccoglie e ricompone sono una trouvaille povera, arcadica, anche agreste: canne, stracci, frammenti di tavole di legno, scatoloni di vecchi imballaggi,

Cy Twombly
"Thermopylae", 1991

fiori e foglie di plastica, il tutto tenuto assieme con fili di ferro, spago, chiodi, gesso spalmato grezzamente. Sembra subisca l’influenza del Picasso scultore, che impastava con argilla reperti e spazzature ma con un gusto più divertito e ironico: quando accoccava assieme un manubrio e un sellino di bicicletta, Picasso faceva magicamente emergere una testa di giovane toro, con le ampie corna sul teschio affilato; lo spiazzamento analogico era perfino smaccato anche se imprevisto e imprevedibile, e lo stesso succedeva quando impastava un po’ di creta attorno ad un vaso panciuto cui aveva sovrapposto un’automobilina di latta da bambini, e nasceva l’immagine di una scimmia, un macaco che sbirciava il mondo, persino, con occhi furbetti. Picasso le sue opere le fondeva in bronzo, Twombly, pur non disdegnando talvolta il bronzo, ce le presenta molto spesso ancora nei loro fragili, poveri materiali naturali. La fragilità sembra anzi la “cifra” di questa scultura, o meglio il messaggio che essa cerca di trasmettere, senza ambizione all’eternità: qualcosa cui è impossibile aspirare, perché la nostra modernità è volatile.

Usciamo dalla Galleria e ci immergiamo in un buon sole di aprile, molto contenti delle ore passate assieme a questo artista. Sì, noi lo amiamo, Cy Twombly: ci ha riportato ad anni lontani, ad un’epoca dissolta nella memoria ma fertile ancora di pulsioni, di suggestioni intime e solitarie che non riusciamo - forse non vogliamo, o forse non vorremmo - disperdere o scacciare.