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Dalla “macchia” al naturalismo

La pittura toscana dopo il Risorgimento

venerdì 4 dicembre 2009, di Angiolo Bandinelli

Montecatini Terme, ci dice l’impiegata al bureau dell’albergo, è costretta a corteggiare un turismo occasionale che fa della città una sorta di scalo per weekend a tariffa ridotta. I pullman arrivano, anche da Germania, Svizzera, Austria, stracarichi di anziane coppie affannate e di timide segretarie in vacanza che depositano qui per la cena e un pernottamento e che domani scarrozzeranno su e giù tra le mille bellezze della regione, spingendosi fin alla mitica Firenze. Montecatini prese l’abbrivio come famoso luogo di cura nel Settecento - penso nell’ambito di un salutismo di stampo illuminista - e alcuni degli edifici termali risalenti a quell’epoca ancora emanano un pallido riflesso di atmosfere tra esotismo ed escapism. Però non vi incontrerete più aristocratici valetudinari e ricchi vacanzieri con il bicchiere in mano per attingere le acque miracolose dalle fontanelle di splendida terracotta colorata disegnate da Galileo Ghini, massimo decoratore liberty italiano assieme a Mariano Fortuny (ma lui era spagnolo di nascita). Oggi, tra queste sale si aggirano gli eterogenei e spaesati visitatori delle mostre d’arte che danno una qualche nomèa a buon mercato alla città. Questa estate ve ne è stata una, che aveva come titolo “Il Nuovo dopo la Macchia: origini e affermazione del naturalismo toscano” (Catalogo ed. Pacini) e l’ambizione di ripercorrere criticamente il cammino - assai poco noto, forse sottovalutato - percorso dagli artisti della cerchia di Diego Martelli dopo la dissoluzione della “macchia”, la “formula” pittorica che aveva dato loro celebrità.
Deposti i fucili e le pistole ad avancarica o le giubbe rosse delle battaglie risorgimentali, i giovani ed entusiasti artisti-patrioti si erano raccolti attorno a quel critico d’arte, ospiti nella sua cascina di Castiglioncello, per dar vita a un rinnovamento profondo dell’arte italiana in nome del vero, scoperto grazie alla fotografia, allora ai suoi primi passi. La “macchia” aspirava appunto a cogliere e fissare sulla tela i movimenti della luce quando accarezza figure e paesaggi. Grazie ad una profonda riflessione teorica, critica e storica, questi pittori avevano anche realizzato un solenne ricongiungimento con la tradizione del quattrocento italiano e toscano. Fu il loro omaggio all’Unità d’Italia, letta come fenomeno anche diacronico.

Le loro illusioni durano l’espace d’un matin. Da colti intellettuali si rendono presto conto che è impossibile mantenere un alto, aristocratico rapporto con l’eredità rinascimentale: l’Italia dell’oggi non è quella sognata. Giungeranno presto alle stesse conclusioni dei confratelli milanesi della Scapigliatura, cioè alla rivolta etica e culturale nei confronti della crisi postrisorgimentale, delle nuove classi politiche, della mala gestione della cosa pubblica. Ma anche in questi artisti, come nei milanesi, dalla delusione nasce una più aspra sollecitazione alla ricerca di un vero ancora più vero, addirittura di una attualità, nel nome della quale spingere avanti il fronte della lotta unitaria, della comprensione-costruzione del paese finalmente riunito nella sua identità storica e culturale. È la scoperta del naturalismo, l’avventura conoscitiva che giunge a definire i parametri di una realtà definitivamente liberata dai miti classici dell’accademia, colta direttamente dalla natura, perché la

Adriano Cecioni
Le faccende di casa (1869)

natura è davvero sincera, è “contro”, contro la storia e le sue falsificazioni, le sue retoriche. E la luce naturale mette a nudo un paese ignorato dalla (pur necessaria) idealizzazione carducciana e dalle fanfare risorgimentali. La natura è fatta della gente che popola i campi, le aie assolate, le viuzze dei borghi, i contadini, i lavoranti, i cacciatori, la piccola, autentica umanità dell’Italia rinata, che finalmente ora acquisisce un volto, un suo ruolo sociale non più subalterno, entrando - così come è, povera e casalinga, senza fronzoli - a soggetto della storia (si veda il finissimo “Le faccende di casa”, di Adriano Cecioni). Il bove - il “pio bove” carducciano - assume la solennità del “monumento” che si staglia su campi “liberi e fecondi” (è evidente il valore etico e programmatico dell’immagine). La pittura accademica, classicista, contro la quale i macchiaioli (ma anche gli scapigliati milanesi) avevano combattuto la loro battaglia rinnovatrice, amava, teorizzava i grandi quadri storici. Ebbene, in alcuni di questi postmacchiaioli appare anche l’esercito, il nuovo esercito italiano: ma le loro tele non hanno nulla di pomposo, tipo le scene di battaglia e di guerra retoricamente celebrate a Siena nel Palazzo Pubblico da un’arte nata in atmosfere classiciste e puriste ma postasi subito al servizio dei nuovi poteri, o come la poesia del carducciano “Piemonte”. Il loro esercito, coi suoi soldati e i suoi cavalli, viene dipinto in quanto si compenetra della quotidianità sociale, si mescola al paesaggio, alla gente (Cesare Bartolena: “Manovre militari”, Ruggero Panerai: “Militari nell’aia”). C’è anche Fattori in questa pittura militaresca ma i suoi soldati, le sue scene di battaglia gli servono soprattutto per impostare figure (soprattutto cavalli colti di sguincio) nello spazio, un po’ alla Paolo Uccello. Ma Silvestro Lega scopre la donna - non più le sue tre signorine di buona famiglia de “Il canto dello stornello” o la deliziosa “Ragazza che legge” colta da Francesco Gioli nel giardino fiorito, oppure la elegante giovane di “Dopo la visita”, una tela pre-boldiniana di Michele Tedesco, ma la popolana, la “Giovane gabbrigiana” o “La scellerata” dai rossi aspri e violenti, quale si poteva incontrare tra le terre bruciate dal sole del “Paesaggio del Gabbro”, pronta ad offrirti, pensiamo, i suoi favori.

Quella del naturalismo post-macchiaiolo è insomma una pittura d’avanguardia, un’avanguardia sociale che marca profondamente la cultura postrisorgimentale. È un’arte niente affatto provinciale, nonostante si aggiri in contesti e atmosfere rurali, popolane, contadine: Martelli e i suoi amici avevano rapporti diretti e intensi con l’arte e gli artisti di quello che era allora il centro della civiltà artistica europea, Parigi. Alla fine del secolo, nel 1892, Filadelfo Simi dipinge una stupenda

Filadelfo Simi
Ragazza in giallo

“Ragazza in giallo” - esposta a Montecatini - in cui si condensa una intensa frequentazione parigina. E tuttavia il naturalismo postmacchiaiolo non giunge alla rivoluzione definitiva degli impressionisti francesi, cioè al superamento del naturalismo a favore dello sperimentalismo nuovo, inedito, da cui non a caso prenderanno le mosse i grandi movimenti e le esperienze più audaci delle arti di fine secolo. Quella che si produce in Italia, e non solo nel movimento macchiaiolo, è la pittura di una borghesia sicuramente bene informata delle vicende culturali e politiche europee seguite attraverso il filtro parigino - il punto di osservazione più avanzato del tempo - ma che non vive in proprio i sommovimenti in atto nella grande capitale. Le manca il sostrato sociale, la tensione intellettuale che sfocerà nella Commune viene in Italia sostituita dalle rivolte contadine contro la tassa sul macinato guidate da Cafiero, non dai seguaci di Proudhon. Questa borghesia aveva aderito con entusiasmo agli ideali mazziniani e garibaldini ma forse andando piamente a messa, concedendosi qualche lettura osée tra Baudelaire, Flaubert, Zola e Maupassant (Carducci resterà fedele a Victor Hugo); la sua cultura si abbandona al bozzetto di Renato Fucini (ma da questo sbriciolamento culturale e visivo può saltare fuori anche il beffardo, universale Pinocchio). La sua pittura è perciò insieme moderna e quietamente tradizionale, europea e memore del grande passato rinascimentale-toscano, con la prospettiva, lo spazio, l’esatto equilibrio compositivo; una tipologia dell’immagine di cui era del resto difficile sbarazzarsi. Siamo in Italia, nel paese, cioè, erede di una immensa tradizione pittorica, che grava come un destino ma anche come una promessa, per chi voglia farla sua, rinnovarla. Non è dunque un caso che la prima “macchia” sia impastata di una problematica compositiva che si rifà direttamente, orgogliosamente ma anche riccamente alla grande tradizione rinascimentale. Non va dimenticato - per dire - che fino almeno alla metà dell’ottocento scendono in Italia, a Roma, artisti di tutta Europa per assorbirne la cultura, i valori, ecc. L’“italiano” Corot, il classicista Ingres, per citare solo due giganti, sono, per questi artisti, dei contemporanei. Anche quando, come nel bellissimo “Il mandriano (bambino e buoi)” di Giovanni Fattori, i tardi macchiaioli mostrano di aver compreso il messaggio impressionista di frantumazione del reale nella luce, l’origine italiana lascia tracce inconfondibili.

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Bisogna districarsi dall’ingorgo di gente e di macchine che affolla la piazza centrale di Castiglioncello, imboccare il viale alberato d’ingresso al Castello Pasquini, per incontrarvi un pittore raro, pochissimo conosciuto, anche se tra i più rappresentativi del XIX secolo. C’è la mostra “Nino Costa e il paesaggio dell’anima” (catalogo Skira). Nino Costa è, forse ancor più di Zandomeneghi o De Nittis, un pittore pienamente inserito nel circuito europeo. Attento alla pittura dell’amico Corot, culturalmente nella cerchia dei pittori di Barbizon (si veda, esemplarmente, un Henry Loret), amatissimo da una ricca committenza inglese, Nino Costa attraversa

il suo tempo appartato e silenzioso, tra i paesaggi del Lazio e della campagna romana, l’adesione (da maestro) al movimento macchiaiolo, i soggiorni a Parigi e Londra, le amicizie cosmopolite assieme alle quali fonderà un circolo - la “Scuola Etrusca” - di cui faranno parte George Howard, Matthew Ridley Corbet, Walter James, ecc., e che influenzerà addirittura la pittura americana coeva. La mostra di Castiglioncello offre, a fianco delle opere di Costa e di italiani, una buona selezione di inglesi, francesi, da Corot a Charles ed Enrico Coleman, a George Howard, a George Heming Mason, a Théodore Rousseau, a Walter Crane e Charles-François Daubigny, ecc. tutti protesi, con stilemi assorbiti dal grande Constable e a fianco di Corot, alla definizione di una lettura europea della natura, del paesaggio, del “vero”. Siamo di fronte ad un fenomeno culturale ampio, aperto a influenze provenienti da orizzonti d’ogni genere. Una celebrazione del Risorgimento potrebbe benissimo, partendo da questi (o da altri) dati, essere dedicata al tema del rapporto tra Italia e l’Europa, del loro ricongiungimento che il processo unitario mise efficacemente in moto. Poi si potrà - si dovrebbe - dare spazio ai dibattiti, ai contrasti, alle lotte durissime che tagliarono trasversalmente ceti e culture, poteri e opposizioni nel giudicare l’evento fatale. Si eviterà ogni “visione oleografica”, si darà peso alla storia reale del paese. Ma bisognerebbe avere una visione alta di questi temi.

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Le due mostre si inseriscono in una annata eccezionalmente felice per la pittura italiana dell’Ottocento, ci viene difficile elencare tutte quelle che si aprono qua e là per farci godere i suoi tanti artisti. Bene, benissimo anzi. Non si finisce mai di scoprire questo secolo nelle sue ricchezze, nei suoi risvolti, nella sua intensa problematica intellettuale e culturale, anche per quella sua seconda metà che invece è fatta oggetto di critiche a non finire, ingenerose e molto spesso del tutto pretestuose. Il guaio è che alcune di queste mostre - e facciamo riferimento in particolare a Montecatini Terme - possono apparire solo la sortita di piccole ambizioni turistiche, rivolte a un pubblico di basso profilo, poco appetite dai critici, dagli intenditori, dallo snobismo intellettuale sempre in agguato. Potrebbero, proprio esse, fare proliferare il pregiudizio antiottocentesco (antirisorgimentale?) di tanta parte della nostra classe dirigente, nella sua affannata ricerca di un consenso in definitiva solo mediatico, senza spessore storico.

Ci auguriamo non sia così.