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Artifex additus artifici

Nuove riflessioni sulla creatività della critica in margine a "Il critico come artista" di Matteo Veronesi

venerdì 19 febbraio 2010, di Elisabetta Brizio

L’attività estetica, diceva Schelling in Sistema dell’idealismo trascendentale, vede il convergere di produttività conscia e inconsapevole. L’arte estrinseca l’identità originaria di natura e spirito, di necessità e di libertà, di atto soggettivo e intenzionale e di attività inintenzionale. L’ermeneuta può dunque arrivare a comprendere l’opera, come diceva già Schleiermacher, «innanzitutto al pari, e poi meglio, dell’autore stesso». L’interpretare è compito tradizionalmente deputato alla critica, la quale nondimeno talora può assumere essa stessa tutte le caratteristiche di un’arte peculiare, istituendosi come vero e proprio genere letterario.
È quello che si ricava dal volume di Matteo Veronesi, Il critico come artista dall’estetismo agli ermetici (Azeta Fastpress, Bologna 2006), incentrato sulla visione del critico come artifex additus artifici, come artista aggiunto all’artista: un creatore di secondo grado, che trae ispirazione dall’opera d’arte altrui, così come l’artista propriamente detto trae ispirazione dalla realtà, dalla natura, dall’umano. Presupposto fondamentale di Veronesi è che una critica artistica, e, per riflesso analogico, una critica della critica, una metacritica, possano avere un valore e uno spessore letterari.
Il rapporto tra poesia e critica, dice Veronesi (le cui argomentazioni sono volte a cogliere una ideale continuità nella visione del critico artifex anche all’interno di movimenti tradizionalmente dissimili, come quello simbolista e quello degli ermetici), non è una caratteristica esclusiva della modernità letteraria postbaudelairiana (emblematizzata da Baudelaire nel chiaroveggente e beffardo ammiccare all’hypocrite lecteur).
Nondimeno, tale rapporto è il segno stesso della modernità, vale a dire del consapevole allontanamento dalla natura come principio ispiratore dell’arte. Se già Schiller e Leopardi parlavano di poesia sentimentale e filosofica come compianto di quella ingenua degli antichi, è con il simbolismo che si consuma una insanabile inversione di valori: non l’arte imita la natura, ma la natura imita l’arte, diceva Oscar Wilde.
Veronesi porta, fra gli altri, l’esempio di Walter Binni e di Luciano Anceschi, che postulano una poetica come autoriflessione del poeta sull’arte.
Ma forse è solo con Critica e verità di Roland Barthes che si apre una nuova prospettiva a parte lectoris: la scrittura critica è un prolungamento dell’opera che ne moltiplica la componente metaforica e la restituisce al suo ambito specifico, quello della letteratura.
La concezione della lettura come esecuzione è poi una costante dell’estetica di Pareyson. L’atto ermeneutico, momento in cui, secondo Pareyson, la ricettività e l’attività non sono isolatamente distinguibili, mostra il suo carattere dinamicamente rievocativo – piuttosto che contemplativo – del processo artistico.
Il critico,

scrive Veronesi, è «artifex nella misura in cui la sua individualità ermeneutica, posta di fronte ai dati disuniti e disgregati dell’osservazione e della percezione, è capace di ordinarli e di fonderli ricavandone una forma che ha, essa stessa, densità e pregnanza di opera d’arte». In vista di una ricezione fattiva operano i critici dell’estetismo, i vociani e gli ermetici, in un comune metodo antimetodico che intreccia la critica alla creazione e all’origine del senso. La decostruzione, poi, andrà oltre l’ermeneutica, contemplando la deriva dei significanti e dei significati, risolvendo l’interpretazione in soggettività, e quest’ultima in testualità e riscrittura, e viceversa.
I manifesti dell’estetismo critico – le dannunziane Note su Giorgione e la critica, Giorgione di Angelo Conti, e prima ancora The Critic as Artist di Oscar Wilde e il Rinascimento di Walter Pater, per fare alcuni esempi significativi – rivendicano il soggettivismo attraverso il gusto della sensazione analogica, una sorta di controcanto al testo fatto di polivalenze e di rimandi che integrano – o enfatizzano – quei blancs reificanti, se così si può dire, la poétique du silence, lo scarto tra la «volontà di dire» e la difficoltà a verbalizzare l’inesprimibile (aspetti che saranno poi eminenti in Serra e De Robertis): margini, dunque, questi bianchi, per l’originalità e per la libertà creativa dell’interprete che può colmare della propria individualità rimeditata quei vuoti, quelle lacune, quegli iati, alla maniera in cui l’esecutore musicale adotta le pause per scandire e ritmare la propria lettura. Una riscrittura, quella della critica creatrice, non dissimile dalla prosa d’arte: riscrittura in cui il critico artifex stila il rinvenimento di qualcosa che l’autore – dice Wilde - «never dreamed of», dell’imponderabile, delle dannunziane «ombre dell’infinito».
Serra «poeta della critica» si rifà a critici artisti come Enrico Nencioni e Giuseppe Saverio Gargàno, alla loro maniera di procedere, ma certo aggiunge una componente marcatamente etica, quella di ripensare sé stesso e la propria autobiografia: come la vita è una riproduzione di forme che altrove hanno avuto luogo, così l’interpretare è assimilarsi all’eterno tornare delle forme dell’arte.
Anche nei vociani Serra e De Robertis c’è l’idea di una letteratura che «vince la morte», «nella stessa misura in cui – scrive Veronesi – dissolve e abolisce la vita», pur essendo la parola, dannunzianamente, un ipnotico medicamento della dissoluzione. Appropriarsi della tradizione suppone infatti una dedizione e uno sforzo incondizionati, una vocazione alla letteratura che finisce per sottentrare alla vita e all’esperienza, sostituendole, seppure non nella forma dell’estetismo, ma in una vicenda più sofferta, autentica, raccolta, in una sorta, come è stato scritto, di «diarismo trascendentale».
Come scriveva Carlo Bo, emblematicamente, nella celebre conferenza Letteratura come vita, «là dove smette lo scrittore nasce il critico, in uno scambio perfetto di vita. Più che l’approvazione cerca la risposta: non sono movimenti che si plachino per una vana rappresentazione di forme. È una serie di postulazioni e su di esse la possibilità di commenti, un’altra novità».
A questo punto viene spontaneo domandarsi a quale genere letterario appartenga questa complessa, ricca, a tratti finanche un poco involuta ed impervia, opera di Veronesi. Essa avrebbe tutte le caratteristiche per essere definita un’opera di terzo grado, dove letteratura equivale a una meta-meta-critica, attraverso un libro che parla di libri che parlano di altri libri, come in una mise en abyme, in senso (anche) derridiano.