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Pochi e sfortunati eventi che portarono un poeta austriaco a (quasi) non fare cinema

Un po’ di contesto attorno a "Il surrogato dei sogni" di Hugo von Hofmannsthal

venerdì 3 settembre 2010, di Marco Federici Solari Chianese

La storia di fallimenti, occasioni mancate ed esiti insoddisfacenti che lega Hugo von Hofmannsthal al cinema ha inizio nel 1913. Lo scrittore austriaco cede i diritti di una sua pantomima, Das fremde Mädchen [La sconosciuta], alla casa di produzione danese Nordisk Film Kompagni per la realizzazione di un film diretto da Mauritz Stiller (il regista finlandese-svedese scopritore e primo marito di Greta Garbo). Protagonista della pellicola è la star della danza Grete Wiesenthal che impersonava la “sconosciuta” anche sulla scena. Hofmannsthal collabora in prima persona alla sceneggiatura.

1913. Il cinema ha appena 14 anni, Hofmannsthal ne ha 39 e con questa iniziativa diviene uno dei primi e più importanti autori di lingua tedesca a confrontarsi attivamente con un’industria guardata con sospetto e snobismo da molti artisti e intellettuali, e con aperta ostilità da drammaturghi e uomini di teatro. Il 1913 è l’annus mirabilis della cinematografia tedesca

in cui escono Der Andere [L’altro] di Max Mack, con la partecipazione del grande attore di prosa Albert Bassermann; Lo studente di Praga di Paul Wegener, sceneggiato dallo scrittore Hanns Heinz Ewers, primo “film artistico” e primo successo internazionale della cinematografia tedesca; Die Insel der Seligen [L’isola dei beati] e Venetianische Nacht [Notte veneziana], i due esordi cinematografici del genio teatrale di Max Reinhardt; e il Kinobuch [Libro del cinema], pubblicazione a cura di Kurt Pinthus in cui 15 scrittori tedeschi proponevano trame e idee per il nuovo mezzo di comunicazione e di illusione. È la vera e propria data di nascita, in Germania, di un cinema consapevole di sé e delle proprie possibilità che apre la strada alla grande e irripetibile stagione dell’espressionismo che si chiuderà nel 1927-28 con l’arrivo del sonoro e l’acquisto della Ufa (1) da parte dell’imprenditore e politico nazionalista Alfred Hugenberg. Per tutto questo glorioso quindicennio Hofmannsthal cercherà a più riprese di contribuire alla nuova fiorente industria, dimostrando sempre una precisa comprensione delle finalità e dei limiti socioeconomici del cinema del suo tempo.

Nell’adattamento della propria pantomima lo scrittore austriaco si sforza di costruire una trama narrativa semplice e in linea con le produzioni dell’epoca. È proprio questa intelligente attenzione alle peculiarità della nuova arte commerciale a costargli il biasimo della critica. Il poeta sembra pagare soprattutto lo scotto di essere un rappresentante della “cultura alta” che ha voluto prendere parte a quello che viene considerato un volgare passatempo per le masse incolte. La recensione dello scrittore Julius Hart è rappresentativa di un diffuso atteggiamento nei confronti del nuovo medium: “Hofmannsthal, il grande artista della parola e della lingua, il più radicale apostolo dell’estetica della forma, per la quale nella poesia la parola è tutto, […] lasci il cinema ai più infimi degli infimi e non faccia concorrenza a questi picari da quattro soldi.” (2)
Dopo un decennio in cui sembra accantonare ogni tentativo in questa direzione, nel 1922-23, a un paio d’anni dalla stesura del saggio che presentiamo in traduzione, Hofmannsthal tenta nuovamente, anche spinto da necessità meramente economiche, di lavorare per il cinema. Lo testimonia una lettera retrospettiva del 1927 a Willy Haas, giornalista, letterato e sceneggiatore vicino in gioventù a Kafka e a Werfel che divenne poi negli anni Venti una figura centrale nel rapporto tra intellettuali e cinema tedesco(3) : “In quegli anni [1922-23], pour faire flèche de tout bois (4) , avevo portato a compimento molti progetti per il cinema”. Tra questi ci sono rimasti un soggetto per un film in costume sulla vita di Daniel Defoe e la rielaborazione della novella Lucidor, pubblicata già nel 1910 come racconto-canovaccio per una pièce ancora da scrivere (5) .
Il primo racconta per immagini un Defoe immaginario e stereotipato, mescolando biografia e letteratura in modo da lasciare apparire per le strade dell’Inghilterra seicentesca le maggiori figure uscite dalla penna dello scrittore londinese. Defoe incontrerà, ad esempio, tra le nebbie del porto di Bristol uno strano personaggio con un pappagallo sulla spalla che naturalmente altri non è che Robinson Crusoe, pronto a raccontargli le sue avventure. Con una bella idea di montaggio dialettico, che dimostra un’ottima comprensione del mezzo cinematografico, il soggetto si chiude sullo straordinario successo del romanzo ricorrendo a immagini prima sincroniche (un re lo legge nel proprio castello, un malato nel letto di ospedale, un sacerdote per la via, come fosse un breviario), poi diacroniche (la processione delle generazioni di lettori, con le fogge degli abiti che cambiano per esprimere lo scorrere del tempo) seguite, senza soluzione di continuità, dalla scena della squallida e disperata morte di Defoe. Questi si spegne in una bettola sordida, lontano da ogni affetto, consolato soltanto nel delirio dalla visione dei suoi personaggi che lo accolgono trionfalmente in uno scenario da paradiso tropicale. Il soggetto, pensato, come dimostra il libero adattamento della biografia ai canoni del feuilleiton, per una pellicola squisitamente commerciale, non ebbe esiti produttivi e fu pubblicato solo postumo nel 1935.
Il progetto di adattamento del Lucidor (riaccarezzato anche nel 1926) rappresenta, invece, solo un’ennesima fase del processo di metamorfosi di questo splendido studio di caratteri, esplicito tentativo di “stile stendhaliano”, godibilissimo proprio per la sua forma ibrida,

che infine diverrà nel 1929 l’operetta Arabella, musicata da Richard Strauss.

Proprio alla lunga collaborazione con Strauss è legata l’unica altra realizzazione cinematografica dello scrittore: il film del 1925 tratto dal Cavaliere della rosa. Di questa operazione nota e controversa, affidata alla regia dell’allora celeberrimo Robert Wiene (l’autore del Gabinetto del dottor Caligari, 1919) (6) , ci preme segnalare solo l’interessante idea di adattamento che Hofmannsthal aveva in mente: anche per scongiurare una dannosa sovrapposizione tra il film e l’opera, il librettista propone a Strauss di non riscrivere la storia per il cinema, ma di raccontarne l’antefatto, di realizzare, insomma, quello che oggi chiameremmo un prequel. “[Il film in questo modo] ci familiarizza con i personaggi oppure – se li si conosce già – racconta qualcosa di nuovo su queste vecchie conoscenze” (7), dando così la voglia di vederli o rivederli in carne e ossa sul palcoscenico. Hofmannsthal supera l’idea di concorrenza tra le due arti, di cui erano ostaggio molti uomini di teatro del suo tempo, indicando una via di sostegno reciproco che, però, né la produzione, né il regista saranno pronti ad accettare. La pellicola realizzata, infatti, non è che la riduzione, con l’aggiunta di qualche personaggio di raccordo, della trama originaria (un’idea che Hofmannsthal aveva definito per lettera a Strauss “una follia pura”), accompagnata da una versione abbreviata a un’ora e un quarto della partitura dell’opera.

Dopo questo progetto lucrativo, ma in cui l’autore non ha nessuna reale voce in capitolo (del cast che propone viene scelto, ad esempio, un solo attore), Hofmannsthal scriverà nel 1928, in collaborazione con Max Reinhardt, un soggetto ambizioso, puntando direttamente a una produzione americana. Intuendo le potenzialità cinematografiche di un fatto di cronaca (il caso di Therese Neumann, la “stigmatizzata di Konnersreuth”, una giovane mistica che in quegli anni attirava la credulità popolare di tutta la Germania cattolica), i due composero una storia fantastica ed edificante ambientata alla fine dell’Ottocento. L’idea fu proposta a Lilian Gish, la star dei film di Griffith, che si mostrò particolarmente interessata, anche perché la storia le avrebbe permesso di interpretare una parte “alla Giovanna

Max Reinhardt

d’Arco” cui da tempo aspirava. Nel luglio del 1928 i tre si incontrarono a Leopoldskron, vicino Salisburgo, per riscrivere assieme il soggetto. Nonostante la disponibilità della grande attrice e i contatti di Reinhardt in America, il film rimase solo un progetto. Con il definitivo arrivo del sonoro e del parlato (1927), una pellicola muta come quella scritta da Hofmannsthal e Reinhardt non riscuoteva più interesse.

All’America e al mondo del cinema sonoro è legato anche l’ultimo, fuggevole e beffardo incontro tra Hofmannsthal e la settima arte. Il 24 giugno 1929, Friedrich Zelnik, importante produttore tedesco, tra i primi ad aprire la strada dell’emigrazione a Hollywood, gli propose in nome della United Artists una versione sonora del Cavaliere della rosa in inglese, da realizzare poi in diverse lingue. Ma proprio la volta in cui riceveva una proposta, il poeta non ebbe neppure il tempo di soppesarla. Il 13 luglio 1929, suo figlio Franz si suicidò con un colpo di pistola. Due giorni dopo, poche ore prima del funerale, Hugo von Hofmannsthal fu trovato morto nel suo studio, stroncato da un attacco apoplettico.



Note

1. L’Universum Film Aktiengesellschaft, importantissima società di produzione fondata nel 1917 su richiesta del generale Ludendorf per sostenere la “lotta per il morale” durante la Prima guerra mondiale. Nacque come un cartello che raggruppava i maggiori produttori tedeschi con l’appoggio dei principali gruppi finanziari della nazione. Ottenne rapidamente e mantenne fino alla Seconda guerra mondiale il monopolio quasi assoluto della produzione cinematografica tedesca.
2. In Kunst und Kino, in “Der Tag”, 1 novembre 1913.
3. È curioso notare come fu proprio Hofmannsthal a portare indirettamente Haas verso il mondo del cinema, a cui già collaborava con impegno incostante. Racconta l’autore praghese nella sua autobiografia: “Verso il 1922 pubblicai un saggio su Hofmannsthal, a cui lui per motivi personali non aveva dato la sua approvazione. Hofmannsthal mi scrisse una vera e propria lettera di addio, la lettera più crudele che abbia mai ricevuto. Mi mancava – scrisse – qualsiasi capacità critica e letteraria, sarebbe stato meglio che mi dedicassi a un mestiere borghese. Il nostro rapporto era finito per sempre. Profondamente sconvolto, riposi la lettera nel cassetto nella mia scrivania e decisi senza indugio di non pubblicare mai più una riga. Mi restava aperta solo l’attività cinematografica. Per tre anni non ebbi più notizie di lui, non gli scrissi più e composi quasi solo sceneggiature” W. Haas, Die literarische Welt. Lebenserinnerungen (1957), Fischer, Frankfurt a. M. 1983, p. 46.
4. L’espressione idiomatica, in francese nel testo, si potrebbe tradurre con “per non lasciare nulla di intentato”.
5. Figure di una commedia non scritta ne è l’eloquente sottotitolo.
6. Robert Wiene era, per indole e capacità, un regista di film commerciali e sentimentali molto convenzionali, la cui carriera subì una svolta grazie alla direzione, quasi fortuita, del capolavoro del giovane cinema tedesco Das Cabinet des Dr. Caligari. La regia del film era stata dapprima offerta a Fritz Lang che, pur rifiutando, diede un contributo fondamentale al soggetto: propose di chiudere lo svolgimento della trama nella cornice del manicomio in modo da trasformare tutta la storia in un vaneggiamento di Caligari che nel finale si rivela essere non un medico, ma un paziente dell’ospedale psichiatrico. Wiene non fece altro che accettare questa proposta e affidarsi in tutto e per tutto ai veri autori del film: gli sceneggiatori Hans Janowitz e Carl Meyer (uno dei maggiori innovatori del cinema europeo di quegli anni) e i tre scenografi, i pittori del milieu della rivista espressionista Der Sturm, Hermann Warm, Walter Roehrig e Walter Reimann. Come risulta chiaramente dall’epistolario, soprattutto con Richard Strauss, Hofmannsthal non trovò in lui un interlocutore artistico del proprio livello. Per la questione cfr. almeno S. Kracauer, Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco, a cura di Leonardo Quaresima, Lindau, Torino 2001; G. Sadoul, Storia del cinema mondiale, vol. I, Feltrinelli, Milano 1977.
7. Lettera a Richard Strauss del 1 gennaio 1925.