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Hofmannsthal - Il surrogato dei sogni

martedì 7 settembre 2010, di Marco Federici Solari Chianese

L’articolo Der Ersatz für die Träume fu pubblicato il 27 marzo 1921 sulla “Neue Freie Presse” di Vienna insieme a due altri brevi testi sotto il titolo collettivo di Drei kleine Betrachtungen [Tre piccole osservazioni] e apparve per la prima volta in volume in Die Berührung der Sphären [Il contatto delle sfere], S. Fischer Verlag, Berlin 1931.
L’introduzione e la traduzione sono di Marco Federici Solari.

Un rifugio per la massa. Il cinema e il brivido dell’infanzia.

“Il cinema è divenuto l’arte popolare dei nostri tempi” scriveva Robert Musil nel 1925 riflettendo sulla necessità di un’estetica nuova che reagisse alle rivoluzioni tecniche e percettive contemporanee. La riflessione partiva dalla lettura del saggio L’uomo visibile del grande teorico del cinema Béla Balász, con le cui parole Musil concludeva il suo pensiero: “Purtroppo non nel senso che nasce dallo spirito popolare, ma nel senso che lo spirito popolare nasce da esso, dice Balász” (1) . Dalla stessa intuizione, mediata attraverso la pietas e la sensibilità del poeta, parte Hugo von Hofmannsthal nel Surrogato dei sogni (1921) per riflettere su quello che si stava imponendo come il più diffuso e più importante intrattenimento per le masse dell’epoca moderna. Sempre nelle parole di Musil: “Le chiese e i luoghi di culto di tutte le religioni nei millenni non hanno coperto il mondo di una rete così fitta come il cinema ha fatto in tre decenni” (2) . Lo sguardo di Hofmannsthal si ferma a interrogare i motivi di questo fenomeno dandone una lettura

BeÌ la BalaÌ zs

che, in consonanza con Musil pur senza raggiungerne le profondità speculative, individua il carattere di regressione, l’indole primitiva della più moderna delle arti.
Sotto la finzione del discorso riportato, dell’opinione trascritta di un “amico” – ricorrente nella saggistica del poeta austriaco così spesso accesa da una vocazione narrativa e dialogica –, il testo dà voce a un’apologia del cinema come sintomo di un bruciante bisogno sociale ed esistenziale, come momento di riscatto dell’individuo ridotto a mera cifra, perso nell’esistenza alienata delle periferie industriali. Al di fuori di ogni impalcatura politica, Hofmannsthal descrive l’universo meccanico e disperante abitato dagli operai, protagonista di tante pellicole (citiamo solo tre capisaldi che recuperano e canonizzano la tradizione filoproletaria del cinema primitivo (3) : Metropolis del 1927, A me la libertà del 1931 e Tempi Moderni del 1936), come scenario di una radicale impotenza, materializzata nella vacuità e nell’indistinguibilità delle singole esistenze, delle architetture che le ospitano, dei lavori che le formano. Ma esiste un potere gratuito (perché ha a che fare con la grazia, nel duplice senso di epifania del divino e sospensione della morte), a tutti dato e quasi da tutti perduto: la forza metamorfica dell’infanzia, il potere subito ed esercitato della fantasia, dei dettagli che si animano e riverberano in sensazioni, storie, trasalimenti.

In questo testo quando Hofmannsthal dice sogno intende infanzia. Come scrive Novalis, ovunque ci siano bambini, lì è l’età dell’oro. Il cinema è il luogo del recupero di questa antica potenza, di questo regno paludoso e felice che ognuno nasconde in sé, è un rito collettivo di gioiosa e liberatoria regressione. E per questo si apparenta al sacro, alla vita torbida e inconscia che si agisce nel sonno, all’inesauribile fascinazione del simbolo. Con geniale sensibilità Hofmannsthal nota che il secondo piano, lo sfondo, è sullo schermo (4) la parte più indistinta, la zona umbratile che accompagna l’azione determinandone l’atmosfera, e la riconosce come doppio, localizzato spazialmente sulla pellicola, del subconscio, trama ordita dagli oggetti di scena e dai paesaggi posticci, malia tecnica per cui lo spettatore partecipa al film con la propria altrimenti inattingibile interiorità sepolta.
Al chiuso degli edifici contigui come muri, dei circoli viziosi del paternalismo borghese, delle manette strette sui polsi dal lavoro il cinema contrappone una sconfinata apertura di case scoperchiate, camere da letto voyeuristicamente visitate, inseguimenti per le strade a perdifiato. Dietro la finestra dello schermo c’è un mondo aperto, un naturale fantastico, non posto fuori dalla cultura, ma capace di rimescolarla, abbassarla, liquidarla ad uso e consumo estatico e bambinesco della folla muta che nel mutismo delle immagini proiettate nelle chiassose sale cinematografiche scopre e inventa una propria nuova mitologia. “Tutto un caos di letterature, le figure avanzate da migliaia di drammi, romanzi, notizie di cronaca […]” ridotte alla loro pura aura suggestiva e ipnotica che esplodono, però, nella lucentezza e nella permanenza del mito. E il potenziamento mitico di sottogeneri e di temi vieti e volgari rimane ancora oggi una delle più numinose forze del settima arte.
Questa opposizione tra chiuso e aperto è chiaramente percepibile anche nello stile del testo. Dapprima tentennanti e sincopati, rallentati da anafore e ripetizioni e soprattutto da un’abbondante e variegata punteggiatura, più vicina alla pausa musicale che a quella logico sintattica, i periodi pian piano si distendono, cominciano a procedere per elenchi poetici e visionari, assumono un tono solenne, descrittivo ed enfatico. È come se la figura che parla, una volta riconosciuta la via d’uscita del cinema, si accalorasse sempre più nel discorso, nel filo spezzato e ostinato che vuole congiungere una cieca quotidianità alla misteriosa apparizione del simbolo, per poi ritrovare nelle ultime righe la più controllata compostezza di una ferma convinzione, non assoluta, ma pronunciata in dialogo con altre opinioni.
Non è strano

Dietrich Bonhoeffer

che un simile mondo aperto e coinvolgente sia muto. Esso rappresenta un’alternativa al linguaggio, divenuto ormai inservibile per creature che ne sono state fin dalla nascita quasi deprivate, che istintivamente lo riconoscono come primo e supremo mezzo di sfruttamento. L’articolo può essere letto anche come una variazione, per una volta sociologica e non solo estetica, del tema tutto austriaco e tutto hofmannsthaliano della crisi del linguaggio.

Accanto a feconde opinioni sul cinema, che rappresentano anche un’interessante testimonianza di ricezione, Hofmannsthal dà qui anche un modello di critica sociale, un esempio di commosso intervento da artista, e non di esaustiva analisi da intellettuale, sulle questioni del proprio tempo. L’ipersensibilità da “uomo difficile” con cui capta le esigenze e le insoddisfazioni della massa non è altro che la forma nervosa di una profondissima umanità. Con le parole di Dietrich Bonhoeffer potremmo dire che il suo sguardo ci insegna “a valutare gli uomini più per quello che soffrono che per quello che fanno o non fanno” (5) . È lo sguardo del poeta, contemplazione calma e partecipe che comprende ogni cosa, non giustifica nulla e riconosce tutto come fraterno, lacrimevole e nobile.


Note

1. Robert Musil, Ansätze zu neuer Ästetik. Bemerkungen über eine Dramaturgie des Films in Id., Gesammelte Werke II, hrsg. von Adolf Frisé, Rowohlt, Hamburg 1978, p. 1138 (edizione italiana, Spunti per una nuova estetica, in Robert Musil, Saggi e lettere, a cura di Bianca Cetti Marinoni, Einaudi, Torino 1995).
2.Ibidem.
3. Sulla trasformazione del cinema, nei suoi primi decenni di evoluzione, da intrattenimento proletario ad arte borghese vedi Noël Burch, Il lucernario dell’infinito. Nascita del linguaggio cinematografico, Il Castoro, Milano 2001.
4. Soprattutto nell’immagine “policentrica” che caratterizzava il cinema primitivo contravvenendo alle “regole centripete della pittura accademica” e del realismo borghese. Cfr. Noël Burch, Il lucernario cit…, p. 23.
5. Dietrich Bonhoeffer, Della stupidità, in Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, San Paolo edizioni, Milano 1988, p. 67.




Hugo von Hofmannsthal


IL SURROGATO DEI SOGNI

Ciò che le persone cercano nel cinema – mi ha detto un amico con cui mi è capitato di affrontare l’argomento – ciò che le persone che lavorano cercano nel cinema è il surrogato dei sogni. Vogliono riempirsi la fantasia di immagini, immagini forti in cui si riassume l’essenza della vita; immagini tratte dall’interiorità dello spettatore e, allo stesso tempo, capaci di sconvolgerlo completamente. Perché sono le immagini che la vita gli nega. (Parlo di coloro che abitano nelle città o nelle grandi aree industriali, non degli altri, contadini, marinai, coloro che vivono nei boschi o sulle montagne). Le loro teste sono vuote, non per natura, ma piuttosto a causa dell’esistenza che la società li costringe a condurre. Ci sono le zone industriali annerite dal carbone, una ammassata accanto all’altra, separate solo da qualche esile striscia di prato secco; e i bambini che vi crescono: su seimila non ce n’è uno che in vita sua abbia visto una civetta, uno scoiattolo o una fonte; ci sono le nostre città, file infinite di case che s’incrociano tra loro; case che si somigliano tutte: hanno una porticina e righe regolari di finestre identiche, sotto, i negozi; niente parla di loro al passante o al visitatore: dice qualcosa solo il numero. Così sono anche le fabbriche, i cantieri, gli stabilimenti, gli uffici dove si pagano le tasse o si compilano moduli: vi attecchisce solo il numero. E così è la giornata lavorativa: la routine della fabbrica o dell’officina; un paio di movimenti della mano, sempre gli stessi; un martellare, vibrare, limare, girare indistinti; e in casa di nuovo: la cucina a gas, la stufa, gli apparecchi e tutti i piccoli macchinari da cui si dipende, che si imparano a usare con la pratica. Chi li adopera continuamente diviene in fine lui stesso una macchina, uno strumento tra altri strumenti.
A centinaia di migliaia fuggono da tutto ciò nella sala buia delle immagini in movimento. Che queste immagini siano mute, non fa che aumentarne l’attrattiva: sono mute come i sogni. Nel loro intimo, senza saperlo, queste persone temono il linguaggio; temono il linguaggio in quanto strumento della società. La sala conferenze è accanto al cinema, lo spazio riunioni è a un vicolo di distanza, ma non possiedono questa stessa forza. L’ingresso del cinema attira il passo degli uomini con la forza attrattiva della… della mescita in cui si serve l’acquavite. E però è qualcosa di diverso. Nella sala conferenze campeggia a lettere d’oro “Sapere è potere”, ma il cinema chiama più forte: chiama con le immagini. Il potere che ricevono tramite il sapere: per loro in questo potere c’è qualcosa che non convince del tutto, che è quasi sospetto. Percepiscono che li porta solo a sprofondare maggiormente negli ingranaggi, sempre più lontano dalla vita autentica, da quella che i sensi e un segreto più intimo, che vibra sotto i sensi, dicono essere la vita vera. Il sapere, la cultura, la consapevolezza dei contesti forse allentano le manette che sentono chiuse sui polsi, ma le allentano momentaneamente, in apparenza, forse solo per stringerle ancora più forte, conducendoli infine a nuove catene, a una schiavitù ancora più profonda. (Non sostengo che lo dicano; una voce lo sussurra piano in loro). Dentro di loro rimarrebbe comunque il vuoto. (Anche questo se lo dicono senza dirselo). La sala conferenze non può guarire il tipico, insipido vuoto della realtà, la desolazione da cui si esce con l’acquavite, le rare immaginazioni come sospese nel vuoto. Gli slogan delle riunioni di partito, lo spiraglio quotidianamente aperto del giornale, anche qui non c’è nulla che davvero sollevi dalla desolazione dell’esistenza. La lingua dei colti o dei semicolti, parlata o scritta che sia, è qualcosa di estraneo. Increspa la superficie, ma non risveglia ciò che giace addormentato nel profondo.
C’è troppa algebra in questa lingua, ogni lettera nasconde ancora una volta una cifra, la cifra che è la riduzione di una realtà. Allude da lontano a qualcosa, anche al potere, persino al potere cui in qualche modo si partecipa; ma è troppo indiretto, il collegamento è troppo insensato, non eleva lo spirito, non lo conduce da qualche parte. Lascia piuttosto dietro di sé uno scoramento e di nuovo la sensazione di essere un pezzo impotente di una macchina, e tutti conoscono un altro potere, reale, l’unico reale: quello dei sogni. Sono stati bambini e a quel tempo erano creature potenti. C’erano sogni, di notte, ma non si limitavano alla notte; c’erano anche di giorno, erano ovunque: bastavano un angolo scuro, un’aura di luce, il muso di un animale, lo strascichio di un passo sconosciuto a comunicarne la continua presenza. C’era il vuoto buio sotto la scala della cantina, una vecchia botte in cortile mezza riempita d’acqua piovana, una cassa di cianfrusaglie; c’era il portone di un magazzino, la botola, la porta dell’appartamento del vicino, da cui usciva un uomo a cui ci si inchinava con fuggitivo timore o una donna che gettava il dolce, indefinibile brivido di un desiderio confuso e presago nelle oscure e tremanti profondità del cuore. E ora è di nuovo una cassa di cianfrusaglie incantate a dischiudersi: il cinema. Lì è aperto ciò che di solito è nascosto dietro alle fredde, opache facciate delle case infinite, lì si spalancano tutte le porte, sulle stanze dei ricchi, sulla camera della giovinetta, sulle hall degli alberghi, sui nascondigli del ladro, sul laboratorio dell’alchimista. È il viaggio in volo con il demone Asmodeo che scoperchia i tetti rivelando ogni segreto. Ma non è solo un modo di placare una tormentosa e spesso frustrata curiosità.
Come in chi sogna, qui si prepara l’acquietamento di una pulsione più segreta: i sogni sono azioni. Involontariamente si mescola in questo guardare senza limiti un dolce autoinganno, come un poter fare e disfare con le mute, servizievoli immagini che si accalcano una sull’altra, un poter fare e disfare con intere esistenze. Il paesaggio – casa, parco, bosco, porto – che svolazza via dietro le figure, aggiunge solo una sorta di musica vaga, risvegliando chissà quale nostalgia e vanità nella regione buia in cui non giunge nessuna parola detta o scritta. Sulla pellicola, nel frattempo, vola in brandelli strappati tutta una letteratura. No, tutto un caos di letterature, le figure avanzate da migliaia di drammi, romanzi, notizie di cronaca; gli aneddoti storici, i fantasmi degli allucinati, i resoconti degli avventurieri; ma allo stesso tempo belle donne e gesti chiari; espressioni e sguardi da cui sgorga tutta l’anima. Vivono, soffrono, lottano e passano davanti agli occhi di chi sogna; e questi sa di essere sveglio; di sé non lascia fuori nulla; con ogni fibra del suo intimo, fin dal più segreto anfratto, fissa questa scintillante ruota della vita* che gira senza posa. È l’uomo nella sua interezza che si abbandona allo spettacolo; non c’è un solo sogno della più tenera infanzia che non vibri all’unisono con le immagini. Solo in apparenza dimentichiamo i nostri sogni. Di ognuno, anche di quelli che si perdono già al risveglio, resta in noi un qualcosa, una fioca ma decisiva colorazione degli affetti, restano le abitudini del sogno nelle quali c’è l’uomo nella sua interezza più che nelle abitudini della vita, restano le ossessioni represse in cui la forza e l’unicità dell’individuo si sfrenano internamente. Questa vegetazione sotterranea vibra in un unisono fin nel terreno più buio che accoglie le radici, mentre gli occhi leggono sullo scintillio del film l’immagine multiforme della vita. Sì, questo terreno buio che accoglie le radici dell’esistere, regione in cui l’individuo cessa di essere individuo, che così di rado giunge a una parola, appena alla parola della preghiera o al balbettio dell’amore, vibra in unisono con le immagini. Da esso, però, sgorga il più segreto e profondo di tutti i sentimenti vitali: il presagio dell’indistruttibilità, la fede nella necessità e il disprezzo del meramente reale che esiste solo per caso. Da esso, quando entra in vibrazione, sgorga ciò che chiamiamo la forza della mitopoiesi. Davanti a questo sguardo oscuro proveniente dalla profondità dell’essere nasce, come un lampo, il simbolo: l’immagine sensibile della verità spirituale, inattingibile dalla ragione.
So – ha concluso il mio amico – che esistono diversi modi di considerare simili questioni. E so che c’è un’altra maniera, del tutto legittima da un diverso punto di vista, di osservare la cosa, un atteggiamento che nel cinema vede solo un misero caos di desideri foraggiato dall’industria, l’onnipotenza della tecnica, il discredito dello spirito e una curiosità stantia da allettare con ogni mezzo. Mi sembra, però, che l’atmosfera del cinema sia l’unica in cui gli uomini del nostro tempo – quelli che formano la massa – entrino in una relazione assolutamente immediata e priva di inibizioni con un’immensa, anche se stranamente ridotta, eredità spirituale, una relazione della vita con la vita. Quello spazio zeppo e semibuio, con le immagini che luccicano via, è per me – non so esprimermi diversamente – degno quasi di un profondo rispetto. È il luogo dove le anime, in un oscuro impulso di conservazione, fuggono a rifugiarsi. Via dalla cifra, verso la visione.


* La ruota della vita era un giocattolo che, senza l’ausilio della proiezione, già sfruttava il principio del fotogramma cinematografico. Si osservava da una fessura un nastro circolante su cui erano riprodotte in singoli disegni le successive posizioni di una figura. Alla giusta velocità, questa sembrava muoversi. NDT