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La traduzione delle città
Nuove guide e demonumentalizzazione
mercoledì 30 marzo 2011, di
Il rapporto tra letteratura e turismo può essere indagato seguendo due direzioni complementari e tra loro opposte solo in apparenza. Seguendo la prima si potrebbe indagare come la letteratura ha letto e raccontato il turismo, dagli albori a oggi, ossia l’evoluzione dello sguardo degli scrittori su questo fenomeno culturale così paradigmatico per il nostro tempo. Ribaltando il vettore di influenza, il secondo versante di ricerca si proporrebbe di analizzare le modalità e le forme con cui è il turismo ad agire sulla letteratura. In questo secondo caso un ruolo chiave è giocato, evidentemente, dall’intermediazione tra autore e testo operata del mercato editoriale. Che il mercato agisca direttamente sulla letteratura è cosa nota almeno dai tempi di Baudelaire, quel Baudelaire che, come ha ben spiegato Walter Benjamin nelle famose pagine di Parco Centrale, è stato forse il primo ad avere l’idea di un’originalità “a norma di mercato” (1). Nel nostro caso, allora, la domanda va posta nei seguenti semplici termini: se il turismo ha influenzato il mercato editoriale, in che modo questa influenza si riflette sull’attività degli scrittori?
La risposta non può che articolarsi sul solco di numerose ramificazioni. Tanto per fare un esempio macroscopico, si pensi alla relativamente recente rinascita di un genere che sembrava quasi scomparso, quello del feuilleton. A differenza che nel XIX secolo, infatti, ai nostri giorni essi fanno la loro comparsa sui grandi quotidiani nazionali pressoché solo nel periodo estivo. Nel caso italiano, a dare nuovo lustro alla pubblicazione a puntate di romanzi

sulla stampa ad alta tiratura, ha contribuito in maniera determinante l’iniziativa del Corriere della Sera che, nell’estate del 1985 e in contemporanea con il Frankfurter Allgemeine Zeitung, pubblicò Il profumo di Patrick Süskind. L’operazione ebbe un tale successo da aprire un filone ininterrotto fino a oggi, e oramai diventato un tradizionale appuntamento estivo. Un caso esemplare, dunque, della diretta relazione che può intercorrere tra letteratura di consumo, richiesta editoriale e turismo.
– Ciò su cui ci interessa concentrare lo sguardo in questa occasione è un fenomeno ancora più recente che, in Italia, sta avendo una crescente diffusione, ossia quello che vede coinvolta un’intera generazione di giovani scrittori alle prese con guide d’autore di nuova concezione. Nuove guide, quindi, il cui verso è composto da ragioni editoriali (e quindi nasce in gran parte da “ragioni di mercato”), ma il cui recto è tessuto nella trama di genuine spinte creative.
Nuove guide: traduzioni d’autore
Oltre alle novità e alle evoluzioni delle guide turistiche tradizionali, l’acquisizione di consapevolezza da parte del soggetto-turista ha portato, con una tendenza ancora ampiamente in via di sviluppo e ben lungi dall’esaurire le proprie potenzialità, a un filone di proposte editoriali che è nuovo e antico al contempo: le guide d’autore. Riallacciandosi, pur nelle mille peculiarità differenti, ai resoconti di viaggio dei grandtouristi ottocenteschi, questo genere di pubblicazioni si discosta di molto dai reportage inchiesta di scrittori blasonati e d’impegno quali Moravia e Pasolini, che negli anni Sessanta avevano dato alle stampe testi di sicura rilevanza per l’epoca, ma senza dubbio rivolti a un pubblico piuttosto selezionato.
Un nuovo sguardo degli scrittori sul fenomeno, spia di un cambiamento importante dell’assimilazione del turismo da parte delle élites intellettuali, e allo stesso tempo una richiesta da parte del mondo editoriale, ha portato alla nascita di collane dedicate alla “traduzione delle città” da parte non di specialisti del settore (intendendo per “settore” un ambito dettagliato come magari le strutture ricettive o uno più ampio come quello del viaggio o dell’urbanistica), ma di scrittori senza nessuna competenza specifica di quella di abitare in una data città.
Abbiamo utilizzato la non consueta espressione “traduzione delle città”, ed è il caso di fare una breve premessa che ne giustifichi la pertinenza. Usando il termine traduzione in questo contesto non possiamo che fare allusione a quelle che Antoine Barman chiamava Théories généralisées de la traduction, avvicinandoci al contempo al concetto di “dution” esposto da Michel Serres. “Dution”, quindi, come nozione ampia in cui far rientrare ogni tipo di scambio e rappresentazione, di duplice rappresentazione di un identico (e ideale) dato del mondo. Antoine Barman (2) notava come, da Novalis a Gerorge Steiner, abbiamo assistito all’edificarsi di teorie nelle quali ogni tipo di scambio (change) o traslazione è interpretato come una traduzione, non soltanto nel dominio estetico, ma anche in quello delle scienze e, persino, dell’esperienza umana in generale. Troviamo una traccia di questa singolare estensione del concetto di traduzione anche nel concetto di traduzione intersemiotica proposto dalla linguistica strutturale ed esposto da Jakobson nei suoi fondanti Aspects linguistique de la traduction (3) . La traduzione intersemiotica, come si sa, è quella che passa da un sistema di segni all’altro (e l’esempio illustrativo più frequentemente citato è quello di un libro da cui viene tratto un film). Un particolare tipo di questo genere di traduzioni è l’ekfrasi, ossia il nome che i retori greci davano alla descrizione di un oggetto, di una persona, o all’esposizione circostanziata di un avvenimento in modo da creare un rapporto descrittivo tra segno linguistico e segno visivo. Ora, possiamo dire che una città sia, come luogo, un sistema di segni? Sì, nel momento in cui la intendiamo come un’isotopia, ossia, secondo la definizione classica di Greimas «un insieme di categorie semantiche ridondanti che rendono possibile la lettura uniforme di una storia». La città, inscritta in questo quadro di riferimenti, è anzi l’isotopia più caratteristica e tipica del mondo contemporaneo ultra-urbanizzato. Per fare solo un esempio tra gli innumerevoli, la prospettiva isotopica è quella adottata nelle celebri pagine di apertura di Berlin Alexanderplatz, il romanzo del 1929 di Alfred Doblin; ma più ancora che il resoconto finzionale romanzesco, il genere che più di ogni altro si confronta con una “fedele” traduzione isotopica delle città è senz’altro quello delle guide turistiche.
Risemantizzare: un primo compito delle nuove guide
Nell’ultimo decennio dal mercato editoriale italiano è emersa la domanda di un nuovo tipo di guide, guide in cui diventa cruciale, più ancora che il testo-città in sé e per sé, il personalissimo punto di vista del redattore-traduttore. Alcune case editrici, completamente estranee alle pubblicazioni del settore turistico, hanno quindi commissionato guide metropolitane a scrittori anche molto diversi tra loro, arrivando a inaugurare intere collane dedicate a questo specifico tema. Ecco quindi la collana Contromano della Laterza, editore che ha chiamato una ricca scuderia di autori contemporanei a descrivere le proprie città ad usum del turista, intendendo in questo caso anche il turista autoctono, il locale che si interessa come per la prima volta al proprio territorio. Tra i numerosi autori delle ultime generazioni che hanno risposto a questo appello ci sono, tra gli altri, Emanuele Trevi con Senza verso. Un’estate a Roma, Elena Stancanelli con Firenze da piccola, Aldo Nove con Milano non è Milano, Roberto Alaymo con Palermo è una cipolla, Giuseppe Culicchia con Torino è casa mia, Antonella Cilento con Napoli sul mare luccica, Paolo Nori con Siam poi gente delicata. Bologna Parma novanta chilometri o Mauro Covacich con Trieste sottosopra. Quindici passeggiate nella città del vento.
Che cosa si richiede, dunque, a questi traduttori di isotopie urbane, e quali sono le caratteristiche peculiari che distinguono i loro testi dalle guide più tradizionali o dai classici reportage d’autore?
Una primissima risposta è rintracciabile nell’approccio scelto da Tiziano Scarpa, colui che può essere considerato il capostipite di questo nuovo genere. Infatti è stato Scarpa, tra i più rappresentativi degli scrittori italiani nati dopo il 1960, ad aver aperto la strada con Venezia è un pesce (4), una guida della sua

città natale che gli fu commissionata nel 2000. Nel testo Scarpa si indirizza espressamente a una visitatrice della città lagunare che volesse vedere luoghi meno battuti dai consueti giri turistici e, di conseguenza, più autentici e attuali. Non si tratta più, quindi, dell’individuazione di un locus amenus considerato esclusivo, né della ricerca del particolare prezioso e raro del viaggiatore erudito, ma di una fuga da tutti quegli elementi artefatti, arcinoti e stanchi che il turismo di massa ha depotenziato della loro portata di esotismo. Non un reportage, ma neanche una vera e propria guida nell’accezione tradizionale (di cui mancano anche le consuete appendici, come indirizzari e informazioni turistiche varie), il percorso proposto da Scarpa non è nemmeno, a differenza di quello di Bruce Chatwin che in Italia ha riscosso un enorme successo, un viaggio solitario e avventuroso tra le mille insidie di un mondo lontano e incontaminato. Si tratta bensì di un itinerario nella città simbolo del turismo occidentale svolto tentando di “uscire dal museo” (Scarpa, p.96) senza pagare pedaggi a una bellezza monumentale oramai abbondantemente cristallizzata nelle innumerevoli rappresentazioni e quindi, in ultima analisi, soffocata nel proprio mito.
L’operazione ha almeno un altro noto precedente, ossia la Guida sentimentale di Venezia di Diego Valeri, (1942) che però prendeva come referente un lettore più colto ed avvertito. Quelle di Valeri sono divagazioni che ricordano più la Venezia colta di Ruskin o quella narrata nella Recherche proustiana, che non le considerazioni pop-poetiche di Scarpa. In un certo senso, la Venezia di Scarpa è invece debitrice, sotto il profilo culturologico, dell’antropologia urbana del Marc Augé di Un etnologo nel metrò. Nel momento in cui l’antropologia ormai da anni lavora su di noi, è il “qui e ora” che ha bisogno di essere spiegato, e questo semplice esposto ci conduce a una prima parziale risposta. Se le “nuove guide” sono affidate a scrittori è per rispondere a un’esigenza particolare: quella di una rivalorizzazione dei luoghi, di una risemiotizzazione di ciò che, nell’eccesso di stimoli informativi, sembra aver perduto di significato.
Particolarmente interessanti, tra i vari testi già citati, sono i casi limite della guida di Milano (alla quale attingeremo per estrapolare la maggior parte degli esempi testuali) e di quella, già citata, veneziana. Perché Milano e Venezia come simbolo di questa nuova percezione della città da parte degli scrittori italiani? Perché la prima è una metropoli moderna per antonomasia, attiva, famosa più che altro per la sua capacità di stare al passo coi tempi e di dettare la tabella di marcia all’intero pianeta in alcuni settori chiave come la moda e il commercio, e l’altra è, al contrario, la città simbolo del turismo, la città monumento, ripiegata sulla propria bellezza incantatoria vissuta come una dannazione.
Una rapida analisi d’insieme di alcuni dei libri citati mostrerà che le più interessanti caratteristiche comuni a queste nuove guide, dagli autori così diversi tra loro, sono essenzialmente due: innanzitutto una presa di distanza dalla guida tradizionale, senz’altro per marcare uno scarto autoriale rispetto a un sotto-genere antiletterario; e poi la necessità di operare una traduzione che depotenzi i monumenti della città di volta in volta in questione del loro portato simbolico, per operare una sorta di tabula rasa allegorica sopra cui ricostruire un immaginario nuovo.
Il primo di questi movimenti caratterizzanti si attua il più delle volte attraverso l’efficacissimo strumento dell’ironia, e vediamo subito perché.
L’ironia: Cette guide n’est pas un guide
Naturalmente una delle differenze più macroscopiche tra questi percorsi metropolitani d’autore e le guide classiche consiste nel fatto che i primi non hanno alcuna valenza realmente promozionale. Gli autori si possono dunque permettere la libertà di parlare male o malissimo dei luoghi che descrivono, poiché ciò che conta è il loro sguardo affilato sullo spazio, la loro capacità di risemantizzare un luogo anche attraverso visioni distopiche. La Roma descritta da Trevi è avvolta in un caldo opprimente, la Bari di Carofiglio è sì un luogo dell’anima, ma anche un ovile da cui è quasi inevitabile fuggire, la macrocittà emiliana di Nori (i novanta chilometri sulla via Emilia che infilano una dopo l’altra Bologna, Modena, Reggio Emilia e Parma) è dispersiva, alcuni edifici della Milano descritta da Nove sono lapidariamente definiti “orrendi”, la descrizione della Palermo di Alaimo è tutta protesa a fare i conti (talvolta smentendoli, più di rado confermandoli, ma ad ogni modo ricordandoli ed esponendoli sempre) con i luoghi comuni negativi che macchiano la reputazione della città, e così via. Se questa indagine non si limitasse all’analisi delle pseudoguide laterziane, allora si potrebbero dedicare considerazioni pertinenti alle distopie urbane messe in scena da narratori italiani contemporanei della stessa generazione di quelli presi in esame, come ad esempio Tommaso Pincio che in Cinacittà (2008) racconta di una Roma futuribile quasi in tutto e per tutto identica a quella attuale, se non fosse che si trova popolata pressoché esclusivamente da cinesi, al punto che il protagonista può definirsi, parafrasando il celebre romanzo di Cooper, “l’ultimo dei romani”.
L’ironia nei confronti del “sistema guida” tradizionale coinvolge anche la lettura pedissequa delle guide stesse, l’incapacità di vivere i luoghi per quello che realmente sono e non per quello che si suppone che siano basandosi su autorità pregresse, su indicazioni turistiche standardizzate. Si prenda come esempio questo breve stralcio di Aldo Nove

a proposito del Pirellone, il principale grattacielo di Milano situato nella piazza antistante alla monumentale Stazione Centrale: “L’altro idolo (in senso architettonico) di piazza Duca D’Aosta è il Pirellone. I giapponesi quando lo vedono fanno la ola. A Tokyo c’è di molto meglio. Ma sulla guida turistica giapponese c’è scritto che bisogna fare la ola e loro la fanno quando vedono il Pirellone.”
Indugiamo ancora sul caso esemplare della guida milanese. Aldo Nove vi presenta tutti i dati caratteristici della più tradizionale delle guide, ma lo fa in maniera parossistica, scolastica, e quindi iperbolica. È in questa ostentata esagerazione che si legge lo scarto dell’ironia, la presa di distanza dal modello tradizionale attuata, paradossalmente, mentre vi si avvicina il più possibile. Nello stesso tempo, Nove attua anche una critica alla società informativa, alla de-spazializzazione dei luoghi che si verifica nella riduzione a semplice dato, a k-byte, della concretezza del reale: ecco allora che all’inizio della sua presentazione di Milano, Nove avverte: “Hai voglia a dire Milano, Milano. Hai voglia a scrivere Milano, Milano. Bisogna prima intendersi bene. Capire di cosa stiamo parlando. Di cosa stiamo scrivendo.” E questa premessa la propria giustificazione trova a un primo livello basilare, quello dell’equivoco. Continua infatti Nove: “Internet a proposito può essere fuorviante. Se cerchiamo informazioni su Milano attraverso un motore di ricerca troviamo moltissimi siti. A volte subito. A volte dopo un po’ di attesa. Dipende dalla connessione. Alcuni dei siti su Milano sono a carattere pornografico, e sono dedicati ad Alyssa Milano, che non è città ma è una donna. Un’attrice (non porno)”. Questa divagazione non è casuale, ma rappresenta anzi l’essenza stessa del percorso di Nove: aggirare il modello della guida, perdersi in derive psicogeografiche che corrispondono alla peregrinazioni aleatorie del flaneur: un semplice caso di omonimia, assolutamente incongruo rispetto al supposto tema del libro (la committenza, appunto, di una guida sulla città di Milano), viene raccolto ed ampliato, diventa testo. E infatti le pagine successive a quelle citate danno informazioni su questa attrice la cui fama più o meno effimera si accavalla, in rete, alla millenaria storia del capoluogo lombardo. Basta aver avuto successo in una serie televisiva, sembra dirci Nove, affinché la confusa orizzontalità del carico informativo di internet (con la sua tipica deformazione derivata da un appiattimento sul presente) porti il turista virtuale di Milano ad ammirare le grazie di una donna piuttosto che quelle dei monumenti più celebri e celebrati della città di Milano. E se così stanno le cose nel mondo, allora Nove non si tira indietro, e le riproduce nel suo testo. Ecco un elemento di traducibilità dell’isotopia cittadina. Ma prima o poi la guida, in sé e per sé e come la conosciamo, cessa di essere aggirabile: bisogna arrivare ai dati, alle informazioni, anche nude e crude. E allora Nove, scimmiottando uno scolaro diligente che sia stato rimproverato per la sua disattenzione, torna a fare i compiti:
Abbandonata Alyssa, a cui auguriamo sempre più grandi successi e un uso meno scriteriato della sua avvenenza sulla Rete, occupiamoci adesso della nostra Milano. Proprio a livello scolastico. Ripassiamo la lezione. Stabiliamo i parametri. Facciamo le cose per bene. Sennò non si capisce più niente. Perché bisogna sapere di cosa si parla. Allora. Milano è in Lombardia […].
Ancora più radicale, per certi versi, la versione di Paolo Nori di un identico meccanismo di aggiramento del concetto di Guida. Scrive Nori:
Che va be’ che questa è una guida di Bologna, però chi può escludere che a qualcuno che sta visitando Bologna non gli possa succedere improvvisamente di dover andare a Genova. Nessuno può escluderlo. Allora se uno una cosa del genere gli succede per davvero, avere una guida di Bologna che parla anche di Genova può essere solo un vantaggio. (p. 112)
E con queste premesse iniziano una serie di paragrafi sul capoluogo ligure, rivelando in maniera macroscopica l’intenzione di seguire, come unico filo rosso spaziale, non un luogo definito e dai perimetri tutto sommato abbastanza stabiliti come quelli di una città, ma gli spostamenti dell’io narrante, l’autore.
C’è un autoammonimento di Nove che esplicita la sua volontà di cedere alle contraintes della committenza e allo stesso tempo smentisce intimamente questa stessa volontà: “Essendo questa una sorta di “guida” a Milano, presumo che debba smetterla con i ricordi personali e parlare di Milano oggi. Sempre tenendo presente la provvisorietà di questo oggi, in questo momento che non è quasi mai dato. (p. 22)”. Le digressioni sono nuovamente dietro l’angolo, come il flaneur che, pur avendo un appuntamento in un luogo dalle precise coordinate spaziotemporali (mettiamo: alla piazza del municipio alle quattro del pomeriggio) si abbandoni alla tentazione di un portone dischiuso ed entri in cortile sconosciuto, seguendo il filo delle suggestioni, incurante e al contempo inconsapevole dell’inevitabile ritardo che questa gita improvvisata comporterà sulla propria tabella di marcia. E infatti Nove, puntualmente, continua: “Prima, però, ho bisogno di condividere con chi legge un altro ricordo…” (p. 22), frase a cui seguono molti paragrafi di stampo squisitamente memorialistico.
La demonumentalizzazione
Il contesto culturale contemporaneo sembra portare questa generazione di giovani scrittori a perdere ogni interesse nei confronti dell’immutabilità nel tempo dei monumenti tradizionali. Si tratta di un dato comune a tutti, che si può leggere in sottotraccia anche quando non esplicitato. Nei testi letterari, ogni traduttore testimonia con la propria traduzione il modo in cui ha letto il testo di partenza. In particolare, ad emergere è l’ordine gerarchico con il quale il traduttore sceglie di disporre i differenti elementi compositivi del testo: in un caso potrà essere privilegiata la fedeltà filologica, in un altro il mantenimento di una certa sonorità o, ad esempio, di una struttura ritmico-metrica, anche a discapito di un’indiscutibile aderenza semantica. L’individuazione di particolari criteri di lettura è possibile anche nelle nostre traduzioni intersemiotiche, che sembrano concentrare l’attenzione in particolare sulla maggiore o minore capacità di trasformarsi delle loro città-testo. Il criterio spaziale non è inteso rigidamente, fissato una volta per tutte (come ad esempio nell’ekfrasi tradizionale), ma viene narrativizzato all’interno di un contesto umano in cui gli spazi seguono il ritmo di sistole e diastole dei battiti del cuore dei suoi abitanti.
Restiamo con lo sguardo sul caso più eclatante, nella nostra cerchia di autori. Aldo Nove sin dal titolo della sua guida precipita nel cuore della questione: Milano non è Milano perché “Non è possibile andare a Milano due volte” (p. 13). Ma se Milano non è Milano, allora anche i suoi simboli non possono che essere effimeri, segnali intermittenti di una città in cui l’essere in perenne evoluzione è, se non la sola, la più forte delle dimensioni realmente identitarie. E infatti le mura della città sono tappezzate da grandi pubblicità che ne diventano un elemento marcante, senza che nessuna di loro resista invariata per decenni o persino per mesi. “Perdura lo spazio, ma l’immagine non dura (pp. 28-29)”. Lo spazio diventa, così, contenitore dell’evolutività temporale. E in questo caso, perfino il plurisecolare Duomo, monumento simbolo della città, diventa per una volta degno rappresentate della metropoli in cui campeggia, proprio in virtù del fatto che esso non è mai lo stesso, sempre oggetto di lavori di restauro e coperto almeno parzialmente da impalcature che ne impediscono una visione totale degli esterni. Come a dire: il Duomo è Milano non tanto per il banale processo di riduzione metonimica che vuole che una città sia immediatamente riconoscibile nell’effige del suo simbolo più noto e significativo, ma perché esso è un monumento cangiante e mutevole, inafferrabile nella sua interezza come la città che rappresenta. E infatti il tempio monumentalizzato ha perso anche il suo valore di punto di riferimento urbanistico. Come luogo deputato per i loro appuntamenti “in centro”, i giovani hanno oramai sostituito il «tradizionale ma fuori moda “sagrato del Duomo”» (p. 76) con l’entrata di un famoso centro commerciale (5) .
Ed ecco finalmente come viene narrata la visita al monumento simbolo della città: c’è dapprima la tensione dell’evento, l’orizzonte di aspettativa creato dalla fama del monumento mentre l’autore, da bambino, si avvicina, dalla provincia, alla grande piazza metropolitana in una gita con il padre:
Io da bambino sapevo che c’era questa piazza famosa in tutto il mondo e che era il cuore di Milano che era il cuore della Lombardia. Ci siamo arrivati in metropolitana e per tutto il tragitto pensavo come sarà, questa Piazza Duomo. Era dicembre, aveva appena nevicato e faceva freddo. Un freddo pungente. Un freddo immediatamente svanito di fronte a uno degli spettacoli più belli che avessi mai visto nella mia vita. (p. 23)
Nove continua elencando tutta una serie di oggetti ed eventi che, trasfigurati dal ricordo, si conquistano una loro legittimità nel novero delle cose che, “nel 1974, avevo già visto (p. 23) […], ma nessuna bella come questa. Che ho visto quella volta. Che ero in piazza Duomo.” Il lettore che si ponesse al di fuori di quella deformazione ironica che abbiamo già visto essere caratterizzante di tutto questo processo di aggiramento demonumentalizzante, si troverebbe spiazzato dal prosieguo del testo, che così recita:
E non c’entrava niente con il Duomo. Ma era dall’altra parte della piazza. Dove in un trionfo di luci al neon una dattilografa di luce batteva a macchina. Come di fronte a un videogioco grande due volte una casa normale. Una donna gigante di luce. In una città su una parete di luce. Decine di pubblicità. Un bombardamento di colori. Il Duomo, la chiesa, dall’altra parte, non l’avevo proprio visto. (p. 23)
L’episodio parla da solo. Queste nuove guide non hanno più una funzione prevalentemente “informativa”, e anzi si sottraggono spesso al puro esercizio di accumulo di meri dati, d’altronde sempre più facilmente reperibili. Esse si propongono piuttosto come la testimonianza di lettura del testo isotopico cittadino da parte di traduttori del paesaggio urbano. Il loro intento, più o meno esplicito, non è quello di accompagnare il lettore-turista nella visita al monumento principale di una qualsiasi cittadina, fosse anche la propria, ma spingerlo a guardare di fianco al monumento stesso e cogliere, magari col brivido di un esotismo tutto intellettuale, lo scorcio finalmente inatteso. Il turismo d’autore, come genere letterario, si pone quindi come fertile territorio di riscoperta di luoghi già visitati, affidando alla penetrazione e alla colta curiosità dell’autore gli scarti di lato dall’immaginario massificato proposto dai tour operator tradizionali. Un atteggiamento, questo, che ricalca in parte la curiosa creatività del flaneur di stampo ottocentesco, à la Baudelaire, appunto. Ma vi è una differenza sostanziale, ed è data proprio dalla committenza editoriale (e quindi, ancora, dall’intervento del mercato). Un flaneur come Baudelaire, infatti, non aveva alcuna intenzione di condividere la propria esperienza dello spazio, ma cercava semmai di vivere con intensità una personale febbre di stimoli anche a livello di percezioni in un sistema di segni non isotopico. Cioè l’esatto contrario del turista-lettore che deve combattere la sensazione di essere calato nel torpore cittadino al punto di essersi abituato fino alla insensibilità all’uniformità isotopica.
Ecco che assestiamo a quello che, usando due aggettivi cari al filosofo americano

Richard Rorty, può essere considerato un adattamento ironico e contingente dello straniamento di Skloskvij. Italo Calvino aveva compiuto lo stesso gesto con Marcovaldo, “turista nella sua stessa città”, ma applicandolo su uno spazio immaginario privo di un referente preciso, e quindi senza nessuna reale pretesa di fungere da “guida” di alcuna città. Qui invece ci troviamo davanti al paradosso di guide che possono essere lette da chi non ha nessuna intenzione (o è impossibilitato) di visitare le città che vi sono descritte. Sono quindi strumenti che non hanno bisogno di essere accompagnate dal testo a fronte del paesaggio cittadino. Come un lettore che non conosca il russo può accedere alla lettura di Delitto e castigo, grazie, appunto, all’intermediazione di una buona traduzione.
Note
1. Cfr. Benjamin, “Parco centrale” p. 133, Angelus Novus, Einaudi.
2. A. Berman, L’épreuve de l’étranger, cit. p. 292.
3. Roman Jakobson, Essais de linguistique générale, Editions de Minuit, Paris 1963, tr. it. di Luigi Heilmann e Letizia Grassi, Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 1966; cfr. in particolare il saggio Aspetti linguistici della traduzione, pp. 56-64 dell’edizione italiana (I ed. UE Feltrinelli “Saggi”) 2002.
4. In francia edito col titolo Venise est un poisson, Bourgois 2002 e, come in italiano, con la dicitura “une guide” a fungere da sottotitolo. La versione americana dà invece un’indicazione aggiuntiva e scrive: “A sensual guide”.
5. Ed è curioso che già oggi sullo spazio occupato dal Virgin Megastore, indicato da Aldo Nove nel suo testo, si erga il grande centro multimediale della Mondadori: il ché, d’altronde, non fa che confermare la tesi stessa sostenuta da Nove: Milano non è Milano.
Questo articolo è la versione italiana di una conferenza pronunciata all’università di Limoges per un pubblico essenzialmente francese. Il testo originale francese è pubblicato in Westphal B. - Flabbi L., Espaces, tourismes, esthétiques, Pulim, Limoges 2010 alle pp. 115-127.