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Niente romanzi, siamo solo scrittori
giovedì 10 novembre 2011, di
Luca Arnaudo, Miradar, piccolo libro di luoghi, dubbi e amici, pp. 113, ed. Il Bulino, s.i.p., 2011.
Matteo Marchesini, Bologna in corsivo, una città fatta a pezzi, pp. 150, Pendragon, 13 euro, 2011.
Vuoi essere scrittore? Vuoi essere considerato scrittore? E allora devi scrivere un romanzo. Per centrare l’obiettivo, potresti anche dover sottoporti alla più crudele ed inutile delle torture, come sarebbe la partecipazione ad un corso di scrittura creativa, ma alla fine non hai scampo: devi buttarti a capofitto e scrivere un romanzo. E’ una faccenda strana: ti costringe in primo luogo a denunciare, a rivelare la tua nazionalità o almeno le tue origini etnico-culturali. Nell’era della globalizzazione, poche cose come il romanzo sono rimaste a testimoniare il persistere dei localismi: un romanzo americano, anche quando non sia il sempre atteso Grande Romanzo Americano, lo riconosci dalle prime righe; e così un romanzo latinoamericano, o uno francese. Ci sono case editrici specializzate nel romanzo svedese, oggi di moda, o nel romanzo israeliano. Basta scegliere. Anche il recente romanzo italiano ha una sua peculiarità: almeno a nostra conoscenza, non ce n’è nessuno, o quasi, leggibile.
Un letterato potrà anche scrivere poesia. Ma il genere è inflazionato, lo frequentano professori in pensione, immaturi studenti, provinciali Bovary. La saggistica resta un genere depresso, sui quotidiani c’è solo roba di second’ordine, tirata giù in fretta, non ci sono più gli impareggiabili Macchia, Praz, Zolla, saggisti-cult. Assolutamente fuori mercato la prosa d’arte: sparita dai quotidiani la famigerata “terza pagina”, il genere non ha spazi per esibirsi. Quando ancora non c’era la TV, rappresentava l’indispensabile risorsa economica dello scrittore, per tirare avanti; ma da tempo era un genere indicato a dito, disprezzato come un fenomeno di escapism, di fuga dalla realtà da parte di letterati crogiolatisi sotto il fascismo. Le divaganti “Corse al trotto” o i “Pesci rossi” di Emilio Cecchi, o anche le sempre godibili prove stilistiche di Ugo Ojetti, restano negli scaffali, coperte di polvere.
Così, oggi, con gran piacere leggiamo le prose di due giovani che si cimentano, un po’ schivi, nell’esercizio di una scrittura senza etichetta, forse sul versante della memoria, forse dell’incisione sottile, direi alla Morandi: Luca Arnaudo e Matteo Marchesini. Arnaudo (Miradar, piccolo libro di luoghi, dubbi e amici, pagg. 113, ed. Il Bulino, 2011) è un critico, esperto di arte contemporanea, la frequentazione intima di pittori, artisti, ispira buona parte di queste pagine poste sotto l’egida di una epigrafe da Jacques Brosse:
“…ci incamminiamo. Il problema fondamentale resterà nondimento lo stesso, poˆiché sempre ci imbatteremo nell’inesprimibile”.
Minimalismo, come avverte anche il sottotitolo: “piccolo libro di luoghi, dubbi ed amici”. Ma non sono prose d’arte, le tiene insieme una precisa vena di memoria visiva che dà loro un tono narrativo continuo, le colloca accanto alle prove più schiettamente narrative che Arnaudo ha nel suo bagaglio (Sic transit, racconti, Nerosubianco, 2009, Esperipenti, un’altra raccolta di racconti il cui titolo gioca con un termine italiano e uno spagnolo, Nerosubianco, 2007). Del resto, la location di queste pagine - con piccole parentesi di

raffinati viaggi, tra Amburgo, Kairouan, Belgrado, le Asturie - è unitaria, si aggira dentro un breve periplo campestre della Sabina, in prossimità di Rieti e in vista del Soratte caro a Orazio, che proprio da queste parti - sostiene Arnaudo, in polemica con l’accademia che la individua più in là, a qualche distanza - aveva la celebre villa donatagli da Mecenate. Al centro di questo paesaggio, una “vecchia casa...circondata dagli ulivi e da un silenzio pieno di rumori animali”: un buen retiro reso felice e accogliente dalla presenza di libri e quadri (quadri di amici, Aldo, Ono, Gustavo…) attorno ai quali l’autore sdipana “qualche nota intorno ad alcuni movimenti trascorsi”, lasciandosi “portare alla deriva” in un “moto da fermo, seduto al tavolo dello studio”, per “ragionare ancora un poco sui rapporti possibili tra storia, arte, natura”. In questa sorta di “Voyage autour de ma chambre”, la primissima pagina è uno splendido paesaggio di timbro verista ottocentesco (ma le nuvole, mi pare di poter dire, sono quelle, pesanti, di Constable), le successive esplorano una natura semplice, rustica, e tuttavia densa della storia che vi si è stratificata: “Un amico (…) ha posato sul tavolo, tra gli ortaggi raccolti nell’orto, una piccola testa femminile scolpita nel marmo. Il naso rotto, i capelli raccolti in un treccia lavorata da un trapano delicato, il profilo matronale reso meno austero dalla fragilità di un taglio netto occorso sotto il mento, il volto della statua è rimasto a fissarci in silenzio, serenamente pallido, la fronte attraversata solo da un’ombra di cupezza, di umidità penetrata dalla terra nella pietra”. Se il passato, la storia, si insinua fin dentro la natura, nella cui eternità pare pietrificarsi anche il presente, la riflessione dell’autore è tutta nello scavo, nel tentativo di definizione del moderno, della modernità dei linguaggi artistici, nei quali il presente si fissa non meno che nell’eternità della pietra. “Questo libro erra”, ma alla fine di tanti percorsi “scarta e recupera, come del resto chi lo scrive”.
Matteo Marchesini è invece scrittore in proprio. Ha a suo carico anche poesie (Marcia nuziale, 1999-2007, Libri Scheiwiller, 2009) ma qui ci occuperemo di un compatto libro di prose, una raccolta di corsivi e “ritratti” (2007-2010) per le pagine bolognesi de “Il Corriere della Sera” (Bologna in corsivo, una città fatta a pezzi, Pendragon, pagg. 150, 13 euro, 2011). Scherzando e ironizzando, nel “Preludio” ci trascrive quello che asserisce sia stato un suo sogno: nel quale lui buttava giù un “apocrifo” delle Città Invisibili di Italo Calvino, intervenuto in quell’immaginazione onirica per rimbrottarlo, anzi “perseguitarlo”: “[…] dove le piane del frumento s’increspano su morbidi dorsi boschivi, fronteggerai Bu Lagna, città che svela nel nome la vocazione al cahier de doléance”. E, insomma, “Bu Lagna

suggerisce ad ogni scorcio ciò che poteva essere e non è stata, o non è più: un porto, una metropoli affacciata sui boulevard dai trampoli di alti torrioni, un museo pedonale, una somma università, una comune, un enorme tempio. Non è nessuna di queste cose”. Ma non immaginatevi che Marchesini indugi sulla cartolina, sul quadretto di genere: no, le sue prose sono aggressive, sono schizzi di cui Bologna è solo la cornice, anche se non inerte:
Quando la città cambia fisicamente, la memoria dei suoi vecchi contorni si dissolve in fretta. Chi ricorda più com’era, solo pochi anni fa, la zona fuori porta Mascarella? Il Livello 57 s’illuminava ancora sui binari; e all’altezza di Via del Lavoro, molti edifici che ora otturano il paesaggio esistevano solo sulla carta. Mentre borgo Masini s’alzava arrogante verso il cielo, il ponte di Stalingrado sprofondò…
Certi bozzetti di Marchesini si dilatano in “racconti in venti righe” (“Cambio vita” e “Un soldato a San Petronio”), in evocazioni culturali (“Fumetti e Marinetti”), o esplodono in una vigorosa polemica culturale che gli è forse nel sangue (“Il luna park della cultura”, “Sanguineti überall”).
Le pagine dei due scrittori sono destinate ad essere, temiamo, scritture invisibili, inaccessibili per un pubblico che pure, se potesse scorrerle, ne godrebbe. Si capisce: sono giovani, hanno sbagliato le loro scelte esistenziali ed artistiche. Per essere presi in considerazione, avrebbero dovuto anche loro scrivere romanzi.