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“Le parole non sono per chi non c’è più”
Appunti da una letta di "Tersa morte" di Mario Benedetti
giovedì 13 febbraio 2014, di
“Io sono morta di lunedì”, dice la madre del poeta, in una sorta di crasi fra un mersaultiano “Lunedì mia madre è morta” e un marinomorettiano “Piove, è lunedì, sono morta”.
Tirate fuori i cornetti: ecco un gran bel libro sulla morte! Una morte semplice, semplice come un quadro di Matisse (di quelli che ti fanno dire: Com’è che il mio nipotino di cinque anni non lo sa fare? ché sarebbe meraviglioso!), come può essere “semplice” il vetro di una finestra (se alle elementari ho studiato bene i fenici, ci vuole una sabbia speciale, e bisogna saperlo fare!), una Tersa morte.
Dopo i versicoli dell’ultimo Beckett non ho ben chiaro cos’altro si possa non dire sull’inesistenza, ma il nostro Mario Benedetti riesce a non dirlo, e a dirlo. Ho trovato il suo libro in una libreria di Taranto. Anni fa mi ero letto Umana gloria, e se ho distinto il ricordo (per dirla con Flabbi e con il termine consueto della nostra critica) di una “voce”, le parole, richiamate, non hanno risposto all’appello. La memorabilità è una condizione empirica a dispetto di qualsiasi imperativo morale sul valore, ma il discorso sarebbe lungo (lo farò?) e tanto vale che rimandi al Della gloria di Leopardi, tanto più che questi nuovi versi hanno di leopardiano l’essere spesso (pur nel modo franto che ci ha insegnato il Novecento) riflessioni da prosa in versi, roba che non avremmo il “coraggio” di dire (o roba che non avrebbe la “vaghezza” per essere detta) se non grazie, in senso lato, al metro (l’Infinito è l’esplorazione di un campo semantico in cui un ulisse romanticheggiante sarebbe amaramente naufragato): versi non di rado gnomici (e con qualche caduta nel saputo) che promettono di durare, nella memorabilità fisica nostra ed etica postera.
“Anni che non dovrebbero più, ore che non dovrebbero” comincia (bene), sospeso come un passo, prima dello sgambettamento in anacoluto del secondo verso. E non so perché non dovrei dire che Mario sta per morire, davvero (ma non è vero finché non è vero, e viva le bugie), da un sacco di anni (lo vidi l’ultima volta credo nel 2007 e mi disse

che gli avevano dato un massimo di dieci anni: dove sono quei benedetti cornetti?). “Anni che non dovrebbero più, ore che non dovrebbero” mai proseguire nelle successive e ineluttabilmente ultime. Ma “È una storia per tutti questa morte”, non lo dice Narciso, lo dice Thanatos.
Come si capisce che una raccolta è una gran raccolta? Saperlo! Ma un modo fra tanti può essere vedere cosa vogliono dire le solite parole. Mare. Il mare è quell’inutile plaga salata che quelli che gli piace dicono che loro sono liberi e gli altri no. Qui, “Il mare non è l’acqua dello stare qui”. Nella poesia esordiale “il tempo portato addosso” viene definito un “sosia”. In un’altra “il sosia ripete le onde del mare”. Insomma, per così dire (e lo diciamo noi con le parole sue), il tempo portato addosso ripete le onde dell’acqua del non stare qui. Tre componimenti, due e mezzo toh, e un parolone grosso e profondo come il mare è riconnotato. È una gran raccolta.
Cos’altro? Molto. A partire dalla dichiarazione di non poetica, sospesa fra la litote, un pudore splendidamente neocorazziniano, e l’incombere a trecentosessanta gradi dell’innominabile:
Ma io nella mia vita non ho scritto nessuna poesia,
io nella mia vita non ho letto nessuna poesia.
E questa nessuno l’ha scritta, nessuno l’ha letta.
E lo dice la madre, o un io parlante a caso, o lui, il sosia, il tempo portato addosso, o qualche morto in un’incerta prosopopea, in una delle tante dichiarazioni di inesistenza per interposta persona che qui leggiamo.
Non mancano gli arredi anche convenzionalmente macabri (“il bacio dei denti senza labbra”), più d’un ben giocato richiamo pavesiano (“Verrà la neve, guarderò/ coprire i tetti delle tombe”) e qualche simpatico tocco alla Sclavi (“dal cimitero dei cani/ vicino alla discarica di Limbiate escono i morti al guinzaglio”, che sa di Buffalora e di Dellamorte Dellamore) a latere di un tema principale che è un “il faut vivre” alla potenza, potenziato cioè dal fatto che il dover morire mette in risalto l’obbligatorietà (eh sic!) dell’esistere: “Va avanti fidandosi il corpo cieco e obbligato a stare” (“il mio corpo di adesso”) in un “gioco, felice/ e macabro che non puoi non giocare”; è “un testardo sentire obbligato./ Futilmente presente è la parola, anche questo dire”. Le parole leggere (per quanto sature e satolle) dell’ultimo Montale dicono: “Che stiamo a farci?” Ma qua siamo noi a dirlo:
Non saprai di essere morto,
non sarai, quel nulla che nella vita diciamo
non sarai, non ci sarai più, non saprai di te.
Perfetta assenza. Non distrarti, non eludere
la pura inconcepibile assenza, non distrarti.
Perché non dovremmo distrarci? Bella domanda, domanda bella. “E io dico accorgetevi, non abbiate solo vent’anni”. Perché non dovremmo avere solo vent’anni? Solo perché non li abbiamo più? “Sei solo stanco ripete una voce qualunque”.
È un libro pieno di bei versi. Ce ne sono anche del ’77, in un altro stile, più grezzo, più ostentatamente ellittico, meno necessari. Ci sono anche delle prosette, che mi han lasciato un po’ perplesso (come spesso mi accade con quel tipo prosette però, va detto). E poi qualche topografismo un po’ facile e aneddotico (niente che guasti, beninteso).
E poi, in disordine:
Bella la presenza, rada, dell’infanzia: la bambina “Gioca con quelli che diventeranno i suoi ricordi”; “tanti cuccioli di cagne e mucche insieme ai vitelli/ che dormono come i bambini” (un richiamo a una classica ninna nanna).
Carini i brevi stralci diareschi: “Giocato a carte nel bar del paese. Non visto il due”.
E alcune fanopee esplicite: “dalla mascella al braccio fino alla mano/ il vai e vieni indolenzito e attento che cede/ a un campo visivo e poi a un altro:”
Ma soprattutto la ”cosità” (“cosalità” è un’altra cosa, “reità” sa di colpevolezza, vabbè) del morituro che non sta a cerimoniosamente salutare: “una cosa/ (…) senza la forma che hanno i tavoli// (…) eri uno che è morto”; “Le flebo di morfina/ erano per la cosa che non sentiva niente”; di una bellezza paragonabile alla famosa poesia in cui Sereni rientra a casa alle sei di mattina e scopre di essere morto (o giù di lì). E bella la madre ridotta a sineddoche: “Il vestito sepolto” (dopo si verrà a sapere che glielo aveva regalato lui); “Ero una cosa vestita…”; “Adesso le cose sono sole/ non c’è la promessa del tuo svegliarti”.
Prima della scritta che dice Fine (e del finale anche quello paveseggiante) e dell’”Ade che non c’è”, c’è ancora da segnalare perlomeno che le rime son così rare da emozionare e che le vite sono forse “interezze create continuamente”. “Dopo la scritta che dice Fine” invece non potremo più nemmeno
dire dei morti come se fossero
ancora vivi, come è necessario
sorridere quando si è in compagnia.
Bello. Bravo.