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A che punto è l’attore #1

L’attore novecentesco e l’integrazione tra corpo e mente

domenica 20 luglio 2003, di Simone Vergani

La mancanza di naturalezza e di sincerità espressiva, le difficoltà degli attori nell’eseguire azioni "reali" e "credibili", sono problemi osservati da molti maestri del primo teatro di regia. Oltre a ciò alcuni di loro individuarono, come causa originaria di questi problemi e propria dell’essere umano moderno, la mancanza di una corretta integrazione fra le capacità psichiche e mentali con quelle fisiche e motorie.

Una prima ricognizione, da Stanislavskij a Bene, sulla tensione verso un’integrità psicofisica dell’attore.

Simone Vergani è laureato in drammaturgia al DAMS di Bologna con una tesi sull’attore nel tempo originario della regia.
(lf)

In alcune sperimentazioni teatrali del Novecento, emerge una questione che accosta le ricerche artistiche, in particolare quelle sulla performance dell’attore, ad una nuova visione dell’essere umano: si tratta di un rinnovato pensiero sull’antica idea, propria anche della tradizione cristiana, che pensa l’uomo come essere costituito dalla polarità corpo/anima ed ora osservato, invece, nella possibile unione del corpo e della mente; se l’idea tradizionale privilegiava una visione antagonista e oppositiva dei due costituenti, (in cui l’anima si intende come comprensiva anche delle facoltà mentali), durante il secolo scorso, invece, si è sviluppato un modello che unifica corpo e mente in una nozione unitaria. (1)
Questa polarità porta con sé un’altra questione, che si evidenzia nella ricerca teatrale: la possibilità per l’attore di essere naturale sulla scena, di essere "totalmente presente" nelle proprie azioni, di essere sincero e credibile. Stanislavskij, ad esempio, costatando l’irrigidimento che subisce l’interprete nel ripetere la parte e la mancanza di verità dell’attore nel momento in cui finge d’essere un

personaggio durante ogni replica, si avvia verso la ricerca di uno "stato d’animo creativo" e di una verità interiore che possa supportare l’attore durante la recitazione. (2) Quest’ordine di problemi è reso evidente da una situazione tipica dell’attore: eseguire, durante le repliche, con la medesima spontaneità della prima volta, azioni e gesti predeterminati e conosciuti da tempo. È possibile che a ciò si aggiunga un aspetto riguardante anche la natura delle azioni umane che, se consapevoli, sono sostanzialmente psicofisiche, ossia costituite da una dimensione psichica e mentale (l’anima), e da una fisica (il corpo). Allora il problema assume connotati ancor più basilari, sebbene resi più espliciti dalla situazione scenica.
L’attore in scena, infatti, rischia una scissione psicofisica determinata dalla premeditazione di ciò che deve esprimere e delle azioni che deve compiere e, al tempo stesso, di dover agire con naturalezza "come se fosse la prima volta", come se l’espressione fosse spontaneamente scaturita dalla situazione a lui presente.

In un’intervista, ad esempio, Grotowski afferma: «Se un attore vuole esprimere, allora è diviso: c’è una parte che vuole e una che esprime, una parte che ordina e una che esegue gli ordini» (3). In questa scissione interna all’attore, inoltre, la volontà di controllare se stessi, non fa che acuire la generale mancanza di integrità psicofisica. Ancora Grotowski propone un esempio di questa condizione: «Si verifica spesso che l’attore controlli la sua voce "ascoltando se stesso", e quindi esegua male i suoi esercizi.

Jerzy Grotowski

Questo blocca l’organicità del processo e può cagionare una serie di tensioni muscolari che, a loro volta, impediscono la corretta emissione della voce […]. Si stabilisce così un circolo vizioso: volendo usare correttamente la voce, l’attore ascolta se stesso; ma ascoltandosi si blocca e quindi gli diventa impossibile emettere la voce in maniera corretta» (4).
Assieme a Grotowski, una vasta schiera di maestri del teatro di regia del ’900 medita su quest’ordine di problemi andando alla ricerca, con percorsi diversi, di tecniche per il raggiungimento dell’integrità psicofisica degli attori: pensiamo all’elaborazione del Sistema delle azioni fisiche da parte di Stanislavskij; Copeau, da parte sua, osserva la mancanza di realtà in ciò che fanno gli attori sulla scena, e auspica un teatro in cui le azioni possano essere sincere e reali come quelle compiute da tecnici di scena, donne delle pulizie e artigiani (5); tra le analisi del lavoro concreto come paradigma di un’attività reale ed estetica al tempo stesso, vi è anche il noto entusiasmo Mejerchol’d verso "il lavoro di un operaio esperto", e l’elaborazione di una teoria che vede l’azione teatrale come "la somma dell’operaio e della macchina", vale a dire della mente e del corpo.

Vi sono anche esperienze teatrali, però, che mettono in luce la medesima problematica seguendo un percorso negativo, nel senso di un iter inverso che non mira al superamento della separazione tra corpo e mente, bensì alla denuncia dell’impossibilità di un’integrazione psicofisica cosciente dell’agire umano. Le idee e il lavoro scenico di Carmelo Bene, per esempio, sono incentrati su questo principio: l’atto e l’azione sono due fasi logicamente distinte dell’agire umano. L’azione è il progetto, ossia il concetto dell’atto ad esso preesistente, mentre l’atto è l’esito corporeo da cui l’azione, in quanto progetto, viene estromessa; se alla coscienza del soggetto appartiene l’azione (il progetto), così non è per l’atto, esito dell’azione di cui il soggetto ha conoscenza soltanto al di fuori del suo compiersi, ossia a posteriori.
Secondo Carmelo Bene è per questo motivo che nessuno è psichicamente presente all’esito delle proprie azioni, e che nessuno è autore del proprio agire. È pensabile, si chiede Lorenzaccio - protagonista dell’omonimo saggio-racconto di Bene -, «che la ragione

Un giovane Carmelo Bene

arrivi troppo tardi sull’atto, ma il suo ritardo è di solito impercettibile, tanto che noi riusciamo in qualche modo a gestire il tempo, barando un po’, s’intende; a coniugare la volontà e la prassi in un già trascorso, presente alla memoria soltanto, e perciò rappresentabile. Poco fa qualcosa è stato detto, prima ch’io proferissi qualche cosa; un qualcosa s’è schiantato sul marmo, prima ch’io lo provocassi. Dunque, prima l’effetto e poi la causa […]. Possiamo prevedere il già accaduto, non prevenirlo, come l’attore che reciti una parte di cui sa già tutto in partenza. Ecco mortificato ogni progetto.
Perché mai tanto viaggio, se l’intento fiorisce dal suo esito?» (7). In questo modo, dunque, Carmelo Bene denuncia la totale mancanza d’integrità psicofisica nell’agire umano. Ancor di più, egli asserisce la totale estraneità dell’attore al "suo" agire, e la sua funzione, sulla scena del teatro di rappresentazione, è quella di assecondare il già detto (contenuto nel testo dell’autore) e il progetto dell’azione scenica: in questo modo il presente è negato all’attore, che non può far altro che agire passivamente, ossia "patire" l’accaduto. Poiché «[…] un accaduto non è mai presente», Carmelo Bene conclude che «il concetto dell’attore agente è tutto da rivedere» (8).

Uscendo dalla dimensione filosofica e riferendoci agli aspetti essenziali della questione posta da Carmelo Bene, a nostro giudizio il problema che minaccia l’integrità psicofisica dell’attore (nonché dell’essere umano), è il medesimo denunciato, come abbiamo visto, da Grotowski: la mancanza di sincronismo tra una parte che impartisce l’ordine di eseguire un’azione ed un’altra che traduce l’azione in un atto fisicamente compiuto; la divisione tra una coscienza che ordina ed un corpo che esegue.
Non dissimili erano state le conclusioni di Jaques-Dalcroze che, nell’interpretare l’incapacità dei suoi allievi di eseguire fisicamente ritmi molto semplici, giunge ad individuare l’aritmia, vale a dire una caratteristica comune che limita le capacità di tutte le persone adulte, causata da «una mancanza d’armonia e di coordinazione tra la concezione del movimento e la sua realizzazione» (9). «I rapporti tra le facoltà immaginative e quelle realizzatrici - spiega Dalcroze - sono troppo spesso compromessi da una mancanza di orientamento nelle correnti nervose dovuta all’antagonismo di certi muscoli. Questo antagonismo è causato dal ritardo con il quale gli ordini di contrazione o di rilassamento, provenienti dal cervello, pervengono a tali muscoli» (10).
Vi sono, dunque, due attività che si mostrano separate: da una parte le facoltà mentali che concepiscono il movimento, dall’altra le facoltà neuro-muscolari che realizzano il movimento corporeo, e sebbene vi siano delle differenze nei motivi che determinano la divisione tra l’azione (la concezione mentale del gesto) e l’atto (realizzazione corporea dell’azione), possiamo notare che i termini della separazione sono del tutto analoghi a quelli proposti da Grotowski e Carmelo Bene.
Attraverso questo genere di percorsi analitici, e mediante continui riscontri empirici, la ricerca teatrale del Novecento giunge all’individuazione di un problema essenziale per un teatro che si vuole proporre come un’arte del presente e dell’espressione sincera e reale.
Su questa problematica la cultura teatrale del primo Novecento ha sfruttato conoscenze di altre discipline e di eterodossi saperi dell’epoca, e oggi, intorno a quest’argomento, la psicologia e alcune tecniche terapeutiche interrogano i saperi empirici sviluppati dal teatro di regia.


Note

1 La nozione corpo-mente si sviluppa principalmente negli ambiti della rieducazione psicofisica, soprattutto con la Bioenergetica. Si veda, a questo proposito, il contributo comparativo di D. Boadella - J. Liss, La psicoterapia del corpo. Le nuove frontiere tra corpo e mente, Roma, Astrolabio, 1986.
2 C.f.r. Stanislavskij, La mia vita nell’arte, Torina, Einaudi, 1963, p. 362 e ss.
3 Citazione tratta da E. Barba - N. Savarese, L’arte segreta dell’attore. Un dizionario di antropologia teatrale, Lecce, Argo, 1996, p. 18 (il corsivo è conforme al testo citato).
4 Jerzy Grotowski, Per un teatro povero, Roma, Bulzoni, 1970, cit. p. 187.
5 C.f.r., Jacques Copeau, L’educazione dell’attore (1920), in Maria Ines Aliverti, a cura di, Il luogo del teatro, Firenze, La casa Usher, 1988, pp. 76-77 e ss.
6 C.f.r., V. Mejerchol’d, L’attore del futuro, in L’Ottobre teatrale 1918/1939, Milano, Feltrinelli, 1977.
7 Carmelo Bene, Lorenzaccio, in Carmelo Bene, Opere, Milano, Bompiani, 1995, cit. p. 25.
8 Carmelo Bene, Lorenzaccio, cit. p. 35.
9 Claire-Lise Dutoit-Carlier, La ritmica di Jaques-Dalcroze, in Eugenia Casini Ropa (a cura di), Alle origini della danza moderna, Bologna, il Mulino, 1990, cit. p. 190.
10 E. Jaques-Dalcroze, Il ritmo, la musica e l’educazione, Torino, ERI, 1986, cit., p. 80.

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