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06 - Die Fackel e il fiammifero

Guido Guglielmi, il pensiero pulsante

A un anno dalla scomparsa di un intellettuale terreno (e sconfinato)

giovedì 7 agosto 2003, di Lorenzo Flabbi

Guido Guglielmi, umanista, intellettuale, ha attraversato l’esperienza della neoavanguardia e quella del DAMS degli albori. Ha insegnato letteratura italiana contemporanea all’università di Bologna; l’università di Yale lo attendeva nel settembre 2002 per un ciclo di ’lezioni americane’ e per consacrargli la cosiddetta ovazione accademica. Lo ricordiamo oggi, sguardomobile compie un mese, la sua mancanza un anno.

"Dire che non ci sono criteri assoluti dell’arte, equivale a dire che non ci sono criteri dell’arte indipendenti dall’esercizio (di produttori o consumatori) dell’arte. Ma questo non vuol dire che de gustibus non est disputandum, che non sia possibile intendersi in fatto d’arte, e giungere a giudizi oggettivamente fondati. Solo che la prova non viene per via deduttiva, né per via di verifica empirica, come accade invece nei protocolli delle scienze. La prova non è meno vincolante, ma essa è fondata sull’esperienza dei testi."

"Teorie e poetiche invero animano progetti, e perdono vitalità quando si grammaticalizzano o diventano sapere codificato." (Guido Guglielmi, da "La ’critica della critica’", ripubblicato qui in fondo. In calce una bibliografia).

Un anno fa un maestro se ne andava. Guido Guglielmi ha rappresentato per un buon numero di generazioni di studenti bolognesi, l’università tutta, semplicemente. O meglio, l’università per come ce la si immagina, per come si vorrebbe credere che sia e non sempre invece riesce a essere. Il senso di orfanità lasciato dalla sua scomparsa è tutt’ora ben palpabile nei dipartimenti di italianistica di Bologna. Un’aula gli è stata dedicata in via Zamboni, incontri e convegni sono stati organizzati. Capita che le commemorazioni possano avere un che di specioso e artificiale, quel freddo tipico del dovuto. Ma attorno a Guglielmi, morto senza preavviso e come per caso, ci si è ritrovati con sincero sgomento negli occhi. Gli stessi occhi che avevan potuto vedere all’opera lo spettacolo della sua intelligenza, della sua penetrazione al fondo delle cose pur mantenendo una capacità costante di sguardo d’insieme. È stato, senza dubbio e suo malgrado, un maestro. Suo malgrado perché non ha mai fatto nulla per esserlo: né negli aspetti più untuosi che il gioco dei ruoli affibbia al docente coi propri studenti, quel misto di paternalismo e prevedibilità che a Guglielmi non sono mai appartenuti, ma nemmeno in quelli più dolci quali una premurosa accondiscendenza verso il discente e le sue sorti. C’era in lui una severità nient’affatto caratteriale, ma che piuttosto attingeva dalla reale esigenza di un’alta soglia di rigore. Un’imperturbabilità nei confronti delle infatuazioni che si scioglieva una volta riconosciuto l’innamoramento da cui non si sfugge per mezze vie.
È certo difficile non ridursi alla rievocazione schiettamente personale (e parziale fino alla scorretezza), ma per quanto tenga a freno la tentazione della tenera aneddotica m’accorgo che c’è qualcosa in ciò che scrivo che suona molto vicino al romanzo familiare freudiano; dunque, qualcosa di ingiusto. Al di là delle analogie più generiche tra la figura del maestro e del padre, il debito enorme nei suoi confronti è tutto intellettuale. Anche se molti, senza dubbio, sentono tuttora la profonda mancanza dell’uomo.
Studioso di impressionante e proverbiale lucidità, Guglielmi aveva uno studio che in qualche maniera gli assomigliava, arroccato in cima a rampe di scale che scartavano di lato, a riflettere il carattere di un uomo poco avvezzo alla mondanità accademica, sorprendente fino a sembrare talvolta spaesato. In realtà molto più attento di quanto la sua immagine sociale non desse a vedere. È luogo comune che certi talenti particolarmente affinati perdano di vista tutto ciò che non li interessa direttamente; l’immagine stereotipa dello scienziato pazzo disordinato fino all’esasperazione quanto geniale e rigoroso nei suoi calcoli. Ecco, questa immagine logora può ancora essere applicata a Guglielmi: mentre il ricordo dell’uomo si consuma e le parole delle conversazioni si fissano in quelle delle prime rievocazioni, rimangono il rigore e le intuizioni dei suoi studi.
È stato detto quanta sproporzione ci sia stata tra il suo valore e la sua fama, tra la rilevanza effettiva dei suoi scritti e il suo pubblico riconoscimento. Recentemente gli ha tributato un omaggio in questo senso Giuseppe Genna su Società delle Menti di Clarence (qui), non a caso voce corsara e attenta a ogni moto dell’intelligenza. Non che Guglielmi mancasse di un’autorità attestata, ma più forte fu, a livello nazionale, la mancanza di quella concentrazione necessaria per stanare il grande intellettuale che resta nell’ombra, che non cerca la luce delle mille ribalte accademiche. L’impressione è però che nel tempo il magistero di Guglielmi non verrà meno e si rafforzi di nuovo nerbo nelle letture delle prossime generazioni. Dall’einaudiano Letteratura come sistema e come funzione fino all’Infinito terreno, il saggio leopardiano pubblicato per Manni, le sue opere formano una costellazione che continuerà a rappresentare un punto di riferimento fisso nel firmamento di molti studiosi che vogliano confrontarsi seriamente con ciò che è stata la critica novecentesca.
Nel 2000 Niva Lorenzini, che ne fu allieva prima di diventarne collega, pensò di organizzare le celebrazioni per i suoi settant’anni. Guglielmi fece ben poco per assecondare l’iniziativa. Non certo per mancanza di disponibilità, più probabilmente per intimo pudore. A chi lo assillò a suo tempo per l’evento rispose di aspettare: la festa si sarebbe poi fatta per i settantacinque. Il tono e l’espressione lasciavano intendere che nel 2005 avrebbe chiesto di procrastinare fino alla cifra tonda degli ottanta.
A un anno dalla morte, torniamo a rileggerci il primo volume de La prosa italiana del Novecento (Umorismo, metafisica, grottesco, Torino, Einaudi, 1986) e vi scopriamo nuovi scintillii.


Qui trovate una scheda su Guido Guglielmi che riporta anche il ricordo di Remo Ceserani apparso su il manifesto poco dopo la sua scomparsa.


La mancanza occasionale di uno scanner ci aiuta nello scegliere il pezzo di Guglielmi che, tra i tanti, ci piacerebbe riproporre qui. Scegliamo quindi un intervento già pubblicato in rete. Da griseldaonline.

La ’critica della critica’

Guido Guglielmi

In una conferenza tenuta a Jena nel 1924 Paul Klee entra nel tema dei significati sociali dell’arte, e spiega perché il linguaggio della pittura si è allontanato dal comune sensorio degli uomini. Klee dice che ciò è accaduto perché non c’è più e non c’è ancora un pubblico dell’arte. Gli artisti non hanno un popolo. E dunque non possono produrre opere che abbiano una portata comunicativa, e non solo una funzione formale e costruttivista. «Ce ne manca ancora la forza, a noi che non abbiamo il sostegno di un popolo», concludeva Klee. E aggiungeva: «Ma un popolo noi lo cerchiamo, e i primi passi in questo senso li abbiamo fatti al Bauhaus». (E che la gente non si aspetti più nulla dai poeti, lo avevano già detto i poeti). In sostanza il divorzio tra il lavoro degli artisti e le attese del pubblico, che è un fenomeno della modernità, non di questa o quella poetica, ha obbligato gli artisti a un lavoro sperimentale. Sia in direzione della distruzione dell’arte, praticata dalle avanguardie, sia, al contrario, in direzione di un’arte pura. Ma non senza una nostalgia del senso comune («Ma un popolo noi lo cerchiamo»). Dietro il rifiuto della figuratività o del significato c’è la ricerca di una forma non compromessa con le lingue usurate dell’arte. Ma è inevitabile che il medium linguistico, proprio perché è un medium, sia pubblico. L’arte, che si voglia o no, resta intimamente legata alla comunicazione, nel momento stesso che la rifiuta. Vi resta legata in forma negativa, e non cessa di richiederla. Ma doveva rivendicare propri valori, se voleva sopravvivere. Klee faceva appello alla categoria del possibile contro la categoria del reale. «Non è certo mia intenzione - scriveva - di ridare l’uomo così com’è, ma solo come potrebbe anche essere». E venendo al secondo dopoguerra, di «grado zero della scrittura» parlava Roland Barthes. La critica restava una componente essenziale dell’arte. E c’è stato negli anni Sessanta e Settanta del secolo trascorso un intenso scambio tra teorici, critici e scrittori. Teorici sono diventati sia i critici che gli scrittori. La poetica ha voluto sostituire la poesia, e la teoria dell’arte l’arte. E questo sotto l’effetto di un programmatico sperimentalismo che, in polemica con ogni forma di naturalismo, ha puntato sulla linguisticità dei testi, sospendendo i significati della lingua. Ma a un certo punto, in un clima di generale ’revisionismo’, è intervenuta una sfiducia nei progetti teorici. E l’attacco portato contro la teoria ha avuto di mira la critica e le poetiche moderniste. Nello stesso tempo è divenuta dominante la categoria della fruizione estetica. Con una spartizione di territori la verità è stata riservata alle scienze (anche la filosofia è significativamente caduta in sospetto) e alle arti il godimento, di cui arbitri non potevano non essere i lettori. Quello che è un effetto dell’arte, è stato preso come la sua realtà. E ciò in nome di un diritto della ricezione. Il fatto è però che oggi non si osserva una varietà di scelte e apprezzamenti individuali, che del resto in ogni tempo non è mai stata arbitraria, ma sempre riconducibile a orientamenti generali di gusto; e si osserva invece una massiccia uniformità di comportamenti, promossa dal mercato. Si assiste cioè al fenomeno che le differenze si attenuano proprio nel momento in cui l’enfasi cade sulla libertà del consumatore o del lettore. Mentre viene a perdere centralità quell’attività che da due secoli si chiama critica. E su questo punto conviene interrogarsi.

Ma proviamo a dire che cosa s’intende per critica. Per porre subito il problema, si potrebbe cominciare risalendo indietro a una pagina assai nota del De Sanctis. La pagina si trova in un saggio del 1855 sulla versione di Lamennais della Divina commedia, e tratta proprio della critica. Scrive De Sanctis : «La critica è la coscienza o l’occhio della poesia, la stessa opera spontanea del genio riprodotta come opera riflessa dal gusto. Ella non deve dissolvere l’universo poetico; deve mostrarmi la stessa unità divenuta ragione, coscienza di sé stessa». I due termini-chiave sono qui «genio» e «gusto». L’artista - il genio - kantianamente opera spontaneamente, in piena autonomia creativa. Il gusto è la capacità di giudicare. Ma continuiamo la lettura. De Sanctis stabilisce una doppia correlazione. La prima è tra Dio e l’artista, e parallelamente tra il mondo e l’opera. L’altra è tra filosofia e critica. La filosofia è «la creazione ripensata o riflessa»; e la critica compie lo stesso ufficio nei confronti dell’opera. De Sanctis scrive: «Dio crea l’universo, il filosofo è il critico di Dio». La parola forte in entrambi i casi è critica. Filosofia come critica e filologia come critica. Che tipo di linguaggio è questo? Naturalmente è evidente la sua derivazione idealistico-romantica. Le categorie del discorso sono (per quanto trasformate) hegeliane. Il Dio trascendente è diventato potenza di affermazione del mondo, ragione immanente, verità che si realizza nelle figure della storia. E dalla parte dell’arte i nuovi concetti sono immaginazione produttiva (non più riproduttiva e mimetica), espressione, sentimento, rifiuto di autorità e di canoni tramandati. E la retorica, contrapposta alla storia (al nudo contenuto), è infatti il bersaglio polemico, come si legge subito prima dei passi citati: «La rettorica ti dà la pura forma, e, segregata dal soggetto, degenera in regole astratte, spesso arbitrarie e accidentali, sempre estrinseche: la storia ti dà il puro fatto, il contenuto astratto della poesia, la materia grezza e inorganica, comune a tutti i contemporanei». Erede della rivoluzione romantica nella letteratura, De Sanctis insiste sull’individualità dell’opera: la materia dell’opera deve essere signata, e non «comune a tutti i contemporanei». E romanticamente l’individualità è quella del mondo passionale-ideologico - l’esempio è Dante - ma «lavorato» e «trasformato» in un tutto organico. E cioè divenuto forma, che poi vuol dire innalzato a significazione universale. Retorica e generi letterari sono invece per De Sanctis fenomeni estrinseci, impacci imposti agli artisti o che gli artisti vittime del loro tempo si imponevano. E, ancora romanticamente, non poteva qui non cadere il nome del Tasso: «Prendete i giudizi famosi sulla Gerusalemme liberata, leggete il giudizio dello stesso Tasso. Unità d’azione, semplicità della favola, il decoro, il costume, l’affetto, e più l’elocuzione che allora chiamavasi ’stile’ e la lingua, ecco di che si occupava la critica». De Sanctis ragiona secondo uno schema storicistico classico, che assume la storia come un processo progressivo di riappropriazione del senso (di riappropriazione di sé del genere umano), e legge la storia delle forme come storia di liberazione delle forme e dell’arte. È qui l’indice storico - tutto ottocentesco - del suo discorso.Quelle regole avevano in verità prodotto l’arte che diciamo classica, e l’avevano resa possibile. Non erano state imposizioni o convenzioni esterne. Erano state proprie di un mondo codificato qual era stato in tutte le sue forme il mondo feudale o ancora feudale. Ma giustamente De Sanctis le giudica vuote, perché tali erano diventate. Ed era infatti scomparsa la loro base storica.

Ma che cosa poteva prendere il posto delle convenzioni se non la critica? Non erano scadute soltanto convenzioni usurate: era scaduta la possibilità di nuove convenzioni. E la critica diventava un principio non solo del giudizio, ma dell’arte stessa. De Sanctis porta l’esempio del Manzoni dei Promessi sposi che si ferma a riflettere sulle situazioni del romanzo. Col Manzoni il mondo si deconvenzionalizza e problematizza. L’«elemento prosaico» - il brutto - diventa una componente ironica dell’arte. È tolta la frontiera tra poesia e prosa. Ed è un fatto tutto moderno, questa connessione di arte e critica che De Sanctis segnala. L’opera che non ha modelli e deve inventarseli si nutre dunque della critica, e la critica prosegue l’opera da un punto di vista che non è più quello dell’artista. Essa «è la stessa concezione poetica guardata da un altro punto». E l’altro punto è la prospettiva di chi giudica. Il quale deve riprendere il gesto dell’artista, sviluppare la critica interna all’opera, elaborare una propria poetica. Deve costituire l’altro polo dell’opera. Ma fermiamoci su un punto: la critica deve ricostruire l’opera senza dissolverla. L’opera ci dà un’immagine del mondo nella lingua dell’arte. E il critico la riprende concettualmente. La critica per altro non è filosofia. È concettuale e non concettuale. Non è né «assoluto pensiero» (di cui Hegel era il grande modello) né «assoluta arte», ma «tiene dell’uno e dell’altra», scrive De Sanctis. È intermedia tra filosofia e arte. Deve procedere per concetti, ma deve anche continuamente misurarsi con un oggetto che non si risolve in concetti. La critica come saggio, come avrebbe detto Lukács, che non ha l’intenzione sistematica delle filosofia, e vive delle proprie occasioni (di quelle occasioni che sono le opere).

De Sanctis fa della critica un rapporto tra i due poli dell’opera e di chi giudica. La critica prolunga l’opera, senza abolire la distanza tra la poiesis e l’aisthesis. E a questo punto potremmo estendere il discorso (allontanandoci dal De Sanctis) chiamando in causa il concetto bachtiniano di esotopia, che è un poco il contrario dell’isotopia. L’isotopia con la sua iteratività di tratti semici garantisce l’omogeneità della sequenza sotto l’aspetto semantico o concettuale. L’esotopia introduce un’asimmetria, una non corrispondenza, una relazione di esteriorità (l’«altro punto») che dialettizza la sequenza: la istituisce come comunicazione, ma non la risolve mai interamente in comunicazione. L’opera cioè resiste alla concettualizzazione. Quest’ultima deve rispettarla (desanctisianamente: non deve dissolverla). La sua opacità non solo non può essere vinta, ma è un errore voler vincerla. Ed è tanto meno vinta se si dice che ha il senso che il lettore le attribuisce, perché si mancherebbe la sua trascendenza, la sua differenza fondamentale, se ne farebbe un oggetto di consumo, o si scambierebbe un processo psicologico (di identificazione o di proiezione) per un processo di conoscenza. Si scambierebbe quello che è solo un effetto sul lettore per un’esperienza dell’oggetto. Si verrebbe meno a quel principio della dialettica, o della comunicazione tout court, che vuole che ogni relazione a sé sia mediata dalla relazione con l’altro. Allo stesso modo che benjaminianamente l’opera esige la traduzione, ma non si trasmette mai interamente nella traduzione, così la critica traduce l’opera in comunicazione. Ma la comunicazione non l’esaurisce (e annulla). La sua singolarità può essere infatti percepita, incontrata, scoperta - è un aistheton -, mentre viene a perdersi (si «dissolve») nel concetto, necessariamente generalizzante, che ce ne possiamo formare. E si tratta in fondo dello stesso fenomeno che si registra in ogni comunicazione, e tanto più quando, come nel nostro caso, è proprio la sua non saturabilità a costituirla. I soggetti di una situazione comunicativa non sono infatti surrogabili: l’uno non può prendere il posto dell’altro in ciò che gli è più proprio. E non è quindi possibile intendersi senza anche fraintendersi. In ogni intendersi resta cioè una parte non trasparente, una differenza, una divergenza. E proprio questa divergenza mentre rende necessario il comunicare, altrettanto necessariamente deve lasciarlo aperto e incompiuto.

Torniamo adesso agli anni Sessanta e Settanta In quegli anni fenomenologia, strutturalismo, psicanalisi, marxismo riformulano il concetto di letteratura. Gli ambiti e gli orientamenti teorici sono assai diversi, e assai diversi gli esiti, ma in ognuno di essi è ripensato, come scrive Antoine Compagnon nel Demone della teoria, il rapporto dell’opera con l’autore, il lettore, il mondo, lo stile, la storia, il valore. Ognuna di queste nozioni è passata al vaglio della teoria. E uno dei fenomeni su cui si è concentrata la teoria della letteratura nel Novecento, dai formalisti agli strutturalisti fino alla problematizzazione delle tesi strutturaliste (sulla falsariga di Derrida), è quello della lingua, non più quello dell’autore (il genio del De Sanctis). La figura dell’autore era stata posta in causa dalle poetiche modernistiche. Era stato Mallarmé a parlare di sparizione dell’autore e di iniziativa della lingua. E in un’estetica linguistica la soggettività cessa di essere trascendentale. Essa non è più il principio dell’opera. L’a priori diventa la lingua. E la lingua non è qualcosa che si inventa, ma qualcosa che ci precede e preesiste. Essa è la passività che si eredita. Non una produzione del soggetto, ma una condizione del soggetto. La rottura con la posizione romantica, quale era stata quella del De Sanctis e della grande estetica romantica, e che aveva avuto ancora una sistemazione nella filosofia del Croce, è evidente. E la negazione o la distruzione dell’io che tante poetiche (e come si sa non solo poetiche) novecentesche proclamano trovano una giustificazione entro questo nuovo contesto teorico. Il che non significa che l’autore o l’opera, come produzione di un autore, perdano importanza. Significa invece che autore e opera subiscono una dislocazione fondamentale:del tipo di quella, volendo avanzare cautamente un paragone, che si realizza nella formazione del motto di spirito. Come nel motto di spirito studiato da Freud il motto costituisce una sorpresa per chi lo ha elaborato, e dipende spesso dal gioco dei significanti (che variano da lingua a lingua), così gli artisti non sanno quello che hanno da dire prima di averlo detto. L’opera giunge come una sorpresa per l’artista come per il lettore. Già il De Sanctis invero aveva distinto tra mondo intenzionale e mondo effettuale delle opere. Il genio romantico opera appunto inconsciamente. E questo già in Kant. Ma per mondo effettuale ora s’intende un mondo aperto dalla lingua, come fatto stratificato e storico, prima che dal soggetto, che è una sua formazione: e cioè un mondo possibile solo nel suo orizzonte. Ed è una differenza capitale. Resta tuttavia il fatto che tutto viene messo in discussione nel passaggio dalle portiche romantiche a quelle modernistiche tranne la centralità della critica. Ed è questo un punto di convergenza non secondario. Il contesto teorico cambia, ma resta problematico. È invece la critica della critica che detta a Compagnon il titolo del suo libro.

La critica della critica muove da una posizione di ragionato scetticismo e porta a un recupero, o comunque a una riabilitazione, del senso comune (del gusto del pubblico)..Ma se dovessimo definire un senso comune, diremmo che esso è una formazione storica che ha dimenticato di esserlo, e non ha più bisogno di interrogarsi sulla propria costituzione. Il senso comune estetico ha risposte che precedono le domande. Ecco alcuni clichés a tutti familiari. L’arte è un prodotto immaginativo o fantastico. È un fatto del soggetto (del sentimento). A differenza degli altri saperi non richiede mediazioni concettuali, si rivolge all’animo disinteressato, è appresa immediatamente, ed è a tutti accessibile. Ognuna di queste proposizioni ha una storia. Esse datano dall’origine dell’estetica. È facile riconoscere in esse un’eco della concezione moderna della libertà dell’arte. Una libertà da assicurare contro i vincoli etici ed estetici che non erano più giustificati in quella che era avviata ad essere la società del mercato. E furono i valori di spontaneità, naturalezza, sincerità, immediatezza del gusto a sostituirli. Per altro - ripetiamo - si trattò di un fenomeno straordinariamente ricco. È Kant - ricordiamo - che per primo teorizza, in ambito filosofico, l’arte come attività creativa, produttiva e non riproduttiva o mimetica. Con Kant l’artista diviene colui che non obbedisce al gusto, ma è regola del gusto; non riceve regole, ma le pone. E si tratta di regole che, ancora kantianamente, non possono essere definite e insegnate, ma solo offerte come esempio nell’opera singolare e irripetibile (concezione esemplaristica dell’arte). L’estetica, in altre parole, aveva segnato un cambiamento di mondo e sostenuto un nuovo corso delle forme poetiche, fornendo un nuovo vocabolario teorico, che si è poi venuto diffondendo e, come accade, fino a ridursi in formule svuotate di senso (o ricevute in senso psicologistico).

Ebbene questo nuovo senso comune (impensabile prima della svolta romantica), che oggi, non solo da parte di Compagnon, si riprende in considerazione, attesta dell’esigenza di immettere l’arte nella circolazione sociale. E per questo merita di essere ripreso in considerazione. Ma per un altro verso risulta fatto di frantumi di teorie che non sono più pensate e che risparmiano dal ripensarle. Ad esso appartengono appunto concetti alla loro origine filosofici, di alto tenore teorico, ma oramai depotenziati. E possiamo comprendere le ragioni del loro riuso. Oggi essi servono a riempire dei vuoti teorici e di poetica. C’è oggi una fallacy che potremmo dire scientista, che si fa forte dei criteri di verità delle scienze e squalifica ogni altro criterio di giudizio. Senonché una verità di questo tipo è adeguata agli oggetti positivi, non agli oggetti storici. E le opere d’arte sono oggetti storici. Se consideriamo la teoria della letteratura alla stregua delle scienze, le sue affermazioni assomigliano alle illusioni metafisiche di cui parlava Kant. Ogni affermazione dà luogo a una controaffermazione che la invalida. E ci si imbatte in antinomie. Le antinomie che denuncia Compagnon, affascinato dalla filosofia analitica (o empiristico-analitica). Ma qui l’oggetto non è metafisico o speculativo, ma un oggetto concreto, che abbiamo sotto gli occhi e dobbiamo valutare. E a seguire modelli analitici di spiegazione non sembra possibile giungere a stabilire un criterio vincolante di giudizio estetico. Quale prova potremmo esibire della validità di un’opera? Non ci resta che affidarci alla nozione di gusto, magari richiamandoci all’autorità di Kant, ma per concludere in senso relativistico. Ci sono - si dice - tanti punti di vista sul testo, ma non si attinge mai la verità - una verità positivamente vincolante - del testo. E ripetiamo che individuum est ineffabile. Diciamo che tutti i giudizi sono in linea di principio legittimi, o comunque - secondo un concetto che ha avuto l’importanza che ha avuto nella sua sede propria - non falsificabili. Non essendo possibile un criterio positivo di valutazione delle valutazioni, si squalifica il giudizio di valore. E si sacrifica a un modello standard di verità il proprio oggetto, che infatti subisce una riduzione edonistica. L’oggetto diventa, come si dice, culinario. Il piacere estetico non sarebbe categorialmente diverso, per riprendere l’esempio di Kant, dal piacere del vino delle Canarie, che infatti non sempre e non a tutti piace. E non si potrebbe essere più lontani da Kant, che fondava modernamente l’estetica sulla base della soggettività, ma non rinunciava affatto all’universalità, cioè a una razionalità, del giudizio estetico.

Bisognerà allora cambiare orizzonte teorico per uscire dall’impasse. Piuttosto che al modello scientifico, converrà riferire le teorie della letteratura alle poetiche che sottendono le opere. Una poetica, nel senso in cui è intesa da Luciano Anceschi, si basa su una decisione e una scelta. E dietro una teoria della letteratura c’è un programma di poetica e di critica. Le poetiche sono plurali, tra loro in conflitto, e niente affatto unificabili. E le teorie le riprendono nel loro discorso. E sarebbe sbagliato parlare di relativismo in senso empiristico. Per gli oggetti storici vale la ragione dialettica, non quella logico-formale. Ma - e qui il problema risorge - su quale base può essere fondata una universalità del gusto? Diciamo subito che è il criterio dell’esperienza, la pratica dell’arte (nel senso della produzione o della ricezione). Quella pratica che portava per esempio un artigiano a sviluppare un’eccezionale sensibilità per i propri materiali, senza propriamente averne una scienza. O potremmo pensare a un ascolto così raffinato da distiguere e riconoscere uno Stradivari - l’esempio è di Adorno - che solo pochissimi possiedono (ma che ognuno potrebbe in linea teorica acquisire). Nessuno in questi casi parlerebbe di apprezzamenti variabili e arbitrari. Lo stesso può valere per gli oggetti d’arte. Tanto più che gli artisti restano artigiani - e sono forse le uniche figure di artigiani che resistono e sopravvivono nel mondo della tecnica - anche se il loro medium è magari un computer. E qui si potrebbe citare Leopardi ed il suo concetto di «imitazione». Ma già Aristotele aveva detto che gli uomini imparano imitando. Dire che non ci sono criteri assoluti dell’arte, equivale a dire che non ci sono criteri dell’arte indipendenti dall’esercizio (di produttori o consumatori) dell’arte. Ma questo non vuol dire che de gustibus non est disputandum, che non sia possibile intendersi in fatto d’arte, e giungere a giudizi oggettivamente fondati. Solo che la prova non viene per via deduttiva, né per via di verifica empirica, come accade invece nei protocolli delle scienze. La prova non è meno vincolante, ma essa è fondata sull’esperienza dei testi.

Bisogna avere, in altre parole, frequentato l’oggetto-letteratura, per discorrerne razionalmente, cioè pubblicamente. Lotman direbbe che si tratterebbe di un apprendimento basato su esempi e non su regole, di una conoscenza testuale (non codificata) e non grammaticale (codificata). È il modo in cui i bambini apprendono la lingua materna, ed in cui tutti pragmaticamente continuiamo a fare esperienza del mondo. La conoscenza non passa qui attraverso un metodo, l’osservanza di una serie di procedure di verifica o di falsificabilità, ma attraverso l’imitazione. Scriveva appunto Leopardi che occorre un interesse per l’arte per apprezzare i buoni libri. «Perché - soggiungeva - certi diletti, e non sono pochi, hanno bisogno di un sensorio formatovi espressamente, e non innato; di una capacità di sentirli acquisita. A chi non l’ha, non sono diletti in nessun modo» (Zib. 4271). È la lunga consuetudine con l’oggetto che lo fa riconoscere e valutare. Le procedure analitiche di conoscenza non possono essere trascurate, ma non sono adeguate all’oggetto. E qui cade opportuno un richiamo alla fenomenologia. Husserl distingueva tra scienze rigorose, e scienze esatte. E definiva la fenomenologia una scienza descrittiva, e non deduttiva. Le scienze rigorose descrivono strettamente l’oggetto, ma senza pretendere di esaurirne gli aspetti. La descrizione condotta con il massimo rigore non può chiudersi perché non lavora su elementi finiti. L’oggetto descritto mantiene un alone di indeterminatezza. Le scienze rigorose sono scienze aperte. Le scienze esatte al contrario operano su quantità finite, e possono quindi perfettamente determinare il propriooggetto,secondounprincipiodicompletezza.Illoro linguaggio è la matematica. E nella matematica tutto ciò che è vago o indeterminato o è assorbito e risolto nel calcolo, o non ha diritto di esistenza. Ora una teoria letteraria è una teoria fenomenologica, non esatta. Un tempo si discuteva sulle due culture. E si discuteva sulla loro unificabilità, cioè sulla praticabilità di un’enciclopedia dei saperi. Le culture in verità non sono due. Ci sono tante culture quante sono emerse nel corso della storia, ognuna delle quali con una sua specificità. Mentre non c’è un metalinguaggio che tutte le unifichi. E possiamo conoscerle e valutarle solo in quanto filologi. Solo se ci si aprono i segreti delle loro lingue. C’è insomma un modo di intendere le lingue della cultura, anche le più lontane da noi. Intenderle infatti non vuol dire misurarle alla stregua di una lingua delle lingue (che non c’è). E tanto meno vuol dire farle nostre. Vuol dire che sono comunicabili (che hanno una razionalità interna). E in questo senso ogni lingua della cultura è in linea di principio comunicabile. Non quindi solo la lingua della scienza è universale, e non ad essa dobbiamo riferire ogni altra lingua, ma qualunque lingua lo è, o può diventarlo, a patto che sia appresa. Il vantaggio delle scienze è solo un indiscutibile vantaggio storico: la lingua della scienza è l’unica lingua, ed anche quella unicamente moderna, e dunque per eccellenza moderna, che la nostra civiltà non può permettersi di trascurare o di ignorare. E nello stesso tempo ha un limite: essa consente di parlare solo di ciò che è traducibile in misura, cioè in rapporto numerico. Il suo limite - e la sua forza - è appunto quello di essere esatta.

Le teorie hanno indubbiamente dei limiti. Sono i limiti a costituirle. Ed è vero che non esiste una linguisticità pura, una pura logica dei significanti. Lingua e mondo sono in rapporto di implicazione reciproca.Non sono entità a sé stanti, che poi entrano in contatto l’una con l’altra. La lingua non è un mezzo per comunicare tra altri mezzi di comunicazione, né il mondo un oggetto del comunicare. C’è una lingua perché c’è un mondo, e c’è un mondo perché c’è una lingua. L’uno non si dà senza l’altra. La relazione viene logicamente prima dei due termini. La lingua è trascendente, rivolta verso il mondo, non si risolve mai in autoreferenzialità o immanenza. Ma dietro l’enfasi sul principio di immanenza dei testi, in tante teorie modernistiche, c’è una poetica; c’è quell’intenzione critica verso il testo sociale che informa le poetiche di tanti artisti e critici del Novecento (tra i quali appunto Klee e Barthes). Teorie e poetiche invero animano progetti, e perdono vitalità quando si grammaticalizzano o diventano sapere codificato. E viene allora il momento di un cambiamento. Ciò che si è fatto non soddisfa più, e occorrono nuove invenzioni per restituirgli vitalità. (È l’opera nuova che fa intendere l’opera vecchia). Ma i limiti di una teoria si scorgono a partire da un’altra teoria. E non si possono invece far proprie esigenze che riportano al di qua della teoria, perché al di qua della teoria si trovano solo altre teorie degradate. Le quali interesseranno senz’altro una storia sociale del gusto, e potranno portare nuovi angoli visuali e nuovi elementi interpretativi. C’è infatti una sociologia della ricezione che ha qualcosa da dirci, e dobbiamo tenerne conto. La critica per altro è interessata alla forza conoscitiva delle opere. E per questo non può fare a meno di criteri di valore. Essa è innanzitutto valutativa. Tutt’al contrario della critica della critica che lascia cadere (come non scientifica) proprio la questione dei criteri di valore. Per cui da una parte arte diventa ciò che il pubblico ratifica come tale (una ricezione competente essendo richiesta solo dai saperi tecnoscientifici). E dall’altra parte, si considera ’seria’ solo una filologia dissociata dalla critica. Un poco come già era accaduto negli anni del positivismo. Si ricordi il discredito in cui fu tenuto il De Sanctis. In nome di una scienza storica fu liquidata la critica. Il positivismo risolveva l’analisi del testo in una ricerca delle fonti (ed ebbe buon gioco il Croce a rivolgersi contro di esso). La critica era congedata come non scientifica, non esatta, non verificabile. Ristabilito il testo critico, e riportatolo alla sua epoca, il compito era esaurito. Non era necessario aggiungere altro. O qualunque altra aggiunta, che non poteva mancare, doveva considerarsi soggettiva, impressionistica, insomma non degna di scienza. E tutt’al più affare di dilettanti, artisti e giornalisti. La differenza rispetto a ieri è che proprio questa aggiunta riceve oggi attenzione. La tendenza attuale si preoccupa dell’uso o della utilizzazione sociale dell’arte, della sua ricezione, e solo secondariamente si pone il problema della sua produttività, cioè della sua capacità di aprire nuovi mondi, nuovi orizzonti di conoscenza. E non sorprende allora che il consumatore prenda il posto del produttore. Mentre, come negli anni della scuola storica, torna ad esser dubbia la funzione della critica, cioè di un ascolto al livello delle opere (condotto «da un altro punto»).

Ma qual è il sapere del critico? Torniamo ancora su questo argomento. Un critico -riassumendo - ha una conoscenza dei propri oggetti per la consuetudine che ha con essi, non perché ne abbia scienza. E in questo - desanctisianamente - è vicino all’artista. Egli ha acquisito una capacità di ascolto, di decifrazione, di lettura, ma non ha un metodo che gli appartenga in proprio. I metodi che usa e di cui non può fare a meno gli vengono da altre discipline, e non solo dalla teoria della letteratura. Dove il metodo prescinde - cartesiananente - da ogni sapere che non sia esso stesso a definire, la critica vive della memoria del sapere (della memoria dei testi). L’assenza di un metodo specifico è il correlativo del rischio del giudicare. Ma c’è un legame non estrinseco tra l’opera e il critico, tra una disposizione alla lettura e il testo offerto alla lettura. Il critico risponde ai libri ed è posto in essere dai libri. L’opera lo reclama perché è attraverso di lui che essa si afferma. E ogni nuovo orizzonte storico richiede i suoi giudizi. E si capisce che i giudizi siano sempre parziali, perché gli orizzonti storici cambiano, e negli orizzonti storici cambiano gli stessi testi. Ma nella parzialità si esprime - per così dire - la lotta della verità. Una verità sempre da costituire, che si mescola con il non sapere, e sorge da esso, senza mai interamente dissiparlo, restando sempre mescolata a un non sapere, a una non verità. (La non verità è parte della verità, un suo aspetto).

La parola, creativa o critica, non è insomma mai adempiuta. Sta in un orizzonte storico. Ma l’orizzonte rimanda indefinitamente ad orizzonti altri e più lontani, senza che ve ne sia uno, se non tolemaicamente, che li racchiuda tutti. Ogni lettura rimanda ad un’altra lettura, ognuna delle quali ha un indice storico-temporale. C’è un breve racconto di Kafka che può essere un’allegoria di questo statuto della verità. Il testo ha ricevuto il titolo Poseidone. E racconta del dio che presiede al governo del mare, il quale vorrebbe essere sollevato da un incarico così gravoso. Ma nella burocrazia olimpica non c’era nessun altro ufficio che potesse essere assegnato a un dio del suo grado. Così Poseidone è obbligato a passare le sue giornate assorto nei conti e nei calcoli infiniti che richiede l’amministrazione delle acque. E non trova tempo per dare uno sguardo al mare. Solo di tanto in tanto, nei suoi viaggi all’Olimpo, gli è dato di gettare su di esso uno sguardo di sfuggita. E questo è il suo cruccio. A confortarlo è solo l’attesa di poterlo finalmente percorrere. «Soleva dire che per farlo aspettava la fine del mondo; allora avrebbe trovato un momento di quiete in cui, nell’imminenza della fine, dopo aver riscontrato l’ultimo conto, avrebbe potuto fare in fretta un viaggetto circolare». In forma enigmatica e ironica Kafka ci dice che la verità consiste in un compito infinito. E non è distante dal Benjamin che vedeva nella reine Sprache, nella lingua della verità, il convergere di tutte le lingue e di tutte le prospettive storiche. Ma, in maniera non meno enigmatica, dopo e al di là della storia. (Poseidone che non percorrerà mai le acque, ha nell’attesa il proprio adempimento).


Opere di Guido Guglielmi:
Manuale di poesia sperimentale, con E. Pagliarani, Milano, Mondadori, 1966.
Letteratura come sistema e come funzione, Torino, Einaudi, 1967.
Ironia e negazione, Torino, Einaudi, 1974.
Da De Sanctis a Gramsci: il linguaggio della critica, Bologna, Il Mulino, 1976.
L’udienza del poeta: saggi su Palazzeschi e il futurismo, Torino, Einaudi, 1979.
La prosa italiana del Novecento: umorismo, metafisica, grottesco, Torino, Einaudi, 1986.
Interpretazione di Ungaretti, Bologna, Il Mulino, 1989.
Le parole del testo. Letteratura come storia, Bologna, il Mulino, 1993.
Luciano Anceschi, L’esercizio della lettura, curatela con L. Rampello, Parma, Pratiche, 1995.
La prosa italiana del Novecento - II. Tra romanzo e racconto, Torino, Einaudi, 1998.
L’infinito terreno. Saggio su Leopardi, Lecce, Manni, 2000.

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