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Samuel Beckett - Murphy

Frasca su Beckett: tradurre, criticare, editare

giovedì 11 dicembre 2003

Samuel Beckett, Murphy, a cura di Gabriele Frasca, Torino, Einaudi 2003.

Questione preliminare: ha senso segnalare l’uscita di un romanzo vecchio di quasi settant’anni? Un romanzo composto tra il 1935 e il 1936, pubblicato a Londra da Routledge nel 1938 dopo infiniti rifiuti da parte di editori meno accorti, corretto in bozze dall’autore costretto in un letto d’ospedale dalla coltellata di un magnaccia? Un autore peraltro esordiente, che non si chiamava né Céline né Genet, come l’aneddoto maudit potrebbe far sospettare...
"Niente da dire, sei sulla notizia!" commenterebbero sogghignando in gergo da cronisti di nera i vecchi squali d’ogni redazione, avvezzi a ragionare sempre nei termini dell’irrefrenabile, rapidissimo incanutire di qualsiasi argomento nell’arco di una giornata, scollinando giù per un declivio d’ore che conduce senza scampo al cestino della carta straccia. Ma pure tra gli addetti all’effimero impresso dalle rotative si trova per solito un redattore dotato di residua umanità, il quale potrebbe venire incontro a una sì sciagurata pretesa (quella di segnalare, appunto, un romanzo più attempato del caposervizio già in odor di pensionamento) informandosi se il libro in questione, trattandosi di prodotto non autoctono, cioè non spremuto da italiche meningi, sia mai stato tradotto in italiano.
Ahimè, sì, è l’aggravante risposta. Tardi, certo, rispetto alla sua originaria uscita, ma pur sempre un mucchio d’anni fa. A quanto mi risulta, l’editio princeps nell’idioma del sì dello straordinario primo romanzo di Samuel Beckett Murphy (giacché è di questo che si sta celiando), risale all’anno del Signore 1962, per i tipi di Einaudi (1) . E si trattava di una traduzione tutt’altro che malvagia, dovuta all’autorevole penna di Franco Quadri (2) , che in Italia ha avuto numerose ristampe anche presso Mondadori, cui si aggiunse nel 1981 un’introduzione del nostro miglior (e a lungo quasi unico) beckettologo, Aldo Tagliaferri.
Ma, c’è pur sempre un ma. E se l’abbiamo tirata così in lungo, è perché questo "ma" pesa parecchio. Il "ma" lo esplicita e lo condensa, e non da oggi, in un solo accoratissimo avverbio ("inspiegabilmente"), il buon Gabriele Frasca, curatore della presente nuova edizione einaudiana nonché secondo - in ordine anche anagrafico - nostro più meritorio beckettologo. Infatti già nella bibliografia del suo Cascando. Tre studi su Samuel Beckett (3) , il Frasca sottolineava, con quella sintesi non priva di efficace incredulità, come la versione italiana di Murphy si rifacesse alla versione francese del romanzo (comparsa nel ’47, nove anni dopo la prima, e con significative differenze, frutto di un lavoro a quattro mani tra Beckett e l’amico Alfred Péron) e non all’originale inglese. Questa, invece, che Frasca dopo tanti anni avrà vissuta come il coronamento di un sogno e forse come la risoluzione di una macroscopica ingiustizia, è finalmente stata condotta sul primo testo licenziato da Beckett nella sua lingua madre, solo più tardi rifiutata come matrigna a favore del francese (4) . Anzi, questa è una stesura in qualche modo inedita e inegrafa, inesistente dipresso alcun originale, giacché, per spiegarci con un termine preso a prestito dalla filologia, siamo di fronte a una versione contaminata. I due alberi dell’ipotetica tradizione, i manoscritti archetipali, l’uno in inglese l’altro in francese, si distinguevano tra loro intanto, a un livello superficiale, per una questione di tonalità complessiva e di scelte lessicali. Osserva Frasca che, «rispetto al comunque compassato inglese», la versione francese, «qua e là abborracciata un po’, impiega ad esempio […] un registro decisamente più canagliesco» (5) . Che è una notazione già di per sé interessante, ma il curatore tralascia di aggiungere, forse ritenendolo scontato, come gli anni intercorsi fra il ’38 e il ’47 abbiano nel frattempo visto la stesura di Watt e di Mercier e Camier. Cioè tutta l’opera di Beckett ha disceso grandi passi verso l’incanaglimento sublime che sta per culminare nella Trilogia (non molto dopo l’edizione francese della storia di ’Sasha’ Murphy, l’irlandese metterà mano al suo più celebre vagabondo,Molloy).
Non è tutto. Nel passaggio dal primo al secondo testo, incunabolo operativo di quella che Frasca definisce «la vocazione equilingue che è esattamente il fulcro di tutta la sua opera», Beckett in realtà non è ancora affatto egualmente padrone dei due codici linguistici, e così non di rado semplifica spietatamente o addirittura sacrifica senza lasciar traccia gran parte dei giochi di parole, delle agudezas e delle freddure che popolavano l’originale. Non dimentichiamo che, mentre Murphy prende forma, il ventinovenne scrittore era ancora a tutti gli effetti permeato dal magistero immenso e ossessionante di Joyce, con il quale aveva vissuto un estenuante corpo a corpo intellettuale nella stesura di Finnegans Wake (6) . Dunque il primo Murphy è ancora fortemente marcato di joycity, e se Beckett non arriva a praticare la tecnica agglutinante delle parole-valigia, nondimeno tratta i lemmi come qualcosa di malleabile, una creta docile. La scrittura dilavata e impoverita, ossessiva, livorosa e ringhiante della Trilogia è ancora molto lontana da questi lidi.
Ma ecco l’aspetto interessante, la contaminazione. Frasca non ha seguito un criterio integralmente conservativo, non ha cioè optato alla Bedier per il bon manuscript, in questo caso il testo inglese, perché se è vero che egli lo privilegia ogni volta che le due stesure divergono per difetto (e si tratta sempre di luoghi eminentemente paronomastici), è altresì vero che accoglie anche le più rare varianti del secondo originale. Scrupolosamente, segnala in nota le non trascurabili contorsioni operate per restituire in italiano i giochi di parole di solito espunti dal testo francese, ma dà conto anche del fatto che, in alcuni casi, quest’ultimo possiede passi assenti dal Murphy del ’38. Ciò rende il libro in mano ai lettori italiani una sorta di edizione critica, riccamente commentata anche in ragione delle numerose oscure allusioni storico-scientifico-filosofiche, eredità ancora schiumante alla superficie di anni e anni di ricerche erudite al fianco di Joyce, un’eredità che andrà sempre più assottigliandosi nelle opere successive pur senza mai venir meno.

Alle soglie di un romanzo che si apre con la frase programmatica "Splendeva il sole, non avendo alternative, sul niente di nuovo", Murphy compare in una posa davvero memorabile per quant’è straniante: lo incontriamo nudo e legato strettamente con delle fasce sulla sedia a dondolo, unico oggetto di sua proprietà, da cui non si separa mai. Ma non è stato legato così da un ladro o da un rapitore, è lui stesso a inchiodarsi in quel modo in una sorta di meditazione che tende da un lato a eliminare l’ingombro della corporeità, dall’altro a dissolvere anche il pensiero. A differenza dei futuri personaggi beckettiani errabondi senza meta, eppure segnato come loro fin dalla prima pagina da uno sfratto, una imposizione d’esilio, che somiglia tanto a una caduta gnostica, a una deiezione non tanto dall’Eden ma da qualunque semiosfera, in un universo purgatoriale (7) privo di prospettive escatologiche (8) , Murphy aspira alla stasi, anzi a un moto, quello del dondolo, che tende ad accelerare - riducendosi d’ampiezza - man mano che va verso l’immobilità, istante in cui gli opposti si annullano. Beckett presta a siffatto desiderio di nullificazione ancora una lontana giustificazione di tipo naturalista, facendo di Murphy un ex studente di teologia, il quale evidentemente è giunto alla volontà di annullare ogni atto e ogni pensiero (quasi una schopenhaueriana noluntas) dopo una presumibile delusione di marca metafisica. Ciò nei romanzi successivi verrà cancellato, permanendo al più come uno sfondo non detto, un mito delle origini.
Sia Mercier e Camier che Molloy e Malone sono pezzenti eruditi, filosofi dei bassifondi, senza che tale incongruenza logica procuri alcuno scandalo nel sistema letterario di Beckett, dal quale il realismo è bandito.
Costretto dalla compagna Celia a cercarsi un lavoro, malgrado lui intuisca che tale forzatura della sua indole gli sarà fatale, Murphy trova tetto e stipendio in uno stravagante istituto psichiatrico, la Magione Maddalena della Misericordia Mentale, dove conosce varie figure dell’assenza, da cui viene irresistibilmente affascinato, in special modo dallo schizofrenico signor Endon. Con costui, ammirato modello di disindividuazione (9) , gioca lunghe partite a scacchi, ed è proprio nella potente scena del turno di notte, in una partita assai più cruciale delle altre, che il destino di Murphy si compie. In un testo tutto tramato da un sotterraneo spinozismo, la condizione di nudità all’interno della cella imbottita è quella che più si avvicina a rappresentare l’idea stessa di monade (10) , e quell’amor intellectualis quo Murphy se ipsum amat, come si legge con perversa parodia proprio da Spinoza all’inizio del capitolo sesto.
Beckett nasce maturo e armato come Atena dal cranio di Zeus-Joyce, allineando qui tutti quelli che saranno i temi e le forme ricorrenti nei suoi ulteriori romanzi: dall’ostentato nichilismo di matrice tragico-teologica al comico basso d’ispirazione slapstick (Gianni Celati lo ha descritto in un saggio ormai classico (11) ), dall’utilizzo di una umanità abbruttita e in progressiva sclerosi anche fisica, di cui il clochard il vecchio e l’idiota sono tre figure araldiche, ai dialoghi sconclusionati e irresistibilmente feroci, fino alla pratica di una voce interminabile che provoca l’assottigliarsi disturbante dello schermo tra autore narratore e personaggio, con continue intrusioni di questa stessa voce autoriale nella tramatura diegetica, a smontare e a contestare il proprio erigendo oggetto narrativo mentre lo assembla.

Per finire, una segnalazione che è necessario lasciare a più valenti comparatisti per più riposate ricerche: suppergiù negli stessi anni in cui Murphy viene scritto, la letteratura europea conosce uno straordinario convergere di scene ambientate nei manicomi o nelle case di cura per malattie psichiche, quasi che d’improvviso i grandi romanzieri avessero tutti insieme percepito la rilevanza simbolica di figure fino ad allora reputate men che marginali come gli alienati. Bella forza, si dirà, è la scoperta della psicoanalisi a mettere in moto tutto, e sarà forse anche vero, ma a me sembra che in realtà, molto più del lavoro di Freud, a colpire la fantasia degli scrittori sia l’istituzione stessa, foucaultianamente "totale", assai anteriore alla scoperta dell’inconscio, e per giunta a sedurli sia non tanto l’utopia-programma terapeutico della guarigione bensì l’irraggiungibilità della malattia. Non la nevrosi, borghese e in fondo governabile, ma la psicosi, insomma, come un’ultima terra promessa dell’intellettuale spossessato di una funzione sociale. Il che ci riporta ancora a Nietzsche, a quel salto nella follia che colpì così tanto l’Europa, perché vissuto e in qualche modo perfino rappresentato non come perdita di sé ma come compimento. Il Lukács della Distruzione della ragione l’aveva già detto, mezzo secolo fa.

L’elenco è certamente parziale, e nondimeno impressiona:

A) Elias Canetti, Die Blendung (Auto da fé), anno 1935: buona parte del terzo libro, a partire dal capitolo Un manicomio, ruota attorno alla figura del brillante dottor Georges Kien, fratello del protagonista Peter, e alla sua clinica parigina, anche se in realtà tutto il libro è un allarmante formicolare di pazzi proprio al di fuori delle mura di ogni luogo d’internamento;
B) Francis Scott Fitzgerald, Tender is the night (Tenera è la notte), anno 1934, si imposta sulla vicenda, di dolente calco autobiografico, del dottor Dick Diver e di sua moglie nonché paziente Nicole;
C) Louis Ferdinand Céline, Voyage au bout de la nuit, (Viaggio al termine della notte), anno 1932; si pensi all’istituto di Vigny-sur-Seine del dottor Baryton in cui Bardamu va a rintanarsi, dopo i suoi viaggi in Africa e in America;
D) Infine - naturalmente - Robert Musil, Der Mann ohne Eigenschaften (L’uomo senza qualità), anni 1930-1933; con l’infatuazione di Clarisse e la curiosità di Ulrich per il folle omicida Moosbrugger, personaggio poi divenuto secondario ma da cui Musil era partito nell’elaborazione del suo magnum opus (12) .


Note

1 - Segnalata tempestivamente da un signore che di letteratura anglosassone se ne intendeva, Giorgio Manganelli. Si veda il suo Murphy [1962] in La letteratura come menzogna, Milano, Adelphi 1967.
2 - Il fatto che sia stato Quadri a tradurre il libro la dice lunga su come in Italia Beckett fosse essenzialmente considerato un drammaturgo, occasionale ( ! ) facitore di romanzi.
3 - Napoli, Liguori 1988.
4 - A partire dal 1945 con il racconto lungo Mercier e Camier, e poi naturalmente con la Trilogia, scritta tra il ’49 e il ’51 e pubblicata dal ’51 al ’53.
5 - G. FRASCA, Come usare la macchina di Murphy, in S. BECKETT Murphy, Torino, Einaudi 2003, p. 226, nota 37.
6 - Libro a cui nel ’29 aveva dedicato il saggio Da Dante a Bruno, da Vico a Joyce, ora in S. BECKETT Disjecta. Miscellaneous Writing and a Dramatic Fragment, John Calder, London 1983, trad. it. Disiecta. Scritti sparsi e un frammento drammatico, a cura di A. Tagliaferri, Milano, EGEA 1991.
7 - L’immagine primaria da cui scaturisce gran parte dell’opera di Beckett è proprio quella del pigro Belacqua, seduto sotto una pietra nel IV canto del Purgatorio, scettico verso l’ansia ascensionale di Dante: «In quel momento Murphy, per cinque minuti sulla sua sedia a dondolo, avrebbe di buon grado rinunciato alle sue speranze di Antipurgatorio, e dunque all’ombra dietro al sasso di Belacqua e a quel suo riposo da embrione, in cui restare, rimirando attraverso i giunchi nell’alba il tremolare in basso della marina australe e il sole che volge a settentrione, immune da qualsivoglia espiazione, almeno fino a quando non gli sarebbe stato dato di sognare, in uno schietto sogno infantile, ogni cosa interamente di nuovo, dallo spermario al crematorio. Aveva una grande opinione di questa situazione post mortem, i cui vantaggi gli si presentavano alla mente con tanti di quei particolari che si augurava sul serio di giungere alla vecchiaia. In questo caso, difatti, avrebbe avuto a disposizione molto tempo per starsene lì rannicchiato a sognare, guardando le aurore correre nel loro zodiaco, prima di ascendere la montagna fino al Paradiso. La pendenza lì era superba, e sempre un po’ meno. Dio non volesse che qualche devoto negoziante gli accorciasse la permanenza con una buona preghiera». Cfr. Murphy, p. 57.
8 - Come si vede, l’assurdo e la contraddizione abitano ogni discorso su Beckett rendendolo un esasperante groviglio di vicoli ciechi e di roundabouts.
9 - «Lo stato di languore nel quale questi trascorreva i suoi giorni, pur scivolando di tanto in tanto fino a un’affascinante sospensione dei gesti, non toccava però mai il fondo di una totale inibizione al movimento. […] Una psicosi così limpida e imperturbabile che Murphy vi si sentiva attratto come Narciso alla fonte», cfr. Murphy, pp. 131-132.
10 L’autore lo dice esplicitamente, illustrando «la sensazione, sempre più forte via via che invecchiava, che la sua mente era un sistema chiuso, non soggetto ad altri principi se non ai suoi, autosufficiente e impermeabile alle vicissitudini del corpo», ivi, pp. 78-79. Cfr. anche p. 128, con la descrizione della camera imbottita, paragonata proprio a una monade.
11 - Cfr. G. CELATI, Su Beckett, l’interpolazione e il gag, in ID. Finzioni occidentali (1975 e 1986), ora terza edizione rinnovata Torino, Einaudi 2003.
12 - C. CASES nella Nota introduttiva a R. MUSIL, L’uomo senza qualità, Torino, Einaudi 1972, segnala che «il carattere autobiografico si manifesta fin dal principio, fin da quando Musil scrive i frammenti su Monsier le vivisecteur. Qui il personaggio è insieme uomo di mondo e assassino di ragazze, cioè contiene contemporaneamente i futuri Ulrich e Moosbrugger. […] Nell’ottobre 1913, a Roma, aveva visitato il manicomio di via della Lungara (oggi piazza della Rovere), riportandone una profonda impressione consegnata nel diario. Le varie descrizioni del manicomio dove è internato Moosbrugger si rifaranno sempre a questa visita», cfr. p. XXIV.

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