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Benzoni #2 - Zoppicare dopo gli angeli: Celan

mercoledì 11 febbraio 2004, di Lorenzo Flabbi

La seconda parte (la prima è qui, la terza è qua) di uno studio sulla poesia dei "Numi di un lessico figliale" (Marsilio 1995) focalizzata sugli effetti dell’attraversamento dell’opera di Paul Celan da parte di Ferruccio Benzoni (1949-1997).

Paul Celan

Abbiamo già accennato a una forte influenza della poesia di Paul Celan su quella benzoniana nei termini di una raggiunta sobrietà essenziale della lingua. Questa direzione, oltre che verificabile stilisticamente, ci viene indicata dalla serie di riferimenti diretti di cui i Numi da un lessico figliale sono disseminati. Val la pena qui di fare il punto sulla frequenza di alcuni riferimenti celaniani tentando di fare qualche accorgimento a quanto detto finora in sede critica.
Il punto di partenza non può che essere la sezione Dietro me stesso, che è già dal titolo una citazione di cui è possibile seguire le tracce fino all’origine. La poesia eponima della suite inizia con il verso ’Ich leuchte hinter mir’ che è stato commentato come una delle numerose ricorrenze di interi segmenti frastici in francese o, come in questo caso, in tedesco. Il che è senz’altro vero, ma svuotata dell’origine celaniana la citazione non è più tale e sembra quasi essere proposta come invenzione d’autore. Invece il riferimento è diretto: il verso in questione è infatti preso da Du mit der Finsterzwille, (Tu con la frombola al buio) della raccolta celaniana Schneepart (Parte di neve), pubblicata postuma nel 1971 (16) : ’Es ist Uberabend, / ich leuchte hinter mir selbst’ (vv.3-4) (17) . Nella stessa Dietro me stesso, Benzoni affronta il tema del suicidio di Celan, il quale il venti di aprile del 1970 si gettò nelle acque della Senna dal ponte Mirabeau (’svenandosi in stilemi ultimi / prima che lo ripescassero / sconciato in una gora’, come in effetti accadde: il corpo di Celan fu rinvenuto qualche settimana dopo il suicidio una decina di chilometri a valle, in una chiusa). Incuriosisce come Benzoni in questa poesia vada elaborando una sorta di rêverie, un periodare onirico di stampo visionario secondo un

Paul Celan

procedimento per accumulo metaforico più caratteristico delle sue opere precedenti che non dei Numi (18) . Si tratta di un paradosso non raro in letteratura, quello di un poeta a cui capita di distanziarsi stilisticamente dal proprio modello proprio nel momento in cui sembra farsi ad esso più vicino (tematizzando la prossimità o, come più spesso accade, traducendolo), paradosso di cui la spiegazione forse più convincente è quella data dai testi degli anni settanta/ottanta di Harold Bloom a proposito dell’angoscia dell’influenza (19) .
Sul suicidio di Celan Benzoni torna almeno altre due volte. In un caso in maniera scoperta,

Harold Bloom

decisamente tributaria a partire dal titolo. È quello di Verso il venti d’aprile, poesia della sezione Convalescenze che abbiamo già notato essere quella più fortemente marcata da una fissata frammentarietà di stampo prettamente celaniano (e anche qui, infatti, troviamo occorrenze di quel verso secco con il punto finale che si è già sottolineato: ’Precipitando allucciolava la Senna. / Prima dei suoi corvi d’abisso.’ vv. 1-2). Nel secondo caso la morte di Celan è evocata in maniera più fine e complessa, ad una temperatura di combustione decisamente superiore: si tratta di Dopo l’ira (prima poesia di Dietro me stesso), uno degli esempi più fulgidi della consapevolezza della resa, della fatica del vivere. Vi si evoca un tuffo ’passato e ripassato nella mente, / coccolato, covato;’ risulta evidente, a questo punto, come dietro a quel tuffo rivissuto mille volte au ralenti ci sia in trasparenza quello celaniano. Ma in primo piano vi è la memoria di una tentazione suicida vissuta dallo stesso soggetto lirico: la luce del sole alla finestra funge come da richiamo per il gran salto, il varcare prepotentemente la soglia. Ad attenderlo nel crollo un pavimento di mare, quel mare che, ricordiamolo, è carico di una notevole pregnanza simbolica tutta legata ancora una volta alla figura della madre (e basti vedere la poesia di apertura della raccolta, Giovanna, quasi l’esergo dell’intero libro) e a una conseguente thalattica regressione (20) .

La luce del sole alla finestra.
_ Un piancito di scaglie di mare che s’apriva
_ dopo un volo bocconi...
_ [...]
_ Ma come si fa - dimmi - a zoppicare
_ dopo gli angeli, barattare
_ una larva di sole alla finestra
_ con le gemme che spurgano dai rami
_ il fiato del fieno fradicio
_ e quei vetri marezzati
_ solo ieri composti in un amoroso gelo. [...]

La resa non è espressa coi toni minimalisti che caratterizzano altri componimenti (si pensi in particolare alla sezione L’amnesia dei morti, dal tono antiretorico, minore, in cui sembrano più forti i legami con i poeti della Linea lombarda). È la presa diretta di uno strazio. Sono anche alcuni tra i versi di maggiore intensità del libro, di una tensione vibrante. Dietro al tu conativo di quel dimmi non c’è altri che il poeta stesso, in un dialogo sconsolato in cui il pensiero si volge alle immagini solo parzialmente salvifiche delle gemme e del ’fiato del fieno fradicio’. Parzialmente poiché il poeta dà testimonianza comunque dell’inadeguatezza sua e del gesto non compiuto. Zoppicare dopo gli angeli è forse la locuzione più adatta per descrivere tutto quel moto di slancio e abisso che stiamo indagando. La salvezza, più che in un impossibile ritorno al passato, si dà solo nel presente reiterato della grazia, un presente possibile ma raro e sempre caduco, costantemente nella fase a ridosso del proprio annientamento, come in Felicità raggiunta di Montale. Giustamente Giancarlo Sissa ha notato come nell’opera benzoniana "la poesia come cronologia, diario e canzoniere e la poesia come frammento e traccia residua della trance convivono sin dall’inizio, anche se poi la seconda accezione finisce col prevalere".

Giancarlo Sissa

Ma in Benzoni non è data grazia senza il dolore della rievocazione dell’evento. È la resistenza all’oblio, alla resa definitiva, la ricerca della coerenza poetica, quell’affrancarsi da una vita mediocre a cui si sfugge anche a costo di sordidi patti quali la mancata elaborazione dei propri lutti: ’La vita mia riudita / da una grazia patteggiata / sordidamente con le tenebre’ (21) . Il prezzo da pagare per la poesia è dunque alto, giacché la poesia è essa stessa l’unica via di un comunque poco plausibile riscatto. Zoppicare dopo gli angeli implica il costringersi a tornare nella stanza nera dei ricordi - all’immagine azzurra della madre - e reiterare così la lacerazione.
È in questo senso che si potrà illuminare una delle affermazioni più perentorie del libro, nella poesia dedicata a Fortini: ’Liberarmi della letteratura / è la mia voglia...’. Non è forse lo stesso Benzoni a darci i segnali del suo essere attaccato alla poesia come a un cornicione, a mostrarci quanto la poesia sia stato il suo strumento di conservazione fanciullesca, per mai crescere? Laddove l’uomo è costretto all’abbrutimento della vita, il poeta si salvaguarda nel ricordo e in quel panorama poetico vive il proprio più intimo tormento e la propria dimensione più profonda, estenuante. La poesia, è stato detto, è sempre una serva padrone che rifà il verso alla vita mentre la prende per la coda. Ma essa è anche una dannazione indelebile. In essa convivono al contempo il riscatto e la piena consapevolezza di quanto la propria avventura sia riassumibile come ’la solita forca / letteraria più o meno / esclusivamente fallimentare.’ (22)
Vittorio Sereni, colui che più di ogni altro può essere a ragione indicato come il padre letterario di Benzoni, disse che "ci sono determinati fatti, magari non tanti,

Vittorio Sereni

che non danno quiete finché non trovano in questo modo la loro sistemazione" (23) . Non si tratta dunque di poetizzare l’esistenza, ma di dire qualcosa che è assolutamente necessario dire; una volta che un determinato fatto, un qualunque fatto, sensazione, emozione, ha dato il suo allarme, stimolando la sensibilità del poeta, quel fatto deve essere espresso. "Si determina come un vuoto, cioè c’è una casella nella propria esistenza che non si è sistemata." (24) Sappiamo che quel fatto, l’evento per antonomasia nella vita e nella poesia di Benzoni, fu la perdita della madre. Da allora, Benzoni è stato come costretto a tornare a quella stanza in cui ha avuto sempre libero accesso, quella di quel dolore (non il dolore, dunque, ma quello specifico) per poter continuare a scrivere. La grazia fu precocemente marcata dalla perdita, fino a che la prima è diventata il rovescio dell’altra, a essa inscindibile. Questo è forse al contempo il limite e l’aspetto più commovente della sua parabola poetica. La coscienza infelice che nasce dalla impossibilità di dire come si vorrebbe e da quella di non potersi esimere dal dire. E riecheggiano le parole di Paul de Man: "L’ambiguità di cui parla la poesia è quella, fondamentale, che prevale tra il mondo dello spirito e quello della sostanza sensibile [...] ma lo spirito non riesce a coincidere col suo oggetto e questa separazione è infinitamente dolorosa" (25) . In Pagina amorosa postuma (del Sogno del fiaccheraio), le maglie della memoria si stringono attorno a un particolare di intimità assoluta, investendo il poeta con un tormento insostenibile, stordendolo fino all’abisso. Ma l’argomento sembra assumere dimensioni tali da impazzire nelle mani del poeta, il quale fatica a tenere a bada il flusso della propria evocatività poetica, a discapito di un vero e proprio processo di elaborazione immaginativa.
Torniamo a Celan. Se quelli al suo suicidio sono i riferimenti più interessanti, non ne mancano certo altri meno significativi tematicamente, ma in ogni caso pregnanti. Celan è chiamato in causa direttamente anche in Dormitorio (in Sogno del fiaccheraio), il cui primo verso, ’Dein Aug, so blind wie der Stein’ (26) , ricalca fedelmente il terzo verso della celaniana Blume (Fiore) (27) , poesia di Sprachgitter (Grata di parole, 1959). In questo caso alla citazione segue una bella terzina ispirata (’E così non potevo / cieco come una pietra / intravedere un mare.’) in cui Benzoni torna a svolgere la narrazione che ha in atto nella suite Sogno del fiaccheraio il cui impianto è, come vedremo tra breve, basato su I quattrocento colpi di Truffaut. Basti per ora notare questa sovrapposizione di più piani tematici e temporali, gioco di incastri ordinati e forieri di diversi piani di lettura a seconda che si prendano le mosse nell’interpretazione da un elemento (quello letterario: qui Celan; quello cinematografico: qui Truffaut; quello biografico: qui ancora una volta la madre, la diafana lei del terzultimo verso) o dall’altro. Ma nessuno è da privilegiare, giacché tutti hanno un’importanza decisiva che rende organica la lettura soltanto se essi sono messi in relazione dinamica tra loro.
Un’ulteriore influenza celaniana è rintracciabile, anche se in maniera meno lampante, ne La neve, ultima poesia di Convalescenze e in posizione immediatamente successiva a quella Verso il venti d’aprile che abbiamo già osservato essere uno dei tributi più diretti. Il riferimento in questo caso sarebbe almeno a Es stand (C’era) in Zeitgehoft (La dimora del tempo) e alla sua folgorante chiusa: ’ich stand / in dir.’ (28) Così anche Il cappotto (nel Sogno del fiaccheraio) sembrerebbe essere scritta pensando a Largo di Schneepart: comune il referente femminile, comune il contesto amoroso (’gross liegen / wir beieinander’ (29) in Celan, ’il tuo tétin rose’ in Benzoni), comune la tematizzazione del legame amore/morte (le ’Weissen Metastasen’ e il ’morivamo senza pastrani’). E queste numerose vicinanze tematiche sembrerebbero essere sintomaticamente rivelate anche dalla scelta simbolica dei rari colchici appartenente a entrambi

Una veduta del Pont
Mirabeau, ultimo ospite
terreno di Paul Celan,
il 20 aprile 1970.

i componimenti.
Si può dunque individuare la presenza di Celan a diversi livelli di profondità ermeneutica che, stabilendo una provvisoria assiologia, possono essere così elencati: il personaggio, le infiorescenze testuali, la scelta di un linguaggio il più possibile essenziale. Ma non solo. Di Celan John Felstiner disse che trovò in sua madre la musa della memoria (30) . E nella simbologia cromatica celaniana la madre è spesso affiancata all’azzurro. Nel marzo del ’70, poco prima del suicidio, il poeta di Czernowitz tornò a prediligere la poesia di Rilke Der Tod (La morte), il cui celebre inizio recita: ’Da steht der Tod, ein bläulicher Absud’ (31) . In Benzoni questo legame tra l’azzurro e la madre è presente in maniera ossessiva, producendo un effetto di ridondanza al quale è impossibile sottrarsi.


Note

NB. La numerazione delle note prosegue quella della prima parte pubblicata qui.

16 Per le traduzioni e le pagine relative a Celan faccio riferimento al volume: Paul Celan, Poesie, I Meridiani Mondadori, Milano 1998, tradotto e a cura di Giuseppe Bevilacqua.
17 ’È ultrasera, / io faccio luce dietro me stesso’, Celan, Poesie, op. cit. pag. 1129.
18 Ecco la descrizione della parabola del verso benzoniano secondo le parole di Giancarlo Sissa: "più lungo (in alcuni luoghi quasi prosastico) nelle prime prove, da La casa sul porto fino almeno a Notizie dalla solitudine, poi verso sequenza (quasi fotogramma filmico per il quale l’autore stesso suggerisce una sorta di montaggio cinematografico) in Fedi nuziali e Numi di un lessico figliale, fino alla liberazione compiuta del frammento celaniano nel postumo, compiutissimo Sguardo dalla finestra d’inverno dove il dialogo con i morti si fa quasi partitura teatrale." In Giancarlo Sissa, Una molteplicità dolente, In "Stagione di poesia", Almanacco del centro di poesia contemporanea dell’università di Bologna, N.1.
19 Su tutti cfr. Harold Bloom, The Anxiety of Influence, Oxford University Press, New York 1973, tr. it., L’angoscia dell’influenza. Una teoria della poesia, Feltrinelli, Milano 1983, e, dello stesso autore, Agon. Towards a Theory of Revisionism, Oxford University Press, New York 1982, tr. it. Agone: verso una teoria del revisionismo, Spirali, Milano 1985.
20 Benzoni, Estenuazioni, nella sezione Dietro me stesso, v. 11.
21 Benzoni, Signora M., poesia dedicata alla moglie, nella sezione Convalescenze, vv. 5-8.
22 Benzoni, Nei paraggi di un dio furtivo, vv. 8-10.
23 Da un’intervista a Vittorio Sereni registrata da una studentessa di Padova il 24 aprile 1971 e riferita da un appunto di M.T. Sereni, ora in Sereni, Poesie, I Meridiani Mondadori, Milano pag. 793.
24 Ibid.
25 Paul de Man, Impasse de la critique formaliste, "Critique", n. 109, giugno, pag. 491, poi in Edoardo Saccone, Pratica e teoria della lettura, introduzione a Paul De Man, Allegorie della lettura, Einaudi, Torino 1997, pag. XIV.
26 Trad.: ’Il tuo occhio, come pietra cieco’, Celan, Poesie, op. cit. pag. 274.
27 Eccone l’incipit: ’Der Stein. / Der Stein in der Luft, dem ich folgte. / Dein Aug, so blind wie der Stein’ (Trad.: ’La pietra. / La pietra nell’aria, cui tenni dietro. / Il tuo occhio, come pietra cieco.’) Celan, Poesie, ibid.
28 Trad.: ’io ero / in te.’ Celan, Poesie, op. cit. pag. 1307.
29 Trad.: ’ci stendiamo l’uno accanto / all’altra’. Celan, Poesie, op. cit. pag. 1141.
30 "In his mother the poet finds a muse of memory", John Felstiner, Translating Paul Celan’s "Jerusalem" Poems, in "Religion and Literature", XVI, 1984, 1, pagg. 37-47, ora in Celan, Poesie, op. cit. pag. CXLII.
31 Trad.: ’Ecco la morte, un infuso azzurro’. Sulla poesia di Rilke, che insieme a poche altre segnò (il 9 novembre 1915) la ripresa del lavoro dopo un lungo periodo di inattività, cfr. la lettera a Lotte Hepner immediatamente precedente alla poesia stessa in Rainer Maria Rilke, Poesie II, Einaudi-Gallimard, Torino 1995, pagg. 798 e sgg.

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