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04 - Recensioni (per parlare d’altro)

Volker Koepp, o la lingua della memoria

Dieses Jahr in Czernowitz, di Volker Koepp, BRD, 2004

martedì 11 maggio 2004

Dieses Jahr in Czernowitz (Quest’anno a Czernowitz) ?® un documentario su alcune persone originarie di Czernowitz, conosciute dal regista durante le riprese del suo film precedente, Herr Zwilling und Frau Zuckermann. Per la maggior parte si tratta di ebrei di madrelingua tedesca fuggiti durante la seconda guerra mondiale.
L’opera ?® stata presentata all’ultima mostra del cinema di Berlino nella sezione "Forum".

Questa non è una recensione. È piuttosto un pretesto per parlare d’altro. D’altronde, questo non è un film. È, come si legge, un documentario. In realtà si tratta della documentazione di un viaggio verso un luogo, che è anche un luogo, il luogo, della memoria. Non si allude, qui, solo a un’alterità geografica, a uno spostamento verso un punto nello spazio, ma anche a un viaggio in verticale, un affondamento verso il passato. È il ritorno a un luogo, ma anche il ritorno a un

tempo. E nel ritornare la memoria si condensa (verdichtet sich) in quello che ne è il depositario più inconsapevolmente, ed espressivamente, immediato: la lingua. E nella fattispecie la lingua tedesca che i protagonisti adoperano, nonostante da lungo tempo vivano altrove, una lingua spuria, scomposta, piena di interferenze, un tedesco che si porta dietro una frattura irreparabile, irrimediabilmente legato a quel tempo e a quel luogo.

Czernowitz, in Bukovina, faceva parte dell’impero absburgico; dopo la prima guerra mondiale divenne territorio rumeno, fino a quando il secondo conflitto mondiale non ne fece una sorta di terra di nessuno su cui passarono russi e tedeschi. E Czernowitz è anche la città di nascita e di giovinezza di Paul Celan, la cui presenza, che diventa esplicita solo in un paio di momenti del film, è però avvertibile in maniera costante.

"An einem Abend der fassungslosen Traurigkeit ertappte ich mich über dem Gebrauch des lächerlich falschen Konjunktivs eines selber schon nicht recht hochdeutschen Verbs, der dem Dialekt meiner Vaterstadt angehört. Ich hatte die zutrauliche Mißform seit den ersten Schuljahren nicht mehr vernommen, geschweige denn verwandt. Schwermut, die unwiderstehlich in den Abgrund der Kindheit hinunterzog, weckte auf dem Grunde den alten, ohnmächtig verlangenden Laut. Wie ein Echo warf mir die Sprache die Beschämung zurück, die das Unglück mir antat, indem es vergaß, was ich bin"
("In una sera di tristezza desolata e inconsolabile mi sono sorpreso a adoperare il congiuntivo goffamente erroneo di un verbo che non è nemmeno propriamente altotedesco, una forma che appartiene al dialetto della mia città natale. Non mi era più accaduto di udire, e tanto meno di usare, quel solecismo familiare fin dal tempo dei primi anni di scuola. La malinconia, che scendeva irresistibilmente nell’abisso dell’infanzia, aveva ridestato, sul suo fondo, l’antico suono, in cui trovava espressione un desiderio impotente. La lingua mi rimandava, come un’eco, l’umiliazione che mi ha inflitto la malasorte, dimenticandosi completamente di quello che sono") (3) .

Sono le parole di Adorno, la cui riflessione parte qui da una parola, pronunciata o ascoltata, ma comunque detta. E questa parola nasce da un abisso. L’abisso di una tristezza che invece è muta. "Fassungslos": una tristezza che non ha espressione verbale perché legata a una dimensione linguistica che è anche la

Theodor W. Adorno

dimensione della memoria, della propria memoria personale, del proprio carico di passato. E l’unico modo di darle espressione sembra quello di una parola sbagliata, apparentemente casuale.
Un’idea del genere la si ritrova nel film mettendo a confronto la lingua dei protagonisti che rievocano il passato, che è appunto lingua della memoria e perciò stesso imperfetta come imperfetta (unvollkommen) è la vita, e la lingua della ragazza che fa da guida e

Volker Koepp

interprete quando l’azione si sposta a Czernowitz stessa, oggi Ucraina. Questa ragazza, di madrelingua russa, si esprime perfettamente anche in tedesco e in inglese. Ed è proprio questa "perfezione" a dare la misura di come questa sua lingua sia opaca, senza passato. Nella lingua della memoria invece traspaiono lo sradicamento, la molteplicità e la complessità delle lingue del mondo e delle modalità con cui il mondo stesso viene strutturato in esse:

"mehr als jedes andere Ausdrucksmittel ist Sprache Vermittlungsinstrument zwischen Subjekt und Objekt; sie begründet nicht, aber sie bildet und erhält die Kulturwelt dieser Vermittlung"
("più di ogni altro strumento espressivo, la lingua è uno strumento di mediazione tra soggetto e oggetto; non fonda, ma costruisce e mantiene il mondo culturale di questa mediazione") (2) .

La lingua, dunque, apre squarci abissali sul passato. Il vero luogo della memoria sono le lingue che la abitano. Chiunque abbia fatto esperienza dell’estraneità, di una terra la cui lingua è diversa dalla propria lingua madre si è dovuto, necessariamente, interrogare sul peso che essa ha nella costruzione della propria identità. Della propria elementare identità di essere umano. Riusciamo a capire chi siamo solo in quanto riusciamo a dire chi siamo. E dire chi siamo è possibile solo in una lingua che sia "pesante", che porti con sé un carico di passato per cui le parole non sono neutre, e significante diventa l’inflessione, la sgrammaticatura, l’errore che non è solo una parola sbagliata, ma è parte di un passato vivo. E, allo stesso tempo, la leggerezza, la fragilità di un’identità fatta, appunto, di niente, se di niente sono fatte le parole che noi parliamo e ascoltiamo, che tentiamo alla meglio di incidere da qualche parte perché non vadano perdute, perché la nostra memoria, noi che siamo la nostra memoria, non vada perduta.
Non è un caso che gli autori fin qui citati abbiano tutti personalmente vissuto un’esperienza di esilio. Di esilio reale, di un’esistenza che diventa radicalmente diversa. Non si tratta, qui, delle motivazioni per cui questi intellettuali si trovarono a vivere altrove, né di approfondire il tema della ridefinizione del loro ruolo in un nuovo contesto. Si tratta solo di accennare al legame che esiste, più o meno consapevolmente, in ogni essere umano, tra la propria lingua madre, quella con cui si conosce e si dà una struttura al mondo, e la memoria della propria esistenza, che è quanto dire della propria esistenza in generale, poiché noi siamo, oggi, la somma di tutto ciò che siamo già stati.
Per chiudere, una citazione da Thomas Mann, esule in America, in cui è possibile trovare un riferimento alla questione dell’uso di una lingua straniera come strumento di comunicazione, attraverso la mediazione di Hans Castorp, il protagonista della Montagna incantata. Solo di un accenno, che però da una parte

illumina quella distanza - distanza che è insieme prossimità, che Thomas Mann conservò nei confronti dell’inglese, lingua d’uso e di "rappresentanza" - e dall’altra suggerisce come profondo e indissolubile, di tipo sostanzialmente diverso, sia invece il legame con la lingua madre, l’unica nella quale si è propriamente in grado di "parlare":

"daß ich diese Äußerungen auf Englisch zu machen habe, ist mir ausnahmsweise keine Erschwerung, sondern eine Erleichterung. Ich denke dabei gleich an den Helden meiner Erzählung, den jungen Ingenieur Hans Castorp, der am Ende des ersten Bandes der kirgisenäugigen Madame Chauchat eine seltsame Liebeserklärung macht, der er das Schleiergewand einer fremden Sprache, der französischen, überwerfen kann. Das kommt seiner Schamhaftigkeit zustatten und ermutigt ihn, Dinge zu sagen, die er auf Deutsch kaum über die Lippen bringen würde. "Parler français", sagt er, "c’est parler sans parler, en quelque manière". Kurzum, es hilft ihm, seine Hemmungen zu überwinden, - und auch die Hemmungen, die der Autor empfindet, der über sein eigenes Buch sprechen soll, werden gemildert durch das transponierte Sprechen in einer anderen Sprache"
("il fatto che io debba esprimermi in inglese per una volta non aumenta le difficoltà, anzi rappresenta una facilitazione. E qui penso subito all’eroe del mio racconto, al giovane ingegnere Hans Castorp, il quale, alla fine del primo volume, fa a Madame Chauchat, la donna dagli occhi di chirghisa, una strana dichiarazione d’amore, che egli può avvolgere nel velo d’una lingua straniera, la francese. Ciò è di aiuto alla sua timidezza e lo incoraggia a dire parole che gli riuscirebbe difficile pronunciare in tedesco. « Parler français » dice, « c’est parler sans parler, en quelque manière ». Gli giova insomma a superare le sue inibizioni: e allo stesso modo le inibizioni che l’autore prova dovendo discorrere del proprio libro vengono smorzate dal trasferimento in un’altra lingua") (4) .


Filmografia essenziale di Volker Koepp

Volker Koepp, nato a Stettino (Polonia) nel 1944, ha lavorato come regista al DEFA-Studio für
Dokumentarfilm
. Tra i suoi film ricordiamo:
Mädchen in Wittstock (1977)
Kalte Heimat (1995)
Wittstock, Wittstock (1997)
Herr Zwilling und Frau Zuckermann (1999)
Kurische Nehrung (2001)
Uckermark (2002).


Note

1 Paul Celan, Poesie, Milano, Mondadori, p.382, traduzione di Giuseppe Bevilacqua.
2 Th.W. Adorno, Minima Moralia: Reflexionen aus dem beschädigten Leben, Berlin u. Frankfurt/M, Suhrkamp, 2001, pp.200-201 [Minima Moralia: Meditazioni della vita offesa, Torino, Einaudi, 1994, p.127].
3 Ernst Bloch, Zerstörte Sprache, zerstörte Kultur - Vortrag im Schutzverband Deutscher Schriftsteller, New York, 1939, in: Gesamtausgabe in 16 Bänden, Frankfurt a/M, Suhrkamp, 1977, vol. 11,p.292.
4 Th. Mann, Einführung in den . Für Studenten der Universität Princeton, in: Gesammelte Werke, vol. XI, Frankfurt a/M, Fischer, pp.602-603 [Nobiltà dello Spirito, Milano, Mondadori, pp.1506-1507].

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