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Ottiero Ottieri - L’irrealtà quotidiana

lunedì 21 giugno 2004, di Marco Federici Solari Chianese

Désormais tu t’y connais
en perfections de noir

Ungaretti

"Hai bisogno solo di essere come sei, questo s’intende ora qui per politica" (1) scriveva a Herder un Goethe ventiseienne appena giunto a Weimar per fare il ministro, scoprire e affrontare la società e finalmente "agire". Lì egli formulerà con Schiller e tenterà di vivere, e rappresentare, il nuovo ideale classico dell’uomo completo, capace di muoversi e realizzarsi sia sul piano dell’azione che su quello

dell’idea contro la specializzazione, il pericolo dell’appiattimento sulla funzione insito nella società moderna (2) . Dieci anni dopo, l’uomo maturo, poeta e punto di riferimento e di contrasto per tutta la cultura europea, colto da una crisi morale e artistica che dura da mesi, fuggirà di notte, all’insaputa di tutti, dalla corte, dagli impegni (dall’impegno), al grido fanciullesco e liberatorio di "anch’io in Arcadia", verso l’Italia, da cui tornerà, salvo, "risolto", con la consapevolezza di essere soltanto un artista. In questo "soltanto" si consuma la fine di un’utopia, una resa, forse il raggiungimento di una maturità definitiva, comunque uno dei più noti e macroscopici scacchi nella travagliata storia dei rapporti tra intellettuali e società.

L’esperienza di Goethe mi è tornata alla mente leggendo L’irrealtà quotidiana di Ottiero Ottieri (premio Viareggio 1966), riuscito in libreria (per Guanda) quest’anno. Il libro, romanzo-saggio, opera complessa, spuria e "sperimentale", è il punto di svolta della vita e del percorso letterario di Ottieri, la porta che dalla "letteratura industriale" apre (lasciando sempre intravedere la stanza rumorosa da cui proviene) sull’abisso del dramma psichico, mai meramente personale proprio perché tanto puramente psichico.
Il germe della crisi, del malessere, non era naturalmente assente neanche nelle opere precedenti; anzi, Volponi docet, esso non sembra affatto separabile dall’idea stessa di letteratura industriale,

ma i tre puntini su cui si chiudeva La linea gotica ("Sarebbe ora di fare finalmente coincidere i fantasmi e la carne. Altrimenti…") mantengono sinistramente la loro promessa di vaghezza spalancandosi qui nell’indistinzione assoluta della nevrosi. Colpisce infatti per tutto il libro l’accanita (e l’ostinazione è certo la musa di Ottieri) resistenza a ogni definizione, anche solamente descrittiva di fronte a un oggetto per definizione (appunto) solo negativo, a un male che è "un vuoto che non si può riempire". Domina in ogni pagina un’analisi ininterrotta che mette a frutto e interroga tutti gli strumenti del proprio tempo per soffermarsi sempre sul carattere sfuggente, sullo stagnante "rovesciamento della dialettica", sull’"ambivalenza" dello stato di irrealtà. Un libro preciso come una lastra radiografica, ma proprio per questo necessariamente quasi privo di metafore, privo di "come", al posto dei quali emergono figure, casi clinici reali o fittizi che culminano nella creazione, come per sedimentazione geologica (3) , dell’alter ego Lucioli, scrittore, psicologo, ma soprattutto nevrotico che permette a Ottieri di parlare da critico e da clinico di sé, di radicare la propria strana scrittura in una esperienza lineare, diacronica, in qualche modo ordinabile, e di tracciare, tra l’altro, una splendida e onestissima biografia di un intellettuale tra il fascismo e il dopoguerra.
La furia analitica dell’autore si muove per blocchi, per ritorni circolari rendendo palpabile alla "tattilità della mente" (4) il riapparire sempre diverso e sempre uguale dell’angoscia, il suo carattere ripetitivo, ossessivo (il libro è lo scontro tra due ostinazioni) che porta a continui inizi, riprese, attacchi. Sono proprio gli attacchi per Ottieri a distinguere la letteratura dalla filosofia, a salvare il suo libro all’arte, l’attacco, l’incipit, questo

improvviso "muovere contro" di parole e sentimenti quasi che nella letteratura, come nella nevrosi, un nemico ci fosse sempre (si pensi alla ricerca del nemico (le donne, i tedeschi, gli altri tout court) nel Mestiere di vivere di Pavese).
Tra i tanti problemi teorici che attraversano il libro (le interferenze tra Marx e Freud, la questione della scelta, la necessità del rapporto gerarchico tra paziente e analista, le potenzialità estetiche del transfert ecc.) sempre centrale rimane la questione della letteratura. Perché letteratura e non altro è il libro di Ottieri. La sua esperienza, per forza di cose, costringe l’autore a narrare riflettendo e a riflettere narrando, come testimonia la doppia ouverture dell’opera, un incipit saggistico e uno romanzesco, uno quasi testo a fronte dell’altro.

Il romanzo-saggio, endiadi che diviene in questo caso parola-valigia, è spinto verso un necessario, mai ricercato carattere sperimentale in cui si affastellano e sovrappongono citazioni, dibattiti psicoanalitici, personaggi e tentate descrizioni dell’indescrivibile, il tutto in un continuo, fagocitante dialogo interiore, un "contrasto", un discorso di discordia con se medesimi, come una versione frantumata in particelle del Testamento di Villon. Medium di questa oscillazione è una lingua che, come scrive Zanzotto, "non risulta particolarmente mossa, viene posseduta nel grigiore, depressa nella durée ossessionale" (5) , uno scrivere in cui, come in quello di ogni intellettuale veramente critico, "non è concesso abitare" (6) .
Per Ottieri "l’arte vive nella misura in cui corre fino all’estremo l’azzardo di decadere a opera della ragione, della storia e di tutte le concorrenze possibili." (7) Egli mette in scena il problema dell’autonomia dell’arte, questione attuale da più di due secoli e tanto più negli anni sessanta, indicando quasi programmaticamente, per bocca di Lucioli, una via che è certo ancora interessante: "Non sono mai riuscito a credere nella autonomia della letteratura, della funzione estetica e delle sue tecniche intrinseche. Troppo a lungo ho voluto scrivere senza fare lo scrittore. Sono ambivalentissimo verso la letteratura. Forse vorrei giungere ad essa senza volerlo. Anzi, mirando altrove." (8) Proprio questo dover essere altro (prima, per scelta, tecnico e intellettuale del gruppo Olivetti, poi, per costrizione, malato) come unica strada per giungere indirettamente alla letteratura è l’inquietante e stimolante reazione di Ottieri tanto più fertile e pericolosa rispetto alla matura soluzione goethiana. Se nel giovane Goethe l’utopia politica era quella di una società in cui ognuno è semplicemente e armonicamente quello che è, Ottieri, che non distoglie mai lo sguardo dalle radici sociali del disagio psichico, ci mostra una civiltà che ha sfaldato l’essere fin nella sua più elementare base percettiva, rendendo problematica la sensazione stessa di esistere. Nell’uomo colto dal sentimento di irrealtà, ripete più volte l’autore, non vi è spazio per alcuna etica, per alcuna distinzione morale tra bene e male. Quest’uomo, però, resta, anche o forse soprattutto perché sente di non essere, il famoso animale politico. Anzi Ottieri investe di una dimensione politica anche la più metafisica delle questioni, "l’essere o non essere", nel senso dell’ "esistiamo o non esistiamo".

La validità e la possibilità di questa minima non-rinuncia, unico sintomo buono in un mare di sintomi ciechi, è testimoniata dalla capacità comunicativa, ma non di contagio, del libro che fa percepire, dà concretezza e trasforma in esperienza un male altrui, fisico, riluttante a divenire parola, sospendendo per un attimo quella verità che Duchamp, con un’ironia che serpeggia spesso anche in Ottieri, scrisse a epigrafe sulla propria tomba: "A morire sono sempre gli altri".


Qui la bibliografia di Ottiero Ottieri.


Note

1 Lettera del 5/07/1776.
2 Ciò che più tardi verrà chiamato alienazione.
3 Si pensi al "diario geologico" del malessere ne L’uomo nell’Olocene di M. Frisch.
4 p. 30.
5 A. Zanzotto, Ottiero Ottieri: il pensiero perverso in Scritti sulla letteratura. Aure e disincanti nel Novecento letterario, Milano 2001 p. 57. Le parole di Zanzotto si riferiscono in realtà a Il pensiero perverso.
6 Così descrive Adorno a Mann il dramma dell’intellettuale in esilio, cit. in S. Catucci, Adorno un passo più in là, Il Manifesto 25/03/2004.
7 p. 162.
8 p. 258.

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