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"Il tramonto" della ragione genera mostri

"Der Untergang", regia di Oliver Hirschbiegel. Germania 2004.

lunedì 2 maggio 2005

[Uscito (finalmente?) in Italia, con insondabile senso della notizia, risbattiamo il mostro in prima pagina. Il pezzo era stato pubblicato in prima battuta il 2 ottobre 2004. lf]

Der Untergang (Il tramonto) racconta gli ultimi giorni di vita di Adolf Hitler: uscito nelle sale tedesche il 16 settembre, ?® l’ultimo tentativo di confrontarsi con un argomento fino a poco tempo fa quasi tab??. In Germania ?® diventato un evento che ha influenzato anche i palinsesti televisivi, provocando reazioni discordanti.

Der Untergang, regia di Oliver Hirschbiegel. Con Bruno Ganz, Corinna Harfouch. Germania 2004, 155 min. Produzione e sceneggiatura: Bernd Eichinger

Di solito, quando si vede un brutto film, la sensazione che si ha uscendo dal cinema è di disappunto, delusione, fastidio per il tempo che si è perso e il denaro che si è sprecato. Quando però questo film, oltre a essere brutto, è il sintomo inquietante di un certo modo di vedere la storia, quando è traduzione a uso e consumo delle masse di un revisionismo pericoloso e fuorviante, allora il disappunto per il tempo perso cede il passo all’indignazione. È questo il caso di Der Untergang, appena uscito nelle sale tedesche, che pretende di ricostruire fedelmente gli ultimi giorni della vita di Hitler, ormai asserragliato nel bunker di Berlino insieme ai suoi fedelissimi. È, come si diceva, prima di ogni altra cosa un brutto film: noioso e lunghissimo, visto che racconta in maniera melodrammatica, facendo leva sul sentimentalismo più spicciolo, una storia di cui conosciamo già l’esito. Sappiamo già come va a finire: e allora cui prodest?

Un film confezionato in questa maniera, con queste pretese di finto realismo, può funzionare se si tratta della storia di gente qualunque, come la tv dei buoni sentimenti ci insegna, di cui nulla sappiamo e nella quale possiamo immedesimarci, aspettando di vedere quale ne sarà la conclusione. Se, come nel caso presente, questo modo di raccontare viene applicato a una vicenda universalmente nota,

l’effetto sarà semplicemente soporifero. Che si potesse - o meglio che si sia voluto - tirar fuori un drammone da uno dei capitoli più infausti della storia del Novecento è cosa che lascia davvero senza parole: fingendo per un attimo di non sapere nulla della vicenda narrata, in effetti, il sentimento che il film trasuda è la compassione per i personaggi, la commozione - quasi - di fronte alle loro sfortunate vicissitudini. Ma la storia, purtroppo, c’è stata ed è nota, anche se l’intento del film sembra sia quello di farla dimenticare.

Il punto di vista attraverso il quale viene portata avanti la narrazione è quello della segretaria del Führer, Traudl Junge, rappresentata come una giovane e innocente fanciulla a cui precipitano addosso eventi più grandi di lei. E la sua prospettiva ingenua, con cui lo spettatore dovrebbe immedesimarsi, è ciò che dovrebbe mettere a tacere le coscienze dalle enormi responsabilità storiche che i fiancheggiatori del nazismo ebbero e hanno. Come scrive sulla Tageszeitung Diedrich Diederichsen in un articolo molto critico, alla fine del film questo personaggio, “col sole che splende dolcemente, prende per mano un ragazzino biondo attraverso i ranghi dei russi e, una volta trovata una bicicletta, tutto si sistema”. Mi è sembrata poi un’ulteriore aggravante la parte documentaristica che apre e chiude il film, con stralci di un’intervista alla Junge la quale dice, risolvendo così in due parole la questione, che effettivamente “ci si sarebbe potuti chiedere” che cos’era il nazionalsocialismo e quali barbarie esso implicava. La scelta del verbo non sarebbe potuta essere più infelice: “potere”. Non ci si sarebbe “potuti” chiedere: ci si sarebbe “dovuti” chiedere. Non si tratta qui di un passivo “non chiedersi”, ma di un attivo “non volersi chiedere” che cosa si stava facendo.

Paradossalmente, a questo proposito, l’unica battuta sensata del film viene messa in bocca a Goebbels, rappresentato come il tipo del cinico, quando dice: “Non provo nessuna compassione. È stato il popolo tedesco stesso a scegliersi questo destino”. A prescindere dal fatto che abbia ragione o meno, questo è l’unico punto veramente problematico del film, che potrebbe aprire il varco a una riflessione seria, e lo è - purtroppo - in maniera del tutto involontaria.
Parallelamente alla caratterizzazione della segretaria procede quella di Hitler, rappresentato come un povero pazzo delirante, che urla e sbraita e strepita, per cui si può provare al massimo un po’ di pena. Di lui vengono mostrate l’ostinazione con cui si rifiuta di accettare la sconfitta e le gentilezze da vecchio burbero verso la segretaria, la mania per la cucina vegetariana e il fatto che neppure la sua compagna Eva Braun sia mai riuscita a conoscerlo fino in fondo (i problemi della coppia negli anni Quaranta...).
C’è un unico punto in cui Hitler, ormai conscio dell’approssimarsi della sconfitta, si compiace di sfuggita di aver “almeno” liberato l’Europa dagli ebrei, e un altro in cui un gerarca confessa il suo timore per l’avanzata degli “occhi asiatici” (i Russi ormai alle porte). È quasi solo con queste battute che viene liquidata la questione della razza, per far posto ai buoni sentimenti, rappresentati dal personaggio di Schenck, medico delle SS che si prodiga a salvare vite umane (ariane, supponiamo, ma questo non viene specificato) anche quando non sarebbe obbligato a farlo.
Quando si affronta un argomento del genere è doveroso prendere una posizione, fornire un punto di vista preciso sulle cose, acquisire uno sguardo che permetta una valutazione dell’accaduto. Anche tramite la chiave della leggerezza, come è nel caso di To be or not to be di Lubitsch o The Great Dictator di Chaplin,

ma comunque attraverso una distanza.
Qui, invece, la pretesa di oggettività su un tema in cui non ci può essere nessuna oggettività, dove il raccontare implica di per sé la necessità di un giudizio e l’apertura di un discorso, non lascia spazio neanche per un attimo alla riflessione critica, e il tono cronachistico-sentimentale diventa il pretesto per un abbassamento generale del livello di guardia contro le aberrazioni della coscienza.
La distanza storica che ci separa dai fatti non viene utilizzata come margine di riflessione, ma come scusa, come volontà di dimenticare e di lasciare che tutto si appiattisca nel calderone del passato remoto. Francamente il timore che questo film abbia reso palese, e in qualche modo accettabile, un certo revisionismo per cui i morti sono tutti uguali, e nella sofferenza generale non conta più chi sono le vittime e chi i carnefici, è forte.

L’uscita di questo film ha fatto molto rumore in Germania (i giornali riferiscono dell’enorme successo di pubblico ottenuto nei primi giorni di proiezione), scatenando dibattiti tra chi lo accusa di revisionismo e chi invece lo difende a spada tratta. Una stroncatura senza appello viene dalla Tageszeitung, che lo definisce

un ibrido tra “dramma della sopraffazione e prospettiva da segretaria”, mentre piovono elogi da parte di altri quotidiani. In un’intervista alla Bild-Zeitung, l’ex cancelliere Kohl afferma: “Questo film andava girato, e spero che più gente possibile vada a vederlo”. Il Tagesspiegel - come altri giornali - si chiede, rispondendo affermativamente, se mostrare un Hitler dal volto umano sia legittimo, come se la questione di fondo fosse questa, come se la domanda da porsi non fosse invece: a che serve mostrare questa faccia del dittatore?
L’impressione che ne deriva è che il sentimento dominante con cui ci si accosta all’argomento sia la paura, la paura di infrangere un tabù che in Germania ancora realmente esiste, anche se non dappertutto. Oppure, più semplicemente, che si parli tanto della “legittimità” di mostrare il lato umano di Hitler, e non invece del senso che un’operazione del genere può avere, è indice del fatto che, lungi dall’essere una tappa nella “storia dell’elaborazione” del nazismo (come invece afferma la Frankfurter Allgemeine Zeitung in un articolo del 15 settembre che non esita a definire Der Untergang “un capolavoro”), questo film sia solo un passo verso l’appiattimento delle coscienze e della riflessione critica sull’argomento.

Detta in due parole, la tesi che Der Untergang vuol dimostrare è: anche il Führer era un essere umano. Nessuno, credo, aveva mai ipotizzato che si trattasse di un alieno venuto da un’altra galassia.

L’antidoto a questo film? Mephisto di Klaus Mann, e l’omonimo film di István Szabó.

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