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"Epica dell’arcipelago" di Andrea Gazzoni, Le lettere, Firenze 2009, pp. 5-10.
Epica dell’arcipelago - Tutta l’introduzione...
...solo l’introduzione, nient’altro che l’introduzione
martedì 10 novembre 2009, di
IL RACCONTO DELLA TRIBÙ
C’è un nucleo radicalmente comunitario e anonimo all’origine della letteratura. Prima, oltre e dentro quegli statuti che chiamiamo ad esempio opera, autore, genere o soggetto, c’è un nesso originario, una pri¬migenia istanza comune che presiede all’invenzione di storie: fabula¬zione o mitopoiesi nella quale il soggetto individuale che scrive o parla o produce segni non è un creatore dal nulla bensì un tessitore, un in¬trecciatore. «Benché rinvii sempre ad agenti singolari, la letteratura è concatenazione collettiva di enunciazione» (1) , concatenazione epica.
Epos: narrazione. Epopea: composto di epos e poiein, un fare narrante che nelle sue origini orali era declinato in Grecia come rhaps?idein ov¬vero “cucire insieme canzoni”. Tutto quanto le tradizioni ci traman¬dano sotto il nome di “epica” ha la sua derivazione etimologica e so¬stanziale nella sfera prima della parola, generica, indifferenziata e viva; ancora più a ritroso, ricorda Ong, epos discende dalla stessa radice proto-indoeuropea (wekw-) del latino vox (2) . Comunitario sia nella dimen¬sione dell’esecuzione che in quella della composizione, «il canto epico orale è poesia narrativa composta nel corso di molte genera¬zioni da cantori di storie che non conoscono la scrittura» e che pro¬ducono canti sempre «in relazione ad altri canti in circolazione» (3) . C’è un repertorio collettivo che viene continuamente riformulato secondo due modalità complementari e indistricabili: rimemorazione e innova¬zione. Ma quali sono le condizioni della memorabilità e della novità?
La narrazione deve reggersi su una qualità incantatoria che ha il compito di tenere avvinto e unito l’uditorio: il ritmo è il suo primo ca¬rattere. Attraverso di esso la narrazione restituisce e conserva le con¬catenazioni che l’hanno generata, delineandone altre e nuove nel momento stesso in cui qualcuno ascolta il canto e lo ritiene in sé. Il racconto è condiviso, spartito. Non si racconta se non per e con qual¬cuno. Il passaggio alla scrittura non fa differenza, nemmeno quando colui che scrive appare al mondo come il più solitario degli individui. La concatenazione collettiva di enunciazione viene con la parola, non le pre-esiste.
Il gesto epico della narrazione attiva una produzione dell’immagina-rio che si attesta all’origine stessa della letteratura e che continua a ripetersi e propagarsi, come un sisma che ricominci ovun¬que infinita-mente, al di là delle specificazioni della parola. La radice narrativa dell’epica non può coincidere semplicemente con la narra¬zione così come la intendiamo comunemente, ad esempio in opposi¬zione alla forma non-narrativa della poesia lirica o del saggio. L’epos come con-dizione arcaica della parola deve essere la possibilità di un po¬polo attraverso l’uso poietico della lingua (o dei segni).
Ezra Pound definì «tale of the tribe» il carattere epico dei suoi Cantos (4) . La formula è limpida e vuole essere fondativa, ma può esserlo solo portando nel luogo dell’origine un’interrogazione incrociata: che cos’è la tribù e che cos’è il suo racconto? E il genitivo che lega i due elementi è oggettivo (la tribù è raccontata) o soggettivo (la tribù rac¬conta)? La “questione omerica” diventa la questione stessa della pa¬rola come concatenamento epico, in quanto lo spinoso problema dell’identità degli artefici di Iliade e Odissea ne dischiude un altro, che eccede il dominio filologico: dove e come viene alla luce un corpo poetico del popolo che sia in relazione a quel corpo reale dal quale il racconto nasce? Dietro al nome proprio di Omero, afferma Vico, c’è un nome comune, attribuito ai rapsodi ciechi, «onde ognun di loro si disse “omèro”», secondo un’incerta etimologia; con omero non si dice solo una menomazione fisica diffusa tra gli aedi ma anche e soprat¬tutto la potenza anonima e collettiva del racconto, perché i rapsodi «erano parte di que’ popoli che», nei poemi omerici, «avevano com¬posto le loro istorie» (5) .
Questa è una delle poste in gioco radicali di quel che continuiamo a chiamare “letteratura”: resistere al de-popolamento, «inventare un popolo che manca» (6) , che non coincide tuttavia con le figure dominanti e iden¬titarie che ossessionano ogni immaginario collettivo. Il popolo che manca non si può nemmeno sovrapporre ai popoli “reali”: esso ne è piuttosto un’intersezione, un attraversamento, una magnetizza¬zione del loro corpo tale da rendere possibili nuovi concatenamenti. La letteratura si volge non ad un popolo (un soggetto collettivo omo¬geneo che si presuma “reale”) ma ad un popolamento: la tribù che esige di essere raccontata e di raccontare è un processo, un divenire che passa per la scrittura e postula nuovi concatenamenti. Piegando alla prima persona plurale la frase di Rimbaud (nella lettera del 13 maggio 1871 a Georges Izambard), possiamo dire che la postura epica origina¬ria è quella che ci fa dire: NOI è un altro.
Una «razza bastarda oppressa che ininterrottamente si agita sotto le dominazioni, resiste a tutto ciò che schiaccia e imprigiona e si confi¬gura in profondità nella letteratura come processo» (7) : questo popolo non è una “cosa”, perché è impuro, incompiuto, aperto. Non è il sog¬getto o l’oggetto di una rappresentazione. Anche come tale tuttavia è stato inteso all’interno della tradizione epica occidentale, la quale ha finito in parte per rovesciare la sua originaria funzione comunitaria, partecipando a quella «depopolazione del popolo» che in ogni luogo e in ogni epoca è perseguita dai poteri costituiti (8) , che a questo fine si servono, con un paradosso solo apparente, di immagini del popolo. Esse sono i simulacri del popolamento, le sue scimmie, che ne ripropon¬gono alcuni tratti al fine di organizzarne, contenerne e disciplinarne il divenire. L’insidia permanente dell’epica è lo spettacolo del popolo, «stru¬mento di unificazione» di una falsa coscienza e al contempo «linguag¬gio ufficiale della separazione generalizzata» della vita da se stessa (9) . Il de-popolamento non è solo un massacro o un crollo demografico, ma è il venir meno della possibilità stessa del popolamento, dell’empatia che diviene nesso e legame.
La tribù e il suo racconto non si misurano sui loro visibili successi, storici o finzionali che siano: la risonanza empatica dell’epica, grazie alla quale un popolamento è favorito e magnetizzato, è un processo che in potenza e in atto viola l’apparente compattezza che un popolo costruisce intorno alle sue vicende, per delineare altri percorsi attra¬verso la pietà e la contraddizione. Dove il popolo è più prossimo al de-popolamento, lì l’epica comincia continuamente: nel pericolo.
Questa situazione estrema, che insieme allo spettacolo incombe sulla possibilità del popolo, non è di oggi ma di ogni tempo. Tuttavia l’eventualità o la realtà della distruzione – fisica e spirituale – dei po¬polamenti ha acquisito nella nostra contemporaneità una dimensione inedita: sia per scala che per propagazione. Gli arsenali di armi di di¬struzione di massa detengono il massimo potere anti-epico, quello di estinguere l’intero popolo planetario; d’altro canto nella rete del si¬stema-mondo ogni sterminio, anche minimo, può trasmettere il suo sisma verso tempi e spazi differenti, favorendo una stratificazione e una connessione di esperienze anti-epiche (ed epiche) più accelerata e intensa di quanto fosse possibile nel passato. Nondimeno il gesto epico, che raccoglie l’intenzionalità più profonda e arcaica della narra¬zione, permane nella sua necessità come apertura di una faglia dalla quale nasce il contro-sisma dell’epica, opposto alla distruzione e a essa intimamente prossimo.
Il Novecento è il secolo del massimo annientamento anti-epico (di persone ma anche di regni di viventi prossimi all’umano entro la bio¬sfera) e, allo stesso tempo, della maggior proliferazione di popola¬menti epici. Parte di essi si sono raccolti sotto il segno della decolo¬nizzazione. Ma non hanno fine né il dominio reale né gli spettri di tutti gli stermini di popoli accumulati nel corso dei secoli dai conqui¬statori. Da (e contro di) essi la parola attinge a potenze antichissime e nuove. I racconti delle tribù si propagano per il globo attraverso in¬numerevoli epicentri: la centralità epica occidentale non regge più. Il gesto epico si moltiplica, diviene rete. Di esso Derek Walcott, con Omeros, ci ha dato una matrice generativa.
In seguito all’arrivo degli europei, nei Caraibi (o Indie Occidentali – West Indies – o Antille) lo sterminio delle popolazioni originarie è av¬venuto in un lasso di tempo brevissimo, forse senza pari sull’intero pianeta. De Las Casas, nella sua Breve relazione sulla distruzione delle Indie, del 1552, passa in rassegna isole o parti del continente una dopo l’altra, e per ognuna, con stupefacente monotonia, ripete le medesime frasi e parole a proposito di rapine, massacri, distruzioni, e del conse¬guente e sconcertante numero di morti. Ecco un esempio di questa sequenza di annientamenti:
Dopo si risolsero di andar a caccia degli Indiani, ch’erano per li monti; dove fecero stragi maravigliose: e così rovinarono, e spopola¬rono tutta quest’Isola; la qual noi vedessimo già poco fa; e è cosa di compassione, e di cordoglio grande, vederla desertata, e fatta tutta un eremo. (10)
A questo primo evento anti-epico ne succede un altro: il commercio di schiavi africani, i quali costituiranno in seguito la maggioranza della popolazione dell’arcipelago e condivideranno, con i loro padroni e le altre minoranze giunte in momenti successivi, la mancanza di radici ancestrali nelle terre del Nuovo Mondo.
L’affermazione epica che ne sortirà sarà allora di una specie al con¬tempo nuova e antichissima: da questa imminenza del niente emerge un concatenamento epico che deve riconoscere come dati immediati l’apertura, l’impurità, l’incompiutezza dell’umano che si fa corpo col¬lettivo. Dall’esperienza della Babele politica, etnica, linguistica e cultu¬rale dell’arcipelago, dai margini dell’annientamento, intravediamo, come dice lo scrittore e teorico martinicano Glissant, un «popolo com¬posito, sparpagliato, ma inevitabile» (11) .
Derek Walcott ha captato attraverso la parola questo popolamento frammentato dei Caraibi e, da poeta, lo ha modulato secondo le figure della similitudine, la metafora, il ritmo. Tutte figure, queste, prese nel movimento ricorsivo che riporta anche la parola più eloquente e mo¬numentale a quell’istante in cui essa non era ancora fissata dalla pro¬nuncia di una bocca o dalla scrittura di una penna. Omeros non fa che tornare qui. E non fa che ritrovare quell’istante in ogni percezione, corpo o memoria che si trovi a entrare nella sua poesia. Lo fa con giubilo, pietà, gratitudine. C’è un’illuminazione elementare che espande e concentra l’animo di chi scrive (e di chi legge) ogni volta che una metafora o una similitudine o un ritmo o una rima portino all’intuizione di nuovi rapporti. Nel ricorrere di questa illuminazione – e non nel rapporto tra rappresentazione e rappresentato – Omeros ri¬trova la genesi continua del nesso tra racconto e tribù.
Note
1. G. Deleuze, Critica e clinica, Raffaello Cortina, Milano 1996, p. 17.
2. W. J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna 1986, p. 33.
3. A. B. Lord, Il cantore di storie, a cura di S. Mitchell e G. Nagy, Argo, Lecce 2005, pp. 50 e 247.
4. E. Pound, Guide to Kulchur, New Directions, New York 1970, p. 194. Sull’invenzione di questa formula, a partire da un passo di Kipling, vedi M. A. Bernstein, The Tale of the Tribe: Ezra Pound and the Modern Verse Epic, Princeton University Press, Princeton 1980, pp. 8-10.
5. G. Vico, La scienza nuova, a cura di P. Rossi, Rizzoli, Milano 1977, p. 579.
6. G. Deleuze, Critica e clinica cit., p. 16.
7. Ivi, p. 17.
8. G. Deleuze – F. Guattari, Mille piani, introd. di M. Guareschi, Cooper-Castelvec¬chi, Roma 2003, p. 481.
9. G. Debord, La società dello spettacolo, introd. di C. Freccero e D. Sturnia, Baldini e Castoldi, Milano 2002, pp. 53-54.
10. B. de Las Casas, Breve relazione sulla distruzione delle Indie, Datanews, Roma 2006, p. 40
11. É. Glissant, L’intention poétique. Poétique II, Gallimard, Paris 1997, p. 187.