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Leggere la cenere. Saggi su letteratura e censura
mercoledì 25 novembre 2009, di
Per l’amorevole cura di Roberto Francavilla è uscito presso Artemide il volume "Leggere la cenere. Saggi su letteratura e censura" che raccoglie interventi di una ventina di studiosi su un tema più tragico che spinoso, più urgente che attuale. Ne proponiamo qui un illuminante ed esplicativo estratto dall’introduzione (pp. 9-13).
[...] Alla domanda «A cosa serve la letteratura?» Borges rispondeva con un’altra domanda: «A cosa serve un tramonto?». Quella dello scrittore argentino è una replica sottile, alla quale tuttavia proveremo ad aggiungere un corollario.
La letteratura, come e più di ogni altro linguaggio funzionale alla rappresentazione della realtà, è oggetto sistematico dell’attacco da parte del potere specie in quelle contingenze della Storia in cui questo è impegnato ad assicurare la propria sopravvivenza, consapevole della forza con cui le parole della verità sono in grado di provocare pericolose crepe nel consenso generale. L’intervento della “polizia del pensiero” ha per scopo manipolare e corrodere, possibilmente fino all’eliminazione, la funzione della letteratura e il suo potere di rappresentazione simbolica. La censura opera dunque un attacco mirato e sensibile nei confronti del discorso inteso come concetto di verità, messo in discussione proprio nel momento in cui all’interno delle pratiche e delle esperienze legate al sapere, al linguaggio e in generale alla conoscenza, viene svelata la presenza di un’ideologia. Spesso queste dinamiche, facilmente ingrandite dalla lente della critica se osservate a posteriori, nel loro processo storico di antagonismo e resistenza, costituiscono una corrispondenza, realizzata sul piano della cultura, ai processi di liberazione politica, di democratizzazione e non di rado di rivoluzione. La letteratura, dunque, oltre a svelare i piani del nemico, a tessere la tela dove resterà impigliato chi proverà ad attaccarla, risponderà con il potere della parola laddove proprio questa ultima costituirà la preda designata.
Oltre a riflettere e indagare sulle pratiche censorie, sui loro sistemi e strumenti e sugli attori che le conducono, i saggi di questo volume tentano di approfondire il rapporto che si crea fra la censura come testo in sé, come negazione e come rovescio di un significato, come assenza, e la letteratura come campo d’azione dove si realizza questo processo e dove, al contempo, vi si oppone una resistenza attraverso lo svelamento, la parodia, l’allegoria o perfino, posizione più estrema, radicale, eppure praticata, la sofferta rinuncia. La censura penetra nell’esperienza scavando un fossato attorno all’interdetto cercando di rendere impraticabile il suo esiguo ma pericolosissimo territorio. Ciò che resta in luogo dell’interdetto e dell’illusione della sua cancellazione è un’assenza.
Poiché nel linguaggio complesso della letteratura ogni testo è in grado di offrire le risorse per la decostruzione dell’ideologia che in esso è compresa, si è cercato di elaborare una lettura critica dell’assenza prodotta

dall’apparato censorio per ricostruire i significati che l’autorità ha ridotto in cenere. Seguendo la traccia che da Derrida conduce alla struttura logica della lingua come sistema differenziale, recuperiamo l’assioma secondo il quale il segno possiede un significato solo in virtù della sua differenza dagli altri “pezzi” del vocabolario. Il significato dipende dunque anche da ciò che non è, ovvero proprio da ciò che il segno esclude. Pertanto, nelle parole che uno scrittore licenzia è contenuto anche ciò che del suo testo è stato eliminato: anche lì, dunque, va cercato e decodificato il suo messaggio. E forse è proprio per queste ragioni e a causa dei pericoli in esse impliciti che i censori e i dittatori, generalmente, aborrono la letteratura (anziché un livre de chevet, il generalissimo Franco teneva appoggiata sul comodino la sinistra reliquia di una santa) e temono le lingue che non comprendono.
Fra le dodici tesi aberranti con cui “contro il distruttivo spirito ebraico” la letteratura, la filosofia e la scienza si incenerivano nell’Oberplatz di Berlino, ve ne era una particolarmente sofisticata che recitava: «l’ebreo che scrive in tedesco, mente». Con questo agghiacciante assioma si cercava di attribuire, secondo un sofisma razzista, lo statuto di menzogna alla lingua patria, risemantizzandola implicitamente nella negazione della verità se utilizzata da chi fosse considerato allotrio. La diretta conseguenza avrebbe significato un’ineluttabile condanna al silenzio. La lingua perdeva la sua virtù di accoglienza e di mediazione e, decretando una sorta di protezionismo nei suoi confronti, si covava in questo modo l’illusione di metterla al riparo dalla sovversione. Nel 1934 scriveva Herman Broch: «Un singolare disprezzo della parola, quasi un ribrezzo di fronte alla parola si è impossessato dell’umanità. La nobile fiducia che gli uomini possano l’un l’altro, attraverso la parola e la lingua, convincersi è andata radicalmente persa; parlare ha assunto un significato negativo (...). Un pesante mutismo grava sul mondo (...) Il mutismo dell’assassinio» (1).
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Nel febbraio del 2008, presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena, si sono svolte due Giornate di Studio sul tema “Letteratura e censura”. Questo volume ne raccoglie gli interventi, articolati secondo una prospettiva comparatista e dunque rapportati a lingue, letterature e territori culturali diversi. Anche l’arco cronologico in cui si inquadra la materia, come si vedrà, abbraccia epoche lontane fra loro, spaziando dal Settecento alla contemporaneità, nella speranza di offrire un utile apporto allo stato dell’arte, invero ancora lacunoso.
Antonio Prete apre la rassegna dei contributi con una digressione teorica sulla natura del rapporto fra letteratura e censura che si sofferma sulla via del mascheramento e sulla via dell’altrove come fughe e meccanismi elusivi nei confronti del potere e sul rapporto – spesso sottovalutato – fra critica e censura. Alle laceranti e spesso addirittura insondabili ragioni che conducono lo scrittore alla pratica, considerata violenta, dell’autocensura si riferisce la testimonianza di Giuseppe Genna.
Un repertorio di casi paradigmatici prende avvio dal Romanticismo tedesco con Paola Del Zoppo, che analizza il ruolo degli editori e dei librai nel processo di abolizione della censura letteraria in Germania fra Settecento e Ottocento. Alex Falzon, attraverso una breve storia della censura teatrale in Inghilterra riporta il caso della Salomé, atto unico di Oscar Wilde che subì l’intervento del lord ciambellano, censore di corte. Alla letteratura francese sono dedicati gli studi di Catherine Maubon, che ricostruisce con rigore filologico la vicenda giudiziaria che vide coinvolto Baudelaire nell’occasione della pubblicazione dei Fleurs du Mal, e di Andrea D’Urso, che dedica il suo contributo al primo dei due numeri hors série della rivista parigina “L’Archibras”, pagina del surrealismo sessantottino, imputato di oltraggio al Presidente della Repubblica, di apologia di reato e di diffamazione nei confronti della Polizia. Susanna Spero approfondisce il complesso rapporto fra Beckett, colpito dalla censura irlandese nell’opera e nella persona attraverso una sorta di condanna all’invisibilità e la cultura del suo paese di origine, chiusa in quell’anacronistico folklorismo nazionalista sedimentato anche grazie a una strategica “sterilizzazione della mente” condotta dalle liste del Censorship of Publications Act. Gianfranca Balestra, spostando il punto di osservazione sulla letteratura angloamericana, si sofferma fra l’altro sulle ripetute interpretazioni e ridefinizioni a cui la cultura giuridica statunitense, in teoria paradigma della democrazia, ha sottoposto il Primo Emendamento della Costituzione: lo spunto è offerto da Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, fra i testi più rappresentativi dell’ossessione distruttiva nei confronti del libro da parte del potere, e dal poema Howl, di Allen Ginsberg, a lungo censurato. Sara Tagliacozzo, riferendosi alla parola che nelle allegorie nazionali africane è spesso stata repressa e che invece rappresenta un contro-canto delle società contemporanee, riflette sulla trasformazione di elementi propri del discorso di liberazione anticoloniale (le allegorie nazionali africane secondo il noto paradigma proposto da Jameson) negli elementi demagogici di un discorso autoritario di regime.
Di seguito, una rete di riflessioni analizzano il rapporto fra letteratura e censura ottenendo una sorta di radiografia della res literaria nei regimi della modernità.

Nello specifico Marit Rericha considera il caso dell’ex Repubblica Democratica Tedesca ragionando sui criteri secondo i quali agisce una censura immanente e silenziosa, modellata sulla lezione sovietica, e dove l’autorità, sempre raccordata alle direttive del Partito Socialista, si occupa anche di fornire “assistenza ideologica” all’editoria. Dell’Unione Sovietica, con una sorta di cronologia novecentesca del controllo censorio e dei suoi “quattro livelli” scrive Duccio Colombo. Sempre in ambito europeo, costituiscono una sorta di trittico sul fascismo portoghese il saggio di Cecilia Pero sulla retorica del discorso ideologico dell’Estado Novo, quello di Clelia Bettini sulle pratiche censorie e sulla propaganda salazarista alla luce delle analogie con i regimi nazista e fascista italiano, e quello di chi scrive, sulle strategie di resistenza alla censura messe in atto dall’intellettuale (nella fattispecie lo scrittore José Cardoso Pires) durante il passaggio di potere da Salazar al suo delfino Marcelo Caetano. Lo spostamento geografico verso l’America latina, sempre nel quadro novecentesco dei totalitarismi e delle loro dinamiche di controllo nei confronti della letteratura, ci introduce, grazie al vaglio di Antonio Melis, al caso cubano relativo a una sorta di caccia alle streghe mossa contro opere e autori – anche di grande spessore come è il caso di Cabrera Infante – considerate “controrivoluzionarie” e dunque messe al bando dal potere all’invisibilità. Célia Tolentino e Mário Medeiros mettono in risalto la funzione testimoniale insita nell’opera letteraria partendo dal Brasile della dittatura militare e dalla cronaca della detenzione dello scrittore Renato Tapajós, redatta in carcere dall’autore stesso. Analogamente, Alberto Sismondini riporta le vicende sofferte dall’intellettuale brasiliano Salim Miguel e la narrazione, ancora una volta autobiografica, della sua prigionia kafkiana nel Brasile degli anni ’60. Nell’Argentina dei generali, infine, si muovono le indagini di Fernanda Bravo Herrera e di Maria Beatrice Lenzi: la prima dedicata alle riflessioni dell’intellettuale Ricardo Piglia intorno alla letteratura, intesa, con i suoi meccanismi di resistenza e smascheramento, come configurazione di uno spazio antagonista al discorso egemonico elaborato dallo Stato; la seconda, dedicata proprio all’analisi di questo discorso – ancora una volta impostato sulla dicotomia fra il concetto di “valore” e le minacce di sovversione – e alla censura nell’ultima dittatura militare (1976-1983) che ha dominato il paese latinoamericano, segnandone indelebilmente la Storia recente.
Sarebbe errato pensare che uno sguardo storicizzato sull’argomento possa in qualche modo invitarci a considerare il rapporto fra letteratura e censura come segno di stagioni politiche superate, lontane nel tempo e definitivamente archiviate. Il peso specifico del controllo censorio, delle pressioni operate più o meno velatamente da parte dell’autorità (in tutte le sue forme, da quelle chiaramente individuabili a quelle più nascoste) nei confronti dello scrittore, la condanna del silenzio e dell’oblio a cui spesso, grazie a strategiche connivenze in cui sono coinvolti editoria, critica e istituzioni, è emarginata un’opera letteraria, gravano ancora sulla cultura del nostro tempo e rappresentano materia dell’oggi e del qui, non solo dell’ieri e dell’altrove.
Note
1. Hermann Broch, Lo spirito e lo spirito del tempo, in “Auto da fé”, 1, Milano, 2000, trad. Barbara Griffini (Geist und Zeitgeist. Essays zur Kultur der Moderne, Frankfurt/Main, Suhrkamp,
1997 [1934]).