Home > 11 - Che il gallo canti pure. Ritratti > L’urlo e il furore di Jacques Brel

11 - Che il gallo canti pure. Ritratti

L’urlo e il furore di Jacques Brel

martedì 16 marzo 2004

Dopo Brassens, Brel. Nell’ordine alfabetico e nella data di apparizione su SM, non certo nella grandezza (fino a che punto ha senso chiedersi se ?® "pi?? grande" un gigante, un titano o un ciclope? Socrate, Platone o Aristotele? Omero, Dante o Shakespeare? Mazinga, Gig Robot d’acciaio o Goldrake? E per noi il terzo della serie sar?† L?©o Ferr?©). Guidati dal sacro fuoco del (loro) collega Alessio Lega, uno dei pi?? autorevoli esperti che la canzone possa vantare. lf

Qui il catalogo dei dischi acquistabili on line di Jacques Brel.


(Quest’articolo mi piace dedicarlo alla memoria di Herbert Pagani e Duilio Del Prete, i primi che si diedero da fare per esportare in italiano l’arte del Grand-Jacques).

Herbert Pagani

L’ora dello spettacolo si avvicina e monta rapidamente quel vortice di panico e mal di stomaco che accompagnò tutta la carriera di cantante di Jacques Brel.

Dai primi e frustranti tentativi di fronte all’indisciplinato e irrispettoso pubblico dei cabaret, fino alla folla adorante dell’Olympia, che ancora lo acclamava per ore dopo

Duilio Del Prete

l’uscita di scena, Brel affrontò ogni esibizione come un toro affronta la corrida: una febbre... una tensione oscura che lo faceva vomitare ogni volta che doveva apparire in pubblico, e se in un giorno aveva tre concerti quel giorno vomitava tre volte.

Vedere ancor oggi, in una qualche ripresa televisiva, Brel esplodere nello spasmo di ogni canzone, vivere, quindici volte in una sera, quindici vite diverse, morire quindici diverse morti, bruciare di quindici diversi amori, urlare di quindicimila rivolte... ancor oggi è un’esperienza incredibile... difficile immaginare cosa dovesse essere per il pubblico messo di fronte a questa sublime voce, calda e tesa, venata di asprezza, ma perfetta al di sopra del canto, dell’intonazione... perfino al di sopra dell’interpretazione, della dizione (comunque perfetta)... al di sopra perfino della stessa vita: un concentrato, piuttosto, della vita, in tre minuti, verrebbe da dire.
Non poteva durare, e in effetti non durò a lungo.


La febbricitante vita di un genio: "...C’est, peut-être, Grand Jacques"

Jacques Brel nacque nel 1929 in una famiglia dell’alta borghesia fiamminga inurbatasi a Bruxelles e santamente devota alla causa dell’arricchimento, della promozione sociale, del culto dell’ipocrisia e della forma, tanto da dimenticare la lingua materna e da non parlare in casa che il francese, la lingua della nobiltà belga.
Jacques, morbosamente attaccato alla madre, figura malaticcia, venuta a mancare anzitempo e succube del marito, un padre-padrone insensibile ad altre ambizioni che non riguardassero potere e denaro, fu subito e per sempre un ribelle, un inquieto.
Abbandonò presto gli studi, s’impegnò in associazioni di ispirazione cristiana, nel cui pauperismo gli parve di intravedere la stessa sua esigenza di radicale rivolta contro la società del tronfio e volgare benessere da cui proveniva, ovviamente si sarebbe ricreduto diventando anzi un fustigatore dell’untuosità cattolica della sua gente ("nazisti durante le guerre/e cattolici in mezzo/non fate che correre/dal fucile al messale"); prestissimo conobbe la passione amorosa e si sposò mettendo al mondo nel giro di qualche anno tre figlie; giocoforza arrivò l’impiego nell’officina paterna, sopportato lo spazio di pochi mesi e terminato nello scandalo familiare di quando il figlio del padrone venne scoperto dai suoi operai cantare in sordide taverne "i sentieri che portano all’officina/li vorrei bruciare".
E allora via... per la sua prima grande fuga: a Parigi da solo a cercare fortuna, saltando i pasti, elemosinando serate, raccogliendo a volte l’ironia di colleghi, quali Georges Brassens (che in seguito sarebbe diventato suo grande amico e ammiratore) che, a cagione delle sue prime liriche intrise di fervore ottimistico, lo chiamava "frate Brel"...
E poi pian piano il successo, sempre più enorme, mondiale: una delle star più acclamate del suo tempo... e lui in fuga da un teatro all’altro, urlando sempre più forte contro ogni conformismo, contro ogni morte: un’eterna lotta fra l’adolescente che difende coi denti il proprio diritto al sogno e l’adulto che mira al genocidio della speranza, per mettersi ai piedi le pantofole d’acciaio, e farsi trovare morto già un bel pezzo prima che la morte bussi alla sua porta, poiché questa è la cura che assumiamo contro la paura della fine: evitare di vivere.
Più i borghesi affollavano i teatri in cui Jacques cantava, più violenta diventava la sua rivolta contro i militari (La colombe, Au suivant, Les singes), i conformisti (Ces gens la, Les bourgeois, L’age idiot), i preti e dio stesso (Le dernier repas, Les dames patronesses, Les Bigottes)... alla fine contro il suo stesso ruolo di cantante (La, la, la..., Le cheval)... Costretto con le spalle al muro in un personaggio invece che in una persona, Brel, all’apice della carriera, nel fulgore dei suoi trentasei anni, al vertice di una maturità artistica e interpretativa mai eguagliata, mollò tutto, ancora una volta in fuga verso territori mai percorsi.

Aveva però in quegli anni tracciato il percorso di una cinquantina di canzoni di una bellezza musicale e lirica assolutamente eccezionale, canzoni d’amore devastanti (Ne me quitte pas, Mathilde, La chanson des vieux amants), epiche battaglie fra la vita e la morte, l’innocenza e la grettezza, l’idealismo e l’ipocrisia (J’arrive, Mon enfance, Regarde bien petit), aveva meravigliosamente celebrato il suo paese, fustigandone al contempo gli abitanti (Le plat pays, Marieke, Les flamandes).
Al culmine, forse, di tutta la sua produzione troviamo una canzone insieme eroica e lirica, una celebrazione dell’esistenza tragica e titanica dei marinai del porto di "Amsterdam", un inno straziante e incontenibile.

Jacques Brel girò in seguito qualche film, buono o meno buono, mise in piedi una commedia musicale su Don Chisciotte, di cui ci resta un bellissimo disco di canzoni di scena... poi un cancro lo braccò per cinque anni durante i quali si dedicò alle sue passioni: il volo e la vela. Attraversò il mondo intero e alla fine fece tappa alle isole Marchesi, dove viveva trasportando medicine a beneficio di quegli indigeni che lo rassicuravano "parlando della morte/come si parla d’un frutto"...
Rientrando di tanto in tanto a Parigi per le cure, tornò con noncuranza in studio di registrazione e licenziò, poche settimane prima di morire nel 1978 (e non ci si crede a come canta questo quarantottenne con un solo polmone!), un disco sublime, che di sole prenotazioni vendette, a scatola chiusa, due milioni di copie: è difficile scordare la memoria del fuoco.
Oggi Jacques Brel è seppellito a Thaiti, a tre passi dalla tomba di Gaugin, e noi siamo qui...


L’arte di Brel ovvero La feroce unità

Brel, Férre, Brassens

Contrariamente ai suoi giganteschi colleghi, Georges Brassens e Léo Ferré, che seppero trasportare la canzone oltre le colonne d’Ercole d’ogni tradizione per dargli valore letterario e musicale altissimo e inedito, Jacques Brel sta nella forma "canzone" come un topo nel formaggio, senza nemmeno sognarsi di spingere le sue ambizioni al di fuori della struttura; la sua arte ineguagliabile risiede piuttosto in una feroce unità.
Jacques Brel sembra comporre la canzone nel momento stesso in cui la canta: l’uso delle forme quali il crescendo costante, l’inestricabile coesione fra forma e contenuto, di modo che (come notava mirabilmente Guido Armellini), quando parla dei vecchi assume un metro lento e monocorde, quando canta dei timidi il verso si fa nevrotico e singhiozzante, riesce a dribblare ogni rischio di didascalismo, proprio per l’ineffabile interpretazione, talmente calata nel momento, da non potersi più distinguere dalla scrittura stessa.
Veramente in Brel non è distanziabile in nessuna maniera il verso, la nota, la voce, il canto e il gesto... tutto perfettamente a tempo, anzi il tempo stesso s’arresta con un inchino davanti a una simile eruzione di vitalità.

Georges Brassens guarda al microscopio la lingua, con tutta la sua musicalità, e swinga la filastrocca impagabile della sua poesia distanziata e ironica, l’interiore essenziale rispetto dei valori umani lo rende emozionato e sensibile; Léo Ferré viene invece da una profondità ultramarina, stellare, la sua tenerezza é violenta, quasi insopportabile, la sua rabbia è divina, si misura coi grandi: inveisce come Beethoven, come Rimbaud, affianco a Baudelaire e la sua voce è la voce dell’altrove.
Brel è ora e subito, mangia e vomita i sentimenti, è un nodo febbrile che non può esser rimandato, la forma chiusa gli è congeniale perché non può perdere tempo ad attardarsi nella riflessione sugli utensili, ha altre priorità: deve respirare e urlare, bruciare e fuggire, e se è costretto, per un’ora scarsa, sotto i riflettori eccolo esplodere incontenibile fra musica e parole. E’ l’inestricabile presenza della vita, la permanenza del fiume.

La cascata è oggi perduta, ma resta il suo tuono, la sua forza, la sua freschezza, il suono: ascoltatelo, può cambiarvi la vita!



Qui il catalogo dei dischi acquistabili on line di Jacques Brel.
Qui la discografia completa di Jacques Brel.
Qui l’official site.


Filmografia di Brel :

1967 : Les risques du métier (film di Cayatte)
1968 : La bande à Bonnot (di Fourastié)
1969 : Mon oncle Benjamin (di Molinaro)
1970 : Mont-Dragon (di Valère)
1971 : Les assassins de l’ordre (di Carné); Franz (di e con Brel)
1972 : L’aventure, c’est l’aventure (di Lelouch); Le bar de la fourche (di Levent)
1973 : Le far West (de et avec Brel); L’emmerdeur (di Molinaro)


Questo articolo prosegue la pubblicazione in rete della rubrica dal titolo "...e compagnia cantante" tenuta da Alessio Lega sulle pagine di ’A rivista anarchica’, nell’ambito di un progetto sviluppato con Paolo Finzi, che qui torniamo a ringraziare.

Messaggi